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Perché Napoleone intraprese la campagna d’Egitto?

di Francesco Lamendola - 09/06/2014

Fonte: Arianna editrice


 

 

La campagna d’Egitto e della Palestina, intrapresa da Napoleone Bonaparte nel 1798 e conclusasi, con un insuccesso totale, nel 1801, è sempre stata la “crux” di quegli storici, e specialmente di quegli storici militari, convinti che ogni iniziativa intrapresa autonomamente da un potere politico o militare debba, per forza, essere suscettibile di una spiegazione perfettamente razionale; e che ciò debba essere tanto più vero nel caso di Napoleone, un uomo che non lasciava nulla al caso, che pianificava accuratamente ogni mossa e, soprattutto, che non era disposto a sacrificare un’ora di tempo, né la vita di un soldato, per correre dietro a progetti non diciamo chimerici e irrealizzabili, ma anche soltanto incerti o indefiniti.

Resta infatti un mistero come questo “realista”, questo pragmatico, abbia potuto ingolfarsi in una impresa così strana, così inutilmente spettacolare, così dispendiosa e così chiaramente votata alla sconfitta; e, in particolare, come abbia potuto ostinarsi così a lungo sotto le mura di San Giovanni d’Acri, abbandonando poi il suo esercito ed esponendolo alla resa, per rientrare in Francia da solo, quasi come un clandestino, mosso unicamente dall’ambizione personale, che lo stava proiettando verso l’abbattimento del Direttorio e la conquista del potere assoluto (come avverrà con il colpo di Stato del 18 Brumaio del 1799).

Ma è davvero un mistero? Ed è proprio vero che Napoleone era così implacabilmente razionale nel formulare i suoi piani politico-militari, o non è vero, piuttosto, che egli, nei momenti decisivi, era piuttosto incline ad abbandonarsi all’istinto, a una specie di mistica improvvisazione, confidando smisuratamente nella propria buona stella e nel proprio “fatale” destino di condottiero - un po’ come avrebbe fatto, più tardi, Adolf Hitler, un altro capo politico-militare che pensava certamente in grande, come Napoleone, ma che in fondo era più un sognatore che un “tecnico” (al contrario dei suoi antagonisti, Churchill e Stalin, i quali erano più dei “tecnici” che dei sognatori)?

Queste le considerazioni che ha svolto sulla campagna di Napoleone in Egitto e in Palestina il generale Arturo Vacca Maggiolini (1872-1959), uno storico militare particolarmente lucido e competente, nella monografia che è considerata una delle migliori esistenti sull’argomento: «Da Valmy a Waterloo» (Zanichelli, Bologna, 1939, vol. 1, pp. 281-285):

 

«La pace di Campoformido non ha scosso la volontà di lotta dell’Inghilterra: anzi gli ingrandimenti territoriali ottenuti dalla Francia – specialmente la conquista del Belgio e la malcelata incorporazione dell’Olanda – appaiono talmente minacciosi per la capitale stessa della Gran Bretagna che non potranno mai essere accettati volontariamente dal governo inglese: occorre perciò obbligarvelo con la forza. A raggiungere questo scopo, la Francia non può contare su una vittoria navale, tanto appare formidabile la flotta avversaria – che ancora nel febbraio e nell’ottobre 97 ha duramente battuto l’armata spagnola e quella olandese – e tanto sono apparse evidenti, nel dicembre 96 in occasione della fallita spedizione dell’Hoche in Irlanda, la disorganizzazione della marina francese, l’incapacità e la cattiva volontà dei suoi capi. Bisogna dunque procurare di battere l’Inghilterra, agendo essenzialmente cole forze di terra e attaccandola con esse mediante sbarchi, o nello stesso arcipelago britannico ovvero nelle sue colonie dell’oriente, dalle quali essa trae la ricchezza, base principale, se non unica, della sua potenza politica e militare.

Prima idea del Direttorio è infatti quella di affidare a Buonaparte un’impresa di sbarco nelle isole britanniche, talché già nell’ottobre 97, prima ancora del suo ritorno in Francia, lo nomina comandante in capo dell’armata d’Inghilterra. Buonaparte studia infatti l’arduo problema di cui, nel febbraio 98, non nasconde al Direttorio le gravi difficoltà. Nel marzo 98 tale proposito è pero definitivamente abbandonato e Buonaparte viene incaricato di una spedizione in Egitto.

Tutto lascia credere che tale cambiamento sia stato voluto da Buonaparte stesso e da lui imposto al Direttorio, coll’abile aiuto del ministro degli esteri, il Talleyrand, che in quel periodo incomincia a stringere vivaci ma sempre ambigue relazioni col suo futuro Imperatore. Ragioni per non credere nel successo di un tentativo di sbarco in Inghilterra non mancano certamente a Buonaparte; la esperienza della recente disgraziata impresa dell’Hoche; il fatto che il predominio marittimo britannico è sempre forte, ancor più che altrove, nelle vicinanze della madre patria, sia per numero ed importanza delle navi ivi dislocate, sia e ancor più per quantità ed organizzazione di basi navali; la disparità di pareri tra i competenti francesi circa l’epoca più propizia ed il modo migliore per tentare il passaggio della Manica; la scarsità di tempo disponibile per ben preparare la spedizione, qualora si voglia compiere la breve traversata, come Buonaparte preferisce, durante le lunghe notti dell’imminente inverno. O rinviare perciò l’impresa all’anno successivo  - epoca nella quale non è da escludere che già siano riprese le ostilità coll’Austria, nel qual caso Buonaparte preferirebbe essere incaricato di tal campagna – ovvero tentare qualcosa di diverso, il che – avendo sempre presente che Direttorio e Buonaparte sono tacitamente concordi nel desiderio dell’allontanamento del generale dalla Francia – altro non può essere che una minaccia alla più importante colonia inglese: l’India, ove il permanente stato di ribellione che vi mantiene il sultano di Mysore, Tipoo Sahib, acerrimo nemico degli inglesi, pare condizione favorevolissima ad un intervento francese. L’India è però troppo lontana per potervi giungere, con forze numerose, d’un balzo: si rende quindi necessario assicurarsi, come base intermedia, dell’Egitto. Questa conquista avrebbe anche il vantaggio di estendere al Mediterraneo orientale quel predominio marittimo che la Francia già conta di essersi assicurato nel Mediterraneo occidentale e centrale, mercé l’alleanza colla Spagna, l’occupazione attuata da Buonaparte stesso, nel maggio 97, delle isole, già venete, di Corfù, Cefalonia e Zante e mercé il possesso, diretto  indiretto, ormai stabilito su quasi tutta l’Italia.

Alla conquista dell’Egitto hanno, del resto, già altre volte pensato il Direttorio, il Talleyrand e Buonaparte stesso, il quale, nel’agosto 97, da Milano, in previsione del crollo, ch’egli ritiene non lontano, dell’impero turco, scrive al Direttorio: “per distruggere veramente l’Inghilterra ci occorre impadronirci dell’Egitto”. E nel settembre propone di compierne senz’altro l’occupazione, portandovi direttamente dall’Italia, su navi veneziane, 25.000 uomini.

Indubbiamente anche una spedizione attraverso il Mediterraneo presenta rischi marittimi non indifferenti; però essi sono di gran lunga inferiori a quelli insiti in una traversata dei mari prossimi alle isole britanniche, perché il grosso della flotta inglese – in seguito alla preoccupazione sorta a Londra per la creazione dell’Armata d’Inghilterra al comando di Buonaparte – gravita più verso l’Atlantico che nel Mediterraneo e perché la flotta francese può contare, per una traversata dalla Provenza all’Egitto, su ottimi puti d’appoggio e su una grande varietà di rotte favorevoli.

Quanto al seguito da dare alle operazioni, ad Egitto conquistato, i documenti dell’epoca sono assai vaghi, accennandovisi: ad imbarcare a Suez un corpo di spedizione da inviare in soccorso di Tipoo Sahib; ad eseguire addirittura il taglio dell’istmo – taglio che Buonapaerte infatti fa studiare e personalmente studia durante il suo soggiorno in Egitto, ma pel quale sarebbero necessariamente occorse diecine di anni – od anche a raggiungere il lontano obiettivo per via di terra, attraverso la Siria, l’Irak e l’Iran. E non mancò neppure qualche accenno al ritorno di Buonaparte e dei suoi soldati dall’Egitto in Europa, attraverso la Siria, l’Anatolia e Costantinopoli… Ma tutto ciò è evidentemente troppo indeterminato e, in parte notevole, è così fantastico, da riconoscervi a stento la solita mente riflessiva di Buonaparte.

La spiegazione di tale indeterminatezza si trova nel fatto che scopo vero della spedizione era per Buonaparte soltanto questo: rimaner fuor di Francia per qualche mese – fino a quando cioè nn vi maturasse una situazione politica favorevole alle sue mire – avendo in pari tempo modo di accrescere il proprio prestigio di generale vittorioso e di abile uomo di Stato, nonché di acquistare nuove benemerenze colla conquista di ricchi territori e coll’ampliamento dell’influenza francese nel Levante. All’infuori di questo programma ben definito, tutto il resto era quasi esclusivamente fantasia, destinata a colpire l’immaginazione dei buoni francesi e ad alimentare la loro ammirazione per il giovane eroe che si apprestava a ricalcare le orme di Alessandro il Grande.

L’Oriente, del resto, aveva sempre attirato l’attenzione di Buonaparte stimolando in lui – colla vastità dei territori, collo stato arretrato di civiltà dei popoli,  colla debolezza dei governi – la sua innata tendenza ad ambiziosi progetti di smisurata grandezza. È il sognatore che, adolescente, si è proposto di porsi a capo di una Corsica indipendente, che ora, generale, si compiace del progetto – sia pure irrealizzabile, ma in cui forse, nel suo ottimismo, in qualche momento crede – di marciare trionfalmente dal Mediterraneo sino all’India per abbattervi la potenza inglese.»

 

Arriviamo così alla sconcertante conclusione che Napoleone intraprese la campagna d’Egitto non in base ad una chiara e ben definita concezione strategica, ma principalmente per assecondare la propria ambizione personale, per preparare le mosse successive verso la conquista del potere politico, per costruire la propria leggenda di giovane eroe intrepido ed emulo di Alessandro Magno, sì da rafforzare la propria popolarità nell’opinione pubblica e soprattutto nell’esercito, strumento dei suoi progetti di conquista e di gloria.

L’analisi del generale Vacca Maggiolini ci sembra chiara, lineare, difficilmente confutabile; e, anche se lo studiosi italiano si dice convinto, in un altro luogo, della sostanziale onestà morale di Napoleone, ossia del fatto che egli ritenesse, sinceramente, di poter servire la propria ambizione insieme agli interessi della Francia, a noi sembra di dover dissentire da una simile conclusione, e ciò sulla base della stessa ricostruzione e dello stesso ragionamento che egli sviluppa in pagine di ammirevole rigore logico e storiografico.

Punto primo: Napoleone non concepisce, né conduce la campagna d’Egitto sulla base di un chiaro quadro di riferimento strategico. Tutto è vago, confuso, quasi irreale: lo scopo, gli obiettivi, i mezzi, perfino le direttrici di avanzata. Verso l’India, per strapparla all’Inghilterra? Ma questo non è un obiettivo strategico: è un pio desiderio. Nessuno stratega serio ha mai anteposto i desideri, oltretutto vaghi, alla lucida analisi dei mezzi necessari a realizzarli e dei fattori in gioco, pro e contro. Verso Costantinopoli, per abbattere l’Impero turco? Anche questo non è un obiettivo strategico, ma una reminiscenza storica: la presa di Costantinopoli da parte dei Crociati nel 1204. Un obiettivo strategico si definisce mediante una precisa individuazione degli scopi e dei mezzi: non è una improvvisazione poetica, ma uno studio di carattere quasi scientifico.

Punto secondo: a Napoleone non importa dove colpire l’Inghilterra, gli basta colpirla; meglio ancora: gli basta fare mostra di averla colpita. L’Inghilterra è un’isola, protetta da una formidabile flotta: per colpirla, bisogna o attaccarla direttamente, invadendola, oppure metterla in ginocchio, tagliando i suoi commerci marittimi. Scartata la prima strada, data l’inadeguatezza della flotta francese, resta la seconda: infinitamente più difficile da realizzare, proprio per la vastità degli obiettivi strategici e per la difficoltà di pervenire a un risultato utile senza disporre della necessaria preponderanza navale. I commerci britannici sono ovunque: nel Mare del Nord, nel Baltico, nel Mediterraneo, nell’Atlantico, nell’Oceano Indiano, nel Pacifico. Colpirli in un punto solo non è sufficiente; né, d’altra parte, è cosa realizzabile, se non si dispone di una netta superiorità locale. Napoleone si illude che una tale superiorità possa essere terrestre: ma una campagna oltremare richiede, per definizione, il controllo delle rotte marittime. Poniamo che egli, da Suez, organizzi una flotta per veleggiare alla volta dell’India (resta da vedere come farà a trasportare la sua flotta dal Mediterraneo al Mar Rosso, in assenza di un canale navigabile). Come potrà, questa ipotetica flotta, raggiungere l’India e sbarcarvi un esercito, senza disporre della superiorità nello scacchiere dell’Oceano Indiano? Non significherebbe esporsi allo stesso rischio di uno sbarco in Inghilterra, con la Manica presidiata dalla flotta inglese?

Punto terzo: a che serve conquistare l’Egitto, senza un esercito abbastanza forte per aprirsi la strada fino a Costantinopoli e senza una flotta abbastanza forte, non diciamo per conquistare l’India, ma anche soltanto per conservare il controllo del Mediterraneo orientale? In che modo una conquista dell’Egitto danneggerebbe l’Inghilterra, se non si spingesse oltre? E come potrebbe spingersi oltre, senza la supremazia navale? È vero, al contrario, che una tale impresa getterebbe l’Impero turco fra i nemici della Francia; cioè nelle braccia dell’Inghilterra. E la flotta inglese potrebbe trasportare un esercito turco in qualunque punto del Mediterraneo orientale e centrale, perfino in Italia (come infatti avviene durante i sei mesi della Repubblica Partenopea), vanificando qualunque successo eventualmente riportato dai Francesi in Egitto. Quindi, non solo l’Inghilterra non verrebbe indebolita, ma verrebbe rafforzata: si troverebbe a disporre gratuitamente, per così dire, di nuove masse di eserciti continentali da gettare nella mischia, essa che non dispone di un grande esercito proprio, come già ha fatto servendosi dell’Austria, della Prussia, della Spagna.

Punto quarto: se non si può colpire l‘Inghilterra in un punto vitale, meglio sarebbe acconciarsi a intavolare trattative con essa, magari in vista della partita decisiva (come avverrà con la pace di Amiens del 1802), preparando le forze e specialmente quelle navali. Ma Napoleone ha una visione terrestre della guerra, non marittima: e non si rende conto che, in guerra contro una potenza marittima – e finanziaria - di prima grandezza, come la Gran Bretagna, la superiorità terrestre serve solo a sconfiggere i nemici che, di volta in volta, quella potenza è capace di aizzare contro la Francia. Così, Napoleone può collezionare vittorie su vittorie contro i nemici terrestri, ma non si avvicina mai al vero obiettivo strategico della guerra: colpire mortalmente il suo nemico più pericoloso, quello dal quale partano tutte le coalizioni antifrancesi: l’Inghilterra. Le vittorie terrestri – e quella delle Piramidi è una delle più spettacolari, ma anche, senza dubbio, la più inutile – servono a costruire la fama di Napoleone come eroe, come genio militare, ma non portano la Francia d’un passo più vicina all’obiettivo della pace. Ancora una volta, Napoleone serve la propria ambizione, non gli interessi della sua patria.

Napoleone, dunque, è senza dubbio un grande tattico, ma non un vero stratega, nel senso più completo del termine: gli sfugge la visione d’insieme, l’obiettivo ultimo da perseguire; e, spesso, non sa far coincidere il proprio interesse con quello della Francia, ma privilegia il primo a scapito del secondo. È un grande militare, non un grande politico. Come politico, ha la vista corta; né si rende conto che il far leva sul sentimento nazionale dei popoli europei contro l’Inghilterra, il cui dominio è lontano e indiretto – perché, appunto, commerciale e finanziario – significa insegnare loro a odiare la Francia, il cui dominio è immediato e diretto e si manifesta sin troppo chiaramente nelle spoliazioni esercitate dai suoi eserciti. L’Europa, alla fine, starà con la Gran Bretagna e contro Napoleone, non già con la Francia contro la Gran Bretagna: a Lipsia, a Waterloo, la decisione sarà portata dagli eserciti europei, che combattono non più in funzione puramente dinastica, come nel 1792, ma patriottica, avendo visto nell’imperialismo francese il loro mortale avversario.

Un’ultima osservazione.

La campagna d’Egitto, all’inizio della carriera politica e militare di Napoleone, presenta una affinità di fondo con quella di Russia, che chiuderà, di lì a un quindicennio, tale carriera. In entrambe, Napoleone cerca di colpire l’Inghilterra; ma, non disponendo della superiorità, o almeno della parità navale, prende la strada più lunga, quella della marcia terrestre contro gli alleati della Gran Bretagna, per isolare quest’ultima e colpirla nei suoi commerci (col blocco continentale, nel caso della campagna di Russia). Egli vuole prostrare la Gran Bretagna, chiudendole l’accesso ai mercati, allo sbocco per i prodotti delle sue industrie. Nel caso dell’Egitto, vuole mettere fuori causa l’Impero turco; nel caso della Russia, vuole infrangere codesta “spada continentale” dell’Inghilterra. Come farà Hitler centotrenta anni dopo. Ma in entrambi i casi, in Egitto come in Russia, Napoleone sottovaluta il fattore spazio e le difficoltà logistiche. Lo stupido assedio di San Giovanni d’Acri, dove il meglio del’esercito francese si logora inutilmente e soccombe a una terribile pestilenza, è l’anticipazione del disastro della Beresina, della sottovalutazione dell’inverno russo e delle immense distanze da coprire e lungo le quali assicurarsi le vie di rifornimento.

È interessante notare che l’esercito italo-tedesco dell’Africa settentrionale, nel 1941-42, si trova a perseguire un obiettivo non dissimile da quello di Napoleone nel 1798-99, anche se, nel complesso, più circoscritto e in parte, ma solo in parte, più realistico. Anche nel 1941-42, l’obiettivo immediato è Suez; l’obiettivo ulteriore, il Medio oriente (coi suoi campi petroliferi); l’obiettivo ultimo, non l’India, ma il Caucaso e il congiungimento con l’esercito tedesco in Russia. Anche in quel caso, una potenza terrestre cerca di colpire in un punto vitale una potenza marittima: ma la vittoria, ancora e sempre, sarà di quest’ultima.

Questa è la lezione più importante della campagna di Napoleone in Egitto (e anche, per chi seppe vederla, in Russia): che una potenza continentale non può colpire in modo decisivo una potenza marittima, mentre quest’ultima può sempre trovare il modo di colpire al cuore, con l’aiuto del fattore tempo e del fattore spazio, una potenza continentale. In una guerra di vaste dimensioni, vince chi possiede la superiorità navale: perché dal controllo del commercio internazionale viene il controllo del fattore tempo e del fattore spazio: vale a dire, la possibilità di prolungare la lotta e di ottenere l’adesione di sempre nuovi alleati. Chi possiede solo la superiorità terrestre, alla fine soccombe, perché il fattore tempo e il fattore spazio giocano contro di lui: finirà accerchiato e soffocato dalle spire dei suoi innumerevoli nemici, suscitati e incessantemente riforniti dalla potenza marittima dominante.

Napoleone lo aveva intuito, tanto è vero che tutte le sue più belle vittorie portano il segno di una estrema tempestività di movimenti, come se egli fosse consapevole che la guerra della Francia contro la Gran Bretagna, per interposti nemici – l’Austria, la Prussia, la Spagna, la Russia – si giocava fatalmente sul piano della rapidità. In una lunga guerra di logoramento, le risorse della Francia si sarebbero esaurite prima di quelle britanniche: perché la Gran Bretagna aveva, appunto, il controllo delle rotte marittime e del commercio mondiale, la Francia no.

Napoleone lo aveva intuito; ma, forse, non lo aveva compreso fino in fiondo. Continuava a baloccarsi con l’idea, sbagliata, che la superiorità terrestre possa portare la decisione anche contro un formidabile avversario marittimo. Egli stesso, e la Francia insieme a lui, ne avrebbero pagato duramente il prezzo.