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Strapaese. Ovvero la terra contro la modernità

di Luca Barbirati - 09/06/2014

Fonte: L'intellettuale dissidente


«L'americanismo è la peste che avanza volgarizzando, rimbecillendo, imbestialendo il mondo, avvilendo e distruggendo alte, luminose, gloriose civiltà millenarie». È sufficiente questo “aforisma a buon mercato” di Ardengo Soffici per chiarire i punti della campagna moralizzatrice di Strapaese. Questo movimento artistico fu impegnato non solo contro l'americanismo, bensì anche contro la corruzione del denaro, il materialismo, la mercificazione dell'arte, nonché contro il diprezzo della tradizione e il decadentismo.

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«L’americanismo è la peste che avanza volgarizzando, rimbecillendo, imbestialendo il mondo, avvilendo e distruggendo alte, luminose, gloriose civiltà millenarie». È sufficiente questo “aforisma a buon mercato” di Ardengo Soffici per chiarire i punti della campagna moralizzatrice di Strapaese. Questo movimento artistico fu impegnato non solo contro l’americanismo, bensì anche contro la corruzione del denaro, il materialismo, la mercificazione dell’arte, nonché contro il diprezzo della tradizione e il decadentismo. E non bisogna minimizzare. Strapaese non è solo una corrente pittorico-letteraria antinovecentista, né tanto meno solo un esperimento di fronda interna al fascismo. Strapaese è prima di tutto un territorio: «Tra il Bisenzio l’Arno l’Ombrone / e la Val d’Elsa è il nostro regno» canta Curzio Malaparte. È questa terra toscana, prima che un’ideologia, a inveire contro l’istituzionalizzazione e la burocratizzazione dell’Italia dopo la marcia su Roma. Strapaese si assunse il compito di sfottere tutti gli accomodanti, i tiepidi, gli amanti dei compromessi e delle transazioni. In una parola: i liberali. Ardengo Soffici, sul Selvaggio del 12 ottobre 1924, organo ufficiale di Strapaese, scrive: «Liberalismo: lasciare a tutti la libertà di sopprimere la nostra».

 Strapaese è l’esaltazione del buon senso e della sanità domestica e rurale. Strapaese, scrive Mino Maccari, è stato fatto apposta per difendere a spada tratta il carattere paesano della gente italiana. È l’esaltazione di un Italia “nostrana” e genuina. È un appello a riscoprire le radici della nostra razza e i segreti della nostra tradizione.

 Può sembrare, e forse lo è stata, la ricerca di un ideale illusorio così come il mito del borghese perseguito in molti progetti editoriali da Leo Longanesi. Tuttavia, per uomini come Maccari, Soffici, Malaparte e lo stesso Longanesi, fu di primaria importanza ed urgenza difendere l’italianità dell’Italia, ossia il suo caratteristico e naturale “particolarismo”, contro l’europeismo dilagante degli anni ’20. Essere selvaggi, secondo la lezione maccariana, significa rifiutare le mode e le culture straniere (estranee!) che possono trasformare e far perdere i propri caratteri peculiari. Ciò non significa essere ciechi di fronte ai fermenti intellettuali di altre nazioni, bensì è saper riconoscere la bellezza di un Passato atemporale, quindi anche contemporaneo, rifiutando tutto ciò che non appartiene all’umanità. In altre parole, lo strapaesano si sente libero nella coscienza ma non dalla coscienza. Per i selvaggi non c’è nulla di più vile di scimmiottare malamente comportamenti e idee francesi, inglesi o tedesche, che non provengono dalla tradizione radicata nella secolare saggezza della terra italiana.

 Ascoltando gli strapaesani tosco-romagnoli sembra quasi di udire l’eco dei proclami mussoliniani: «Bisogna ruralizzare l’Italia, anche se occorrono miliardi e mezzo secolo». Infatti, non si può tacere la radicata ispirazione fascista di questo movimento anche se, nel 1927, Orco Bisorco, uno dei numerosi pseudonimi di Maccari, delineò l’autonoma e onesta poetica di Strapaese: «Amare la terra e il paese, custodire le tradizioni, non significa impoltrirsi e impiccinirsi entro insormontabili confini, ma trovare, gustare e selezionare gli elementi di cui necessariamente si compone la nostra personalità per portarli con le opere a una vita attuale. Significa al contrario sentire in se stessi una più profonda vita, e la sintesi e la quintessenza di esperienze di innumerevoli generazioni, una civiltà che è frutto di secolari travagli». Per i selvaggi non si tratta di rinchiudersi in una piccola e protetta provincia, bensì di riconoscere il legame indissolubile della vita presente con le innumerevoli vite passate.

 Se all’alba della modernità italiana questa idee potevano sembrare tristi àncore di nostalgici; oggi, tempo in cui non esiste una chiara categoria storico-temporale che possa definirci, sembrano dare linfa e continuità a tutte quelle realtà associative che condividono un programma antimoderno. Di fronte all’odierna timidezza e impotenza intellettuale, fa drizzare le orecchie la fucilata selvaggia: «Estremo è il male estremo ha da essere il rimedio».

 

Nota: L’immagine di copertina è un disegno di Mino Maccari pubblicato su L’Italiano (n° 2, aprile 1931) raffigurante un’allegoria di Strapaese. Longanesi, il primo a sinistra, cavalca con l’insegna della sua rivista; a fianco si vede Maccari sulla cavalcatura de Il Selvaggio. Nel carrozzino hanno posto Soffici con tavolozza e pennelli e Malaparte con la spada, la penna, il calamaio e il foglio della sua rivista La Conquista dello Stato. Su di loro svetta lo stendarlo “Repubblica degli ottimi”. Più a destra, travolto da nubi di polvere, figura Giovanni Papini. Nei cieli vigila il busto del Duce.

Cfr. Luigi Cavallo, “Soffici e Malaparte – Vento d’Europa a Strapaese” (Prato, 1999)