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Perché l’Europa sta sbagliando?

di Enrico Turco - 22/05/2014

Fonte: millennivm


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Una cosa possiamo riconoscere con certezza: l’unione monetaria, così com’è, ha fallito.

Questo è quanto ha recentemente affermato uno dei fondatori della moneta unica, Frits Bolkstein, nel convegno “Un’Europa senza euro”, tenutosi a Roma il 12 aprile. Tale constatazione è emersa anche nella conferenza che il gruppo ULD – Studenti di sinistra ha organizzato in Università Cattolica (“EURO: quali scenari per il futuro”). Ad ammetterlo erano sia i relatori del versante europeista, l’On. Fassina e il prof. Vaciago, sia, chiaramente, quelli del versante euroscettico, il prof. Borghi  e il prof. Fusaro. A cambiare erano poi le conclusioni che ne venivano tratte: da un lato chi dice più Europa, dall’altro chi dice fuori dall’euro.

Che la moneta unica fosse destinata a fallire era noto da tempo. L’economista Robert Mundell vinse il Premio Nobel per la “Teoria sulle aree valutarie ottimali” del 1961 – il  Nobel glielo diedero 38 anni dopo, nonostante il paper fosse breve, chiaro e privo di formule o grafici. La sua teoria era molto semplice: un’unione monetaria in paesi fortemente eterogenei tra loro avrebbe costretto gli stati a scaricare gli squilibri causati da shock esogeni direttamente sul mercato del lavoro. Non potendo svalutare la moneta, per recuperare competitività le imprese sarebbero state costrette a svalutare i salari, qualora non si fosse disposta una regolamentazione comune del mercato del lavoro. Questo i padri fondatori dell’unione monetaria lo sapevano bene, anche a causa del recente fallimento dello SME, il regime di cambio fisso tra i paesi della futura area euro adottato a partire dal 1979. Nel 1992 divenne insostenibile per l’Italia, che fu costretta ad uscirne e a svalutare la lira, una svalutazione che, tra l’altro, fece molto bene al nostro Paese consentendogli di recuperare la crescita. I padri fondatori sapevano inoltre che un’eventuale crisi, come quella che si è manifestata nel 2008, avrebbe pesantemente colpito i paesi periferici, i quali dopo l’adozione dell’euro hanno accumulato enormi deficit di bilancio dei pagamenti: perdendo competitività a causa di una moneta troppo forte importavano sempre di più rispetto quello che esportavano.Tale differenza veniva finanziata dalle banche dei paesi nordici, causando un’esplosione del debito (privato) tra imprese e famiglie dei PIIGS. La crisi finanziaria non ha fatto altro che far emergere questi squilibri, poiché imprese e famiglie si trovavano in difficoltà a pagare i loro debitie le politiche di austerità certo non hanno giovato.

Tuttavia, continuare a ribadire gli errori commessi in passato da chi ha condotto questa  transizione non sembra una strategia efficace ed è del tutto contrario alle intenzioni che mi hanno spinto a scrivere.

Abbiamo tutti riconosciuto il fallimento di questo sistema: chi non lo fa agisce o per ignoranza, o per malafede. Siamo inoltre consci della centralità e dell’importanza del problema, la vera causa di questa crisi economica e sociale da cui non riusciamo a venire fuori. Mettiamo da parte la burocrazia, la corruzione, l’evasione, la casta, ecc. tutti elementi che certamente è giusto correggere, ma che non centrano il vero problema. Loro unico compito è riempire  i dibattiti dei talk show televisivi di discorsi vuoti, distogliendo la nostra attenzione da ciò che realmente conta. Sono problematiche che già c’erano, anche quando crescevamo.

Contrariamente a quello che si vuole pensare e senza voler difendere la totale afasia di una classe politica incapace di fornire risposte concrete, non è neanche prevalentemente colpa delle mancate, e tanto declamate, riforme strutturali, posto di conoscere quali siano queste riforme strutturali, già avanzate in parte dal governo Monti, ma prive di efficacia. Ciò è motivato semplicemente dal fatto che se tutti i paesi dell’Eurozona avessero adottato quel tipo di riforme, volte a comprimerne la domanda interna cercando di sfruttare la domanda estera attraverso le esportazioni (come ha fatto la Germania, e lo dimostra il 7% costante di surplus di bilancia dei pagamenti), nessuno di questi paesi ne avrebbe tratto profitto, oltre al fatto che avrebbe un’economia domestica affossata.

Premesso ciò, bisogna concentrare i nostri sforzi e la nostra attenzione su quello che ormai noi tutti siamo conviti sia la causa di questi problemi strutturali: l’euro. Le cose vanno chiamate con il loro nome.

Ora occorre dare le giuste risposte al vero problema ed è qui che le posizioni divergono, è qui che Borghi si trovava a sbraitare contro Vaciago. Si aprono due strade: affermare che “l’euro è il problema, rafforziamo l’Europa”, come fanno gli europeisti, o sostenere  che “se l’euro è il problema, usciamone”, gli euroscettici.

Gli europeisti riconoscono che la situazione non è sostenibile e che è frutto di un processo politico lasciato a metà, incompleto, quindi propongono di completarlo. Un altro Premio Nobel, Joseph Stiglitz, da tempo fortemente critico nei confronti della Troika e delle politiche da essa adottate, in un recente articolo (“Un programma per salvare l’euro”, dicembre 2013) evidenzia alcune mosse ben precise che a livello comunitario devono essere prese per salvare tale progetto. Tra queste figurano: reale unione bancaria, mutualizzazione del debito (eurobond), politiche fiscali e industriali coordinate e cambiamento delle politiche di austerità in politiche maggiormente orientate alla crescita. Il sogno ultimo degli europeisti sono gli Stati Uniti d’Europa. L’articolo conclude dicendo “l’euro può essere salvato, ma serviranno più che delle belle parole di fedeltà all’Europa. Se la Germania e gli altri Paesi non sono disposti a fare quanto necessario – se non c’è abbastanza solidarietà per far funzionare la politica – allora l’euro dovrà essere abbandonato per il bene del progetto europeo”. Qui entrano in campo gli euroscettici, i quali si pongono diverse domande a riguardo: i paesi hanno una reale volontà politica di proseguire su questa strada, Germania in primis? Quanto tempo occorre? Quanto tempo siamo ancora disposti a sopportare? Le giuste misure vanno prese, ma vanno perse adesso. Il prof. Andrea Terzi, alla conferenza di presentazione del suo libro “Salviamo l’Europa dall’austerità”, ha affermato che se ci fosse reale volontà politica queste decisioni potrebbero essere prese in un weekend. A tal proposito, segnali poco confortanti arrivano dal patto di governo tedesco firmato tra Schulz e Merkel nel novembre 2013: il leader socialdemocratico e capo della coalizione PSE ha preferito cedere all’istituzione del salario minimo, rinunciando agli eurobond. Questo pare essere un segnale abbastanza evidente da parte di una Nazione che attua politiche economiche finalizzate esclusivamente al perseguimento dei propri interessi piuttosto che a quelli dell’Unione.

Un altro errore che imputiamo ai fondatori della moneta unica è che sia stata istituita troppo in fretta. Dove è finita questa fretta di completare il progetto?

Gli euroscettici rispondono alle suddette domande con una proposta che apparentemente sembra meno difficile e intricata di quella degli europeisti: l’uscita dall’euro. Nessuno dice che sia una passeggiata, ma laddove questa possa sembrare l’unica via da prendere per salvare il Paese dal baratro, bisogna sfatare tanti miti diffusi a riguardo e concentrare le politiche per fare in modo che l’uscita avvenga nel modo più ordinato possibile. Non mi dilungherò in spiegazioni di come debba essere gestito il piano d’uscita, né sui possibili benefici che l’economia trarrebbe percorrendo questa strada. Nel dibattito scientifico e mediatico molti economisti se ne stanno occupando, tra tutti i prof. Alberto Bagnai, Claudio Borghi e Antonio Maria Rinaldi. È ora di mettere da parte ideologie o pregiudizi. È una cosa fattibile, anche unilateralmente, non facile, ma molto meno assurda di quanto certi soggetti che si identificano come economisti cercano di far credere.

Attenzione: ciò non significa ripudiare l’Europa, ma costituisce piuttosto un atto di fedeltà alla stessa, che così com’è sta finendo in mano a partiti estremisti, i quali, facendo leva sul malcontento popolare, trovano terreno sempre più fertile e avanzano nei sondaggi in vista delle prossime elezioni europee. Non significa tornare indietro, ma correggere il percorso e invertire la rotta verso una migliore Unione. Significa tornare a voler bene al proprio paese e fare in modo che si esca da questo incubo, stando in armonia con gli altri: dalla nascita della moneta lo strumento equilibratore e armonizzatore è sempre stato il tasso di cambio. Significa inoltre dare una risposta concreta ai tanti sconfitti di questa crisi e di questa unione monetaria, ossia alle imprese, agli imprenditori, ai lavoratori e a quelli, soprattutto, che un lavoro non lo riescono a trovare. Guardiamo a loro piuttosto che al tasso d’inflazione.

Il totale immobilismo politico è sconfortante: le attuali risposte, rappresentate da contentini o regalini, sembrano volte ad umiliare maggiormente chi già sta soffrendo. Servono misure drastiche. È una crisi epocale e va trattata come tale.

Bisogna fermarsi e chiedersi: qual è l’Europa che vogliamo? Ci sentiamo dire che questa è l’Europa della pace, dell’Erasmus, della libera circolazione di capitale e lavoro. Tutte grandi conquiste che nessuno mette in discussione. Ma è sufficiente tutto ciò? Siamo al solito conflitto che va avanti dal 1789: libertà giuridiche contro diritti sociali; il sistema economico neoliberista e liberale in cui ci troviamo tende a sacrificare sempre questi ultimi. Una Banca Centrale Europea che, a differenza di tutte le altre, dallo scoppio della crisi non ha ancora adottato politiche comuni volte alla riduzione della disoccupazione non può rappresentare l’Europa che vogliamo. Il tasso di disoccupazione nell’eurozona è del 12,1%, in Italia del 12,7% (in Germania solo del 5,2%); la disoccupazione giovanile è del 24,3%, in Italia del 42,3%. Pensate, dietro questi numeri ci sono vite. Vogliamo un’Europa più focalizzata sui diritti economici e sociali del lavoratori.

Per concludere, consideriamo l’euro come un incidente di percorso, ma siamo convinti che un’Unione più forte sia necessaria per il futuro del nostro continente. Se si vuole stare insieme si può, ma bisogna passare attraverso la creazione di istituzioni e regole per sviluppare processi democratici che compensino la perdita di sovranità dei paesi e consentano la cooperazione, che nulla ha a che vedere con la logica del mercantilismo e del beggar-thy-neighbour (derubare il prossimo). Se in questo modo non riusciamo a convivere, cambiamo strategia. Prendiamo atto del fallimento di questa unione monetaria, recuperiamo la sovranità monetaria che ci consentirebbe di evitare il collasso e, quando ci saranno le condizioni, riscriviamo insieme un’altra Europa: un’Europa dei Popoli, dove non vi sia un’imposizione omologata di trattamento, un’agenda comune a tutti imposta dall’alto, ma dove ciascuno Stato venga considerato e apprezzato per le sue differenze. Un’Europa in cui uniti, ma diversi, si può stare insieme.