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Ancora sul ceto politico

di Marino Badiale - 22/05/2014

Fonte: main-stream


Continuo il discorso sul ceto politico, iniziato in un paio di post di qualche tempo fa (questo e questo) che avevano suscitato un po' di dibattito fra i nostri lettori. Poiché alcuni passaggi di quei post erano forse un po' stringati, provo adesso ad argomentare le mie tesi in modo più disteso, cercando di inserirle nelle riflessioni che vado facendo da tempo.
Tempo addietro, in una serie di lavori scritti assieme a Massimo Bontempelli, (per esempio questo e questo) avevamo introdotto la nozione di “capitalismo assoluto”, con la quale cercavamo di esprimere quello che ci sembrava uno degli aspetti più significativi dell'attuale organizzazione sociale ed economica, il fatto cioè che negli ultimi decenni la logica capitalistica del profitto si è estesa all'intero ambito sociale. Riporto un passaggio tratto da “La Sinistra rivelata”, che sintetizza questi concetti:


“Si tratta della completa pervasività sociale del capitalismo storico (…) ogni aspetto della società umana, compresi i corpi biologici degli individui e i caratteri della loro personalità, viene sussunto sotto il capitale come materia della produzione capitalistica (…). Chiamiamo capitalismo assoluto il capitalismo storico che è penetrato in ogni poro e in ogni profondità della vita umana associata. Esso è assoluto perché la sua logica di funzionamento regge completamente ogni ambito della vita, senza più lasciare alcuna autonomia di scopi e di regole ad altre istituzioni. L'azienda, cioè l'istituzione che promuove la produzione e la circolazione della merci in funzione del profitto, diventa allora non più soltanto la cellula del sistema economico, ma l'alfa e l'omega della società, perché la società è diventata una società di mercato, in cui ogni bene pubblico è stato convertito in bene privato, e ogni bene privato in merce. Di conseguenza ogni istituzione viene concepita come azienda, persino l'ospedale, persino la scuola, e persino l'intero paese, che non è più nazione, ma azienda, l' “azienda-Italia”.
(M.Badiale-M.Bontempelli, La sinistra rivelata, Massari editore, pagg.171-172)”



L'esempio della scuola può forse far comprendere meglio la sostanza della questione. La scuola pubblica nazionale nasce nell'Ottocento come espressione delle borghesie liberal-nazionali, e ne esprime quindi i valori di fondo. Essa ha quindi un aspetto “conservatore” rispetto alle gerarchie sociali, aspetto che è stato ampiamente denunciato a partire dalla contestazione degli anni '60 del Novecento. Il punto fondamentale per capire la novità storica del capitalismo attuale è il seguente: i borghesi conservatori che nel XIX secolo creano la scuola pubblica nazionale vogliono certo farne una istituzione funzionale alla riproduzione di quel determinato assetto sociale. Ma non vogliono farne una azienda. L'idea che la scuola sia un'azienda, che la logica capitalistica del profitto debba  costituirne il fondamento, sarebbe sembrata ovviamente un'assurdità agli occhi dei liberali ottocenteschi. La scuola doveva sì funzionale alla riproduzione di un assetto sociale dato, ma la logica interna del suo funzionamento, con la quale espletava anche quella sua funzionalità, era rispettata nella sua autonomia. Lo stesso discorso si può ripetere per altri ambiti sociali. La novità storica della forma attuale del capitalismo, che lo differenzia dalle forme precedenti, è il fatto che ogni ambito sociale è costretto a funzionare non secondo la propria logica ma secondo la logica del profitto. Tutti gli ambiti sociali diventano aziende che devono produrre un profitto.
In questo inedita situazione il ruolo della politica subisce una serie di mutamenti che devono essere individuati con precisione per articolare una politica antisistemica. La cosa curiosa è che, in questa situazione, si possono fare, a proposito della politica, affermazioni apparentemente opposte, e che sono corrette (e non contraddittorie) pur di intenderle in modo adeguato. Si può infatti dire (e di fatto si sente molto spesso dire) che la politica non conta più nulla perché al comando della società c'è l'economia: e questa affermazione in effetti è in assonanza con quanto detto sopra, perché se la logica del profitto invade ogni ambito della società, quale spazio può mai restare per la politica? D'altra parte tutti gli eventi contemporanei (a livello locale, nazionale  e internazionale) ci dicono che il ceto politico è sempre al centro di una rete di potere che coinvolge l'intero ceto dominante. Ma se la politica non conta nulla, perché mai le oligarchie capitalistiche dovrebbero accettare di dividere i propri profitti con questo vorace ceto politico? Sembra quindi, da questo punto di vista,  che tale ceto conservi un suo ruolo essenziale, una sua centralità,  anche nella fase attuale del “capitalismo assoluto”.
Come ho detto sopra, penso che entrambe queste posizioni siano vere, pur di intenderle in senso opportuno. “La politica non conta più nulla” significa che essa non può più esprimere nessuna istanza che sia alternativa, ma anche solo relativamente autonoma, rispetto alla logica aziendale del profitto e della competitività. Di conseguenza la politica non è più il luogo dove si confrontano idee diverse sull'organizzazione della società e della vita collettiva. Si tratta di un fenomeno ben noto, da tempo descritto correttamente in termini di “pensiero unico”. Chiunque vada al potere in un paese occidentale è costretto nella ferrea logica dell'economia capitalistica e non ha quindi nessuna possibilità di compiere scelte effettive (se non impostando una coerente politica anticapitalistica, ma questo è ovviamente al di là dell'orizzonte mentale dei ceti politici contemporanei). D'altra parte, all'interno di questa dominanza “totalitaria” della logica capitalistica, il ceto politico conserva una sua funzione fondamentale, quella della mediazione e della persuasione, e questo in due sensi diversi. In primo luogo, nel momento in cui la logica capitalistica invade tutte le sfere dell'azione sociale, essa ha effetti destrutturanti sul funzionamento degli ambiti della vita umana. Tutto ciò fa nascere continuamente problemi ai quali non è possibile dare una risposta, all'interno dell'attuale configurazione sociale. Ma se non è possibile una risposta vera, bisogna almeno fare un'opera di mediazione e di convincimento. Gli insegnanti devono essere convinti ad accettare la distruzione della scuola pubblica. Gli abitanti delle zone devastate dalle “grandi opere” devono essere convinti ad accettarle, con qualche contentino. I lavoratori devono essere convinti ad accettare la continua riduzione dei diritti, i cittadini quella dei servizi. È questa una funzione fondamentale svolta dal ceto politico. Per usare una brutta espressione entrata nell'uso, i politici sono quelli che “ci mettono la faccia”.
In secondo luogo il ceto politico ha la funzione di mediazione fra i diversi strati dei ceti dominanti. Per fare affari con l'intero ambito della vita sociale occorre coinvolgere diverse competenze (amministrative, legali, tecniche), occorre mediare con gruppi di pressione molto diversi, mettere d'accordo diversi gruppi affaristici: e questo è naturalmente il lavoro del mediatore politico.
Questi aspetti della politica contemporanea, ovviamente, non rappresentano di per sé delle novità. La politica è sempre stata anche questo. La novità contemporanea sta nel fatto che oggi essa è solo questo. In altri tempi questi aspetti, pur presenti, erano subordinati a progetti diversi di società, a idee diverse e contrapposte sulla direzione da imprimere al movimento sociale. Oggi qualsiasi possibilità di una contrapposizione effettiva su questo piano è abolita, perché il movimento sociale è lasciato in balìa della dinamica capitalistica, e la politica si riduce esclusivamente a mediazione affaristica. Inoltre, nella sua affannosa ricerca di profitti in una situazione di sostanziale difficoltà nella crescita, di stagnazione, di rendimenti decrescenti, l'affarismo del ceto politico-imprenditoriale non può ovviamente fermarsi ai confini del lecito: l'illegalità è del tutto consustanziale a tale ceto, nella situazione attuale. Siamo cioè di fronte alla fusione di politica ed economia dentro un ceto dominante articolato in cordate affaristico-mafiose contrapposte, in lotta continua per la spartizione del bottino, e solidali nella conservazione dell'attuale organizzazione sociale (un filosofo marxista morto ere geologiche fa parlerebbe, credo, di “solidarietà antitetico-polare”).
Il malaffare, la corruzione diffusa a tutti i livelli sono solo l'aspetto più evidente e “spettacolare” della situazione che mi sono sforzato di descrivere.
Il problema fondamentale che ha di fronte chiunque voglia anche solo pensare ad una politica antisistemica, ad un percorso di mutamento di una organizzazione sociale ed economica che sembra destinata a trascinare l'umanità nell'abisso, il problema fondamentale, dicevo, è che qualsiasi idea di una politica alternativa si trova di fronte questo ceto politico saldamente installato in tutti i gangli del potere. Non è possibile anche solo pensare ad una prospettiva politica di salvezza se non ponendo come prima condizione l'eliminazione dell'attuale ceto politico, nella sua totalità. Dicendo che questa è la “prima condizione” non intendo dire che sia la cosa più importante, l'elemento caratterizzante di una politica anticapitalistica: intendo dire che è condizione necessaria, che è il primo passo da compiere, che se non si fa questo è impossibile fare qualsiasi altra cosa.
In questo senso l'atteggiamento di sufficienza con cui una parte del mondo “antagonista” guarda alle posizioni anti-casta del Movimento 5 Stelle mi sembra un errore di prospettiva. È vero che dire “no alla casta, no al ceto politico” non è un programma politico, e non dice nulla su cosa si vuol fare, dopo essersi liberati della “casta”. Ma è anche vero che questo è il primo passo che è necessario fare. In questo senso le posizioni critiche verso il “populismo anti-casta” mi ricordano le obiezioni che mi sono sentito sempre fare dai marxisti, quando discutevo del problema dell'euro: l'obiezione cioè che “il problema non è l'euro, ma il capitalismo”. Obiezione alla quale ho sempre risposto, fino ad averne la voce roca, che nessuno ha mai  combattuto contro quella astrazione che è il “capitalismo”: si combatte contro le forme concrete in cui esso si realizza nella storia. Qui ed ora (cioè: oggi in Italia) la forma concreta del dominio delle oligarchie capitalistiche è l'euro, ed è quindi contro l'euro che bisogna mobilitarsi. Allo stesso modo, il ceto politico attuale è lo strumento concreto della penetrazione capillare della logica capitalistica in ogni angolo della società. La lotta contro l'attuale “capitalismo assoluto” non può che iniziare come lotta intransigente contro l'intero ceto politico, che è l'ostacolo concreto ad ogni politica di indipendenza e sostegno ai ceti subalterni.