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«Ma di’ soltanto una parola ed io sarò salvato»

di Francesco Lamendola - 27/05/2014

Fonte: Arianna editrice


 

 
 

La parola: un mistero bellissimo e tremendo, intorno al quale ruotano tutta la nostra esistenza, tutta la nostra coscienza, tutto il nostro significato.

In realtà noi tutti veniamo soltanto da una parola, da un “fiat” originario; e a quella parola primigenia aspiriamo, inconsciamente, a ritornare, come alla nostra dimora permanente – la dimora dell’Essere.

Altro discorso va fatto per la parola umana: essa può portare la luce, la speranza, la salvezza, ma può portare anche la disperazione, la tenebra, il naufragio; può indicare la via giusta da seguire, ma può anche indurre sulla via sbagliata, dalla quale, forse, non si torna indietro.

La parola ha un suo peso specifico enorme, spesso trascurato, a volte per superficialità, a volte per cattiva coscienza: può essere, letteralmente, parola di vita o di morte; può essere parola che salva o che perde, quando essa giunge in un momento critico, in una situazione esistenziale che sia già tesa al massimo, fino allo spasimo.

Vi sono dei momenti, nella vita, nei quali tutto pare appeso a un filo; nei quali basterebbero una piccola, una piccolissima spinta, una sola parola d’incoraggiamento o di rifiuto, per spostare l’intero asse esistenziale di una persona dal cielo della pace all’inferno di un’angoscia senza fine; momenti, soprattutto, nei quali nulla sarebbe peggio del silenzio, perché una parola, e sia pure di accusa o di rimprovero, manifesta pur sempre una forma di partecipazione, anche se di segno negativo: mentre il silenzio equivale, in quelle situazioni, alla negazione, all’esclusione, al rigetto totale che scaturisce dalla piena e radicale indifferenza.

A volte il silenzio, quando si attende con tutta l’anima una parola, risulta più amaro e più crudele di una parola cattiva; perché il contrario della parola buona non è la parola malvagia, ma il silenzio, l’assenza di parola, almeno quando si tratta di una deliberata chiusura della comunicazione, quando ha il sapore del disprezzo, della vendetta o dell’implacabile risentimento, che non concede spazio alla benché minima comprensione umana.

Si può fare terribilmente del male con la parola, come del resto si può fare enormemente del bene; ma, con il silenzio, si può fare ancora più male, si può uccidere addirittura, se c’era qualcuno che di quella parola aveva bisogno per sopravvivere, per consolarsi, per ritrovare un sia pur precario equilibrio esistenziale, in mezzo alle macerie di precedenti fallimenti. Ci vorrebbe un porto d’armi per quando si adoperano le parole come coltelli; ma nessun porto d’armi potrebbe stabilire un limite nella crudeltà con cui si può negare all’altro la parola, la parola risanatrice, la parola riparatrice, la parola che riaccende la speranza in un’anima disperata.

La parola buona, che fortifica, che salva, è esemplificata dall’episodio evangelico del centurione romano che si rivolge a Gesù per la guarigione di un servo malato. «Signore, non sono degno che tu entri sotto il mio tetto, ma di’ soltanto una parola, e il mio servo sarà guarito», dice il centurione romano di Cafarnao a Gesù, che si era offerto di recarsi nella sua casa, dietro sua preghiera, per curare il servo malato di questi (Matteo, 8, 8); frase che, nella liturgia responsoriale della messa, diventa: «Signore, non sono degno di partecipare alla tua mensa, ma di’ soltanto una parola, ed io sarò salvato».

Della parola cattiva, che maledice, che offende, che demoralizza, si potrebbero fare infiniti esempi: nessuno lo dovrebbe sapere meglio dei genitori, degli educatori, degli insegnanti, i quali, rivolgendosi a dei bambini e a dei ragazzi, ai propri figli o ai propri studenti, possono realmente fare molto male (ma, per fortuna, anche molto bene), pronunciando magari una sola parola, specialmente quando si trovano di fronte a delle personalità fragili, insicure, turbate. A volte non occorre nemmeno pronunciare una parola: bastano un gesto, uno sguardo, che possono essere ancora più eloquenti e che della parola possiedono tutta la forza, spogliata delle sue possibili ambiguità, dei malintesi cui potrebbe dare luogo.

Ma c’è anche il silenzio, abbiamo detto: il silenzio dell’indifferenza, del disprezzo, del rifiuto: che può fare assai più male della stessa parola cattiva. A volte si aspetta una parola con tutta la  tensione dell’anima, tormentati da una sete divorante: e quella parola non arriva. Colui che tace ha scelto di punire l’altro con l’arma del silenzio: non ha voluto capire, né compatire, né perdonare. Ritiene di essere in diritto di assestare una lezione esemplare, tacendo, ben consapevole di quanto male possa fare una simile strategia.

Biagio Marin, il grande poeta gradese – grande anche se scriveva in un dialetto parlato ormai da poche centinaia di persone; grande perché la grandezza di un poeta non si misura dalla quantità delle traduzioni e delle copie vendute dei suoi libri, ma dalla intensità, dalla profondità e dalla universalità dei sentimenti che sa esprimere – ha colto il dramma della parola salvatrice che non arriva, della parola di pace e d’incoraggiamento che non viene pronunciata, in una bellissima poesia di soli otto versi, brevi e semplici come il profumo dei giardini della sua isola natia, struggenti come il sole al tramonto nella sua amata laguna.

Ed ecco la poesia di Biagio Marin, intitolata:

 

«SED TANTUM DIC VERBUM

 

La parola che non xe stagia dita

E no l’ha t’ha salvao:

e cussì a la morte tu son ‘ndao

per la strada più drita.

 

Una parola sola

Te varave salvao la vita;

ma quela boca la xe stagia sita,

e la morte la svola.»

 

Diamo di seguito la traduzione dal dialetto gradese, curata da Giovanni Battista Pighi e da Edda Serra (in: Biagio Marin, «Nel silenzio più teso», Milano, Rizzoli, 1980): «La parola che non è stata detta /e non ti ha salvato: / e così sei andato alla morte / per la strada più dritta. // Una parola sola / ti avrebbe salvato la vita; / ma quella bocca è stata zitta: / la morte svola.»

 

Quanti di noi sono colpevoli, colpevoli del crimine di omissione, per non aver pronunciato la parola di salvezza quando lo avremmo potuto, e, forse, quando lo avremmo dovuto? Quante volte ci siamo chiusi nella nostra superbia, pensando di aver ragione, di ritenerci giustamente la parte che ha subito un torto e, quindi, di non avere alcun obbligo verso l’ex amico, verso l’ex amante, verso l’anima con cui avevamo pur condiviso momenti importantissimi della nostra vita? E quante volte abbiamo indossato la maschera della parte offesa, della vittima, di colui che si fa guidare solamente dal senso della giustizia, mentre invece stavamo consumando la più sottile, la più raffinata, la più diabolica delle vendette?

Diabolica: non è un’espressione esagerata. È diabolico servirsi del silenzio, quando si sa che da una nostra parola deriva tanta sofferenza ad un altro essere umano; ed è anche vile, perché consente di nascondere la mano che ha scagliato la pietra, la mano che ha vibrato la coltellata: nessuno ha visto nulla e nessuno, nemmeno la nostra vittima, potrebbe lamentarsi di aver subito una aggressione da parte nostra. Noi, però, sappiamo benissimo di aver aggredito l’altro: di averlo aggredito in maniera nascosta, in maniera subdola, con l’arma appunto del silenzio: senza lasciare tracce, senza testimoni che ci possano accusare. Lo sappiamo solo noi e lui; noi e Dio.

Certo, a volte non è facile pronunciare quella parola che l’altro spasmodicamente attende. Abbiamo motivo di pensare che egli potrebbe fraintenderla, che potrebbe servirsene per strapparci una promessa, qualcosa che non possiamo né vogliamo dare: che potrebbe illudersi o che potrebbe diventare insistente, molesto. Non tutti sono signorili, quando soffrono; non tutti sanno levarsi di torno, per non affliggerci con lo spettacolo della loro angoscia. E tuttavia…

Siamo sicuri d’essere migliori di coloro ai quali abbiamo deciso di rifiutare il conforto di un’ultima parola, di una parola di pace, di bene, di perdono? La cosa è molto dubbia: ci sentiamo forti quando vediamo che un altro essere umano è disperato e che sta appeso alla speranza di una nostra parola, come colui che sta morendo di sete nel deserto correrebbe a tuffare la testa nell’acqua più torbida e fangosa, se solo scorgesse una misera pozzanghera tra la sabbia. Ma se fossimo noi, al suo posto; o, per dir meglio: quando siamo noi, al suo posto: allora che lamenti, che invettive, che maledizioni non esitiamo a scagliare contro il nostro nemico, il nostro persecutore, il nostro aguzzino!

Ci sono delitti che restano impuniti, perché nessuno li ha visti, perché non è rimasto alcun indizio ad accusare i loro autori. Tali sono anche i crimini che commettiamo allorché rifiutiamo di dire una parola di riconciliazione a chi ne avrebbe estremo bisogno, mentre sappiamo bene fino a che punto la sua pace, la sua stessa sopravvivenza dipendano da quell’unica parola. Nulla può scusare la nostra cattiveria, perché sapevamo assai bene quel che stavamo facendo, o, per essere più precisi, quello che NON stavamo facendo, quello che avevamo deciso di omettere. Quando il male si riveste della maschera del non agire, diventa supremamente raffinato, supremamente malvagio, perché cerca di farsi passare per innocente: è diabolico, appunto.

E allora, ricordiamoci sempre di quanto bene possiamo fare con una parola opportuna, detta al momento giusto, a colui che forse ne ha bisogno più ancora di quanto abbia bisogno del cibo per nutrirsi o dell’acqua per dissetarsi. La parola è potente: non scorre via senza lasciar traccia, non evapora come la rugiada al levar del sole. Rimane: e, talvolta, incide perfino la roccia, con una forza e una tenacia come a stento si sarebbe potuto immaginare.

La parola, dunque, è potente: pertanto, siamo potenti anche noi, in quanto detentori della possibilità della parola. Siamo più potenti di quel che può sembrare; ma, naturalmente, la potenza, di per sé, non è affatto un bene, se non si unisce alle qualità positive dello spirito: la generosità, la mitezza, la benevolenza. Chi possiede tali qualità, perché ha saputo coltivarle in se stesso con amore e svilupparle con impegno e sacrificio, non potrà mai fare un cattivo uso della parola, compresa la parola scritta. Perché anche con la parola scritta - con una lettera, con un articolo, con libro - si può fare tanto bene o tanto male nei confronti del prossimo, anche a persone che non conosciamo e che, quasi certamente, non conosceremo mai.

Una volta si scrivevano lettere, ora non più: peccato; era un buon modo di comunicare, perché consentiva di soppesare bene le parole, di cercare pazientemente quelle più adatte. Con la posta informatica e con i messaggini telefonici non è più così: la fretta domina sovrana, conta più la quantità che la qualità delle parole che ci si scambia. La parola viene immiserita, banalizzata; e la stessa cosa accade con i discorsi che si fanno a voce. Domina ovunque la “chiacchiera”, come già notava Heidegger; e la chiacchiera è l’opposto della parola autentica.

Ritrovare il gusto della parola, e riconquistare la consapevolezza della sua efficacia, sono passi necessari sulla via di un ritorno all’essere, dopo la lunga stagione in cui ci si è abbandonati all’ubriacatura dell’avere. Abbiamo tante, troppe parole nel nostro repertorio, ma siamo diventati poveri quanto alla parola. I ragazzi vanno a fare il compito d’italiano con il dizionario dei sinonimi e dei contrari sotto il braccio, come se tutto il problema fosse quello di riuscire a scrivere un tema linguisticamente ben tornito e infiocchettato e non quello di scavare in se stessi, alla ricerca delle parole autentiche, delle parole che parlano davvero.

Le parole sono autentiche quando costruiscono la sintassi di un discorso vero; e l’unico modo di fare un discorso vero è quello di avere e di coltivare dei pensieri veri, dei sentimenti veri, delle emozioni vere. Nessun vocabolario e nessuna tecnica di scrittura potranno sostituire questo requisito essenziale. Oggi, ad esempio, si sprecano i corsi e i cosiddetti laboratori di scrittura creativa, ove disinvolti pennivendoli “insegnano” agli uomini-massa a scrivere poesie o racconti in maniera, appunto, “creativa”. Quanto fumo negli occhi per nascondere la povertà che regna nelle nostre coscienze, la banalità dei nostri pensieri, lo squallore delle nostre inutili ma vaste ambizioni...