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In Europa no all’ideologia del cosmopolitismo

di Marco Tarchi - Alessandro Franzi - 27/05/2014

Fonte: Linkiesta


Destinazione Bruxelles - speciale europee

Comunque vadano a finire le elezioni europee, le posizioni espresse dai movimenti euroscettici che provengono da una tradizione di destra hanno conquistato grande spazio nell’elettorato europeo e nel dibattito sulle condizioni sociali dell’Ue. Per capire la trasformazione in atto, al di là delle promesse elettorali di chi partecipa alla competizione, abbiamo rivolto qualche domanda a Marco Tarchi, docente dell’Università di Firenze che ha studiato a lungo il populismo e la destra, per un breve periodo negli anni Settanta l’ha anche frequentata, ma che rifiuta di essere accostato a sigle o schemi politici che probabilmente non hanno più nulla da dire: «Sono un cane sciolto». Tarchi è fra l’altro animatore della rivista Diorama letterario, che ospita anche contributi di intelletturali come Alain De Benoist, punto di riferimento per molti che in Europa guardano alla nuova destra. Ma il professore, convinto che non sia realistica l’uscita dall’euro ma che qualche cambiamenti vada fatto, invita a guardare oltre le etichette: «La destra della Le Pen per molti versi non è più tale», anche perché «in campo socioeconomico ha assunto posizioni tradizionalmente coltivate dalle formazioni politiche di sinistra, che, svoltando verso il liberalismo, le hanno abbandonate nelle sue mani».

Professor Tarchi, ritiene che questa Ue non abbia funzionato e perché? Condivide l’idea di smantellare l’eurozona?
Mi pare che nessuno o quasi, oggi, pensi che le politiche dell’Unione europea, negli ultimi anni, abbiano funzionato. Anche i più ardenti difensori di questa istituzione non fanno altro che parlare di riforme, necessità di cambiamenti radicali, inversioni della direzione tenuta. L’impressione diffusa è che l’Ue abbia peccato di rigidità, burocratizzazione, sottovalutazione di problemi cruciali (dall’impatto dei sempre crescenti flussi migratori alle ricadute sociali dei provvedimenti di austerità monetaria). Io sottolineerei altri punti: l’incapacità di gettare le basi di un’unione politica reale, la sudditanza pressoché assoluta alle strategie geopolitiche, militari e commerciali degli Stati Uniti d’America, anche quando queste andavano contro i suoi interessi; la testardaggine nel voler imporre un testo pseudo-costituzionale che limita eccessivamente la sovranità degli Stati membri e su cui in molti paesi la popolazione non ha potuto esprimere il proprio parere; la subordinazione di molte scelte alla volontà dei centri di potere finanziari; la sostanziale indifferenza dinanzi al problema fondamentale del riconoscimento e della promozione di un’identità continentale – che non potrebbe peraltro prescindere da una vera indipendenza, anche nei confronti degli ’alleati’ o partners. Quanto all’euro, mi sembra irrealistico e anche rischioso ipotizzarne la scomparsa. Credo che, però, la sua gestione debba essere più accorta, all’interno delle linee di azione in campo economico dell’Unione: la Bce non dovrebbe essere totalmente svincolata da un controllo politico, o meglio non dovrebbe dettare le proprie condizioni alla politica, come spesso di fatto è avvenuto.

Che Europa può essere un’Europa di nazioni?
Dipende dall’indirizzo che queste prenderebbero e dalla forme di integrazione e coordinamento, corrette rispetto alle attuale, che deciderebbero di scegliere. Il futuro (roseo) è dipinto dei colori dell’arcobaleno, il cosmopolitismo è assurto a credo ideologico obbligatorio, le differenze etnoculturali vengono demonizzate e chi le considera positivamente, mirando ad armonizzarle senza abolirle – e anzi rispettandole – viene fatto passare per un razzista mascherato e condannato all’ostracismo. Io non amo l’omologazione e le assimilazioni forzate, ritengo positivo il rispetto delle specificità di popoli e culture, detesto ogni forma di sciovinismo e le retoriche nazionalista, ma anche quelle universaliste. Mi piace un mondo dipinto di molti colori. L’Europa potrebbe dare un esempio.

La destra come quella di Marine Le Pen ha costruito il suo recente successo elettorale sulla critica all’Ue. Che tipo di destra è? Avrà, secondo lei, capacità di incidere anche dopo il voto, oltre la protesta?
È una destra che per molti versi non è più tale, o che comunque lo è sempre di meno. E che in campo socioeconomico ha assunto posizioni tradizionalmente coltivate dalle formazioni politiche di sinistra, che, svoltando verso il liberalismo, le hanno abbandonate nelle sue mani. Questo spiega perché, in molti paesi, i cosiddetti partiti nazionalpopulisti – definizione che mi pare molto più rispondente al vero di tutte quelle che tirano in ballo l’estrema destra, la destra radicale, la destra estrema e via ricamando sul tema – oggi siano i più votati dagli operai e dai disoccupati. I populisti, per loro natura, sono estranei alla dicotomia sinistra/destra. Nel recente passato, in Europa – ma non in Sud America, ad esempio – si sono spostati a destra perché solo lì trovavano un sufficiente spazio di competizione, ma è evidente che da qualche anno stanno riguadagnando il ruolo che è per loro più naturale, quello della contestazione ’dal basso’, con argomenti che convenzionalmente si possono in alcuni casi definire di destra e in altri di sinistra, l’establishmentpolitico, finanziario ed intellettuale. In ogni caso, fra queste formazioni e le varie destre “vere” (liberali, conservatrici, neo o postfasciste) i punti di contatto attualmente sono pochi. Penso che, al di là della strutturale difficoltà che queste forze dimostrano nel coordinarsi o nel convergere, il loro peso non potrà essere ignorato dai partiti mainstream, a meno che non si voglia approfondire ulteriormente, restando sordi, ciechi e muti di fronte al segnale che probabilmente verrà lanciato attraverso le urne, la già pesante frattura esistente fra larghe fasce delle popolazioni dei paesi europei e le classi politiche nazionali ed eurocomunitarie.

Da studioso, che approccio consiglia (anche testi, autori) ai nostri lettori per comprendere il cambiamento in atto in Europa e nella destra europea?
Anche se so che può essere un appello difficile da accogliere, consiglio vivamente di evitare un approccio retorico e demonizzante, come è quello che va da sempre per la maggiore in questo campo. Anche chi, non condividendone le idee e i programmi, intende combatterle, ha tutto l’interesse a farsi un’idea realistica, e non mistificante, di queste formazioni e della loro evoluzione. Anche se minoritari, gli studiosi seri che seguono questa linea ci sono e sono molto attivi. Purtroppo non sono tradotti in italiano, se non – mi si consenta l’autocitazione – sulle colonne del quadrimestrale di cultura politica ’Trasgressioni’, che dirigo e che dal 1999 ha raccolto contributi di molti dei più noti studiosi del campo. Di recente, due libri di politologi francesi, Dominique Reynie (Les nouveaux populismes) e Chantal Delsol (La nature du populisme ou la figure de l’idiot) hanno fornito ottimi spunti di dibattito. In Italia, due validi studiosi sono Flavio Chiapponi, dell’Università di Pavia, e Loris Zanatta, dell’Università di Bologna, che ha di recente pubblicato un interessante volumetto, Il populismo, per Carocci.