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Fosco Maraini e l'etica della curiosità

di Franco Cardini - 09/06/2014

Fonte: Franco Cardini

Quel che ricordo di Fosco Maraini è soprattutto la lunga sequenza di mattinate o di pomeriggi durante i quali, nei locali del vecchio venerabile convento di Santa Trinita trasformato in sede della Facoltà di Magistero, ci toccava di assistere tra Anni Settanta e primi Anni Ottanta a lunghe, noiose, interminabili e di solito inconcludenti sedute del Consiglio di Facoltà. Erano gli anni della “contestazione”, delle occupazioni studentesche delle Facoltà universitarie, dei corsi autogestiti prima, del “riflusso” poi: e noi – cioè lui, io e qualche altro fra cui per esempio Piero Bigongiari – ai penetralia imperii del governo della Facoltà proprio non riuscivamo a interessarci. Sedevamo allora nelle ultime file, un po’ discosti dal resto dei colleghi: e parlavamo del più e del meno. Di comuni amici, dei colleghi più simpatici, del quartiere di Porta Romana che abitavamo entrambi (solo che lui viveva sull’aristocratica collina di Poggio Imperiale mentre io ero nato e avevo a lungo vissuto nella bella ma più popolare Via Serragli).

Confesso, e del resto lo dissi anche a lui, che la sua villa di Poggio Imperiale era la cosa che più gli invidiavo: ancora più dei suoi favolosi viaggi e della sua sterminata biblioteca. Non avevo ancora capito che la sua straordinaria personalità e il suo invidiabile destino – quella vita così bella, così’ lunga, così ricca di cose e di eventi e di valori (viaggi, amori, avventure, ricordi) - si sarebbe potuta e si potrebbe non includere e delimitare, questo mai, ma comunque almeno cercar di razionalizzare, di collocare, entro un sistema di coordinate cartesiane: l’ascissa della sua eredità familiare tanto culturale quanto materiale e l’ordinata di quello che potete chiamare come volete, Fato, Destino, Provvidenza, Caso, Fortuna, Khismet, Kharma, la strana cosa che Vilfredo Pareto definiva l’imponderabile e che i maghi di Faraone, nel racconto dell’Esodo, definiscono Esbà Elohim, “il dito di Dio”.

L’ascissa è perfettamente qualificata dalla sua vecchia, bella, grande villa di Poggio Imperiale, provvista di un bel giardino, di un grande orto e di un ampio “selvatico”, un bosco di quelli nel quale si possono piantare anche essenze esotiche ma, soprattutto, passeggiando all’ombra del quale ci si possono immaginare tutti gli orizzonti del mondo. Molti di noi, dopo alcuni decenni di studio, di lavoro e di viaggi, si trovano a dover gestire un inestimabile e per loro carissimo patrimonio di migliaia di libri, che per la maggior parte di noi tende a trasformarsi da gioia e orgoglio a preoccupazione se non addirittura a incubo. Un tempo le biblioteche pubbliche, quelle universitarie, quelle dei vari sodalizi culturali si contendevano le librerie degli studiosi, li sollecitavano, sovente li braccavano e quasi li perseguitavano con un’insistenza che aveva perfino un po’ di jettatorio; e in più c’erano i familiari, gli amici, i colleghi, a loro volta interessati a ereditare almeno una parte di quei patrimoni. Oggi, la promessa di regalare un fondo librario suona alle orecchie del destinatario quasi come una minaccia. Maraini ebbe la fortuna di vivere in un tempo nel quale avere vecchie, grandi case - e vivere in famiglie più numerose – era forse più comune di adesso; e magari gli toccò in sorte anche quella di nascere in una grande, ricca, complessa famiglia, di quelle che hanno (o avevano) case e ville dislocate un po’ dappertutto. Poté pertanto curare molto la sua biblioteca, il nucleo della quale aveva del resto ereditato e che poté salvare perfino attraverso avventurose vicissitudini, dai viaggi in terre lontane fino ai due anni di prigionìa in Giappone e al non facile rientro in Italia.

L’ordinata è il “caso”: la vecchia storia del naso di Cleopatra, sulla quale ormai da alcuni anni gli storici riflettono con molta serietà e che è forse una delle chiavi del processo storico. Nel caso di Maraini, un paio di scarponi da sci sommariamente avvolti in alcune pagine di giornale: liberandoli dal loro involucro, a Misurina sulle Dolomiti nel ’37, il venticinquenne sciatore, rocciatore e alpinista Fosco Maraini lesse su una di quelle pagine stazzonate la notizia che il filologo, antropologo, orientalista e viaggiatore Giuseppe Tucci stava per partire verso il Tibet con una sua spedizione. E’ vero quel che diceva Napoleone: senza fortuna, nella vita non si arriva da nessuna parte. Certo, ci vogliono anche altre qualità (e Maraini ce le aveva), altrimenti i doni della fortuna restano sterili o danno effimeri risultati). Maraini era anche buon fotografo: scrisse a Tucci proponendogli i suoi servizi in quell’àmbito; guarda caso, in quel momento alla spedizione era venuto inaspettatamente a mancare proprio chi potesse documentarla con l’aiuto della macchina fotografica.

Fortuna, si diceva: e si fa presto a dirlo. Ma la fortuna va compresa, aiutata, diretta, insomma gestita. Ti passa davanti sfrecciando su una sfera rotolante ed è calva nella parte posteriore della testa, come la raffiguravano le vecchie allegorie: bisogna, letteralmente, prenderla per il ciuffo. “Acciuffarla”, appunto. Non lasciarsela scappare ,perché è molto probabile che non ti passi più davanti. E non sbagliarsi, perché acciuffare una fortuna falsa è forse peggio che lasciarsene scappare una vera. Maraini, che non a caso godeva fama di gran tombeur de femmes, queste regole le conosceva bene: perché l’amore somiglia alla vita, e chi non sa amare di solito non sa nemmeno vivere.

Libero arbitrio o predestinazione? Non lo saprà mai nessuno, e tutto sommato è uno pseudoproblema: roba più di parole che di cose. Aveva comunque senza dubbio ragione Ignazio di Loyola quando sosteneva: datemi un bambino e tenetevi tutto il resto. I giochi, quelli veri e importanti, si giocano tutti nei primi anni dell’esistenza. E allora guardatelo, questo Piccolo Principe fiorentino di antica famiglia ticinese per parte di padre e inglese per parte di madre, ma con ascendenti ungaro-polacche. Fiorentinissimo per nascita e per indole, Fosco il cosmopolitismo ce l’aveva nel sangue. Non gli bastava il cocktail delle sue composite origini familiari e della familiarità con molteplici idiomi a cui esse lo disponevano: anche nei suoi due matrimoni egli sperimentò nuove sensazioni e nuove culture. La sua prima moglie fu difatti la nobile siciliana Topazia Alliata di Salaparuta che gli dette tre figlie rispettivamente nate a Fiesole, a Sapporo e a Tokyo; la sua seconda la giapponese Mieko Namiki. Alla luce di tutto ciò acquista ulteriore significato non solo la sua esperienza di studioso e di viaggiatore, bensì anche la sua abilità, diciamo pure la sua genialità, nell’inventare fantasiose neolingue e nell’esibirle con naturale nonchalance. In fondo, che cos’ è una “fànfola”? Una fiaba, una favola, una bubbola, una fòla, una fantasia, una fanfaluca, o un miscuglio di tutto, o nulla di questo?

Seguitelo dunque, il giovanissimo Maraini jr., nelle sue avventure di ragazzo in uno dei luoghi più dolci e più belli al mondo, la collina a sud ovest di Firenze da Porta Romana sulla via di Arcetri, di Piazzale Michelangelo, della Certosa del Galluzzo e del convitto di Poggio Imperiale, proprio allo snodo tra queste magiche mète secolari di turisti e d’innamorati. Guardatelo aggirarsi tra le sale e i giardini della villa paterna, tra splendidi oggetti e meravigliosi libri illustrati che gli fanno sognare il mondo (e già, soprattutto, il Tibet), sagaci contadini toscani che gli insegnano i segreti dell’avvicendarsi delle stagioni e dei loro frutti e ospiti straordinari – “vescovi del sapere” li chiamava, anche se talvolta ai suoi occhi di bambino, e magari non solo a quelli, erano anzitutto persone noiosissime –, gente che magari si chiamava Aldous Huxley o Bernard Berenson.

C’è davvero tutto, in Case, amori, universi di Fosco Maraini: un libro ch’è molto di più di un’autobiografia e di un trattato etnobioetofilosofico. E ci sono, certo, anche le bugie: Fosco è maestro però, attenzione, non dell’astuta e perfida menzogna o della volgare balla, bensì di quell’arte sottile e a suo modo sincerissima che ci ha insegnato il barone di Münchhausen, quella che insegna a mentire veraciter, a rivivere e a reinventare di continuo la propria vita per avvicinarla sempre di più a quelal che si sarebbe voluto e che si vuole, cioè a quel che davvero si è. Tale, in ultimissima, spietata ma anche struggente analisi, la sostanza della sua personale distinzione tra l’”esocosmo” – l’universo, il mondo, la storia, gli altri, perfino al nostra stessa fisicità - e l’”endocosmo” che è in ciascuno di noi e dell’esistenza del quale molti, troppi fra noi in fondo nemmeno si accorgono.

Era quindi del tutto naturale, e del tutto ovvio, che al Piccolo Principe tutto fosse dovuto e nulla fosse negato. Era ovvio e naturale che, figlio di un padre che liberamente e senz’ombre di conformismo né di servilismo collaborava con colui che almeno per qualche anno – diciamo tra ’29 e ’38 – fu circondato in Italia da un consenso corale, quasi unanime e per molti versi sincero, il governo e il sistema che a lui faceva capo non riuscisse granché simpatico: tutto ciò faceva parte della fisiologica rivolta del figlio adolescente contro il padre, ch’è tanto meno apparentemente giustificabile ma tanto più forte e profonda quanto più il padre è forte, sano, ricco, bello, buono, generoso e successfull, e frequenta l’Olimpo, e ti inizia ad esso, e tu invece vuoi conquistartelo da solo e sai di avere i mezzi e gli strumenti per farlo e di meritar di farlo. Non si tratta certo di banalizzare tutto – come qualcuno ha pur provato a fare: ma la madre degli imbecilli è sempre gravida… - parlando della ribellione di un figlio libero e intelligente contro un padre “fascista” (che tale sarà senza dubbio stato, e lo sanno tutti: ma ch’era a sua volta libero e intelligente anche lui, eccome).

Una vecchia, grande villa e una pagina spiegazzata di giornale distrattamente letta per caso. Qui, in questo universus contractus, c’è tutto Maraini, tutta la sua avventura.

Quando Fosco e Mieko erano a Firenze, nella bella villa di Poggio Imperiale, per me fiorentino di porta Romana facevano parte del paesaggio: tantopiù che Fosco lo vedevo spesso anche in Facoltà. Ma non si può certo dire che ci venisse spesso e ci restasse a lungo. Forse il segreto per cui Firenze e Maraini si amavano tanto stava proprio in questo: che stavano pochissimo insieme.

Aveva cominciato presto a viaggiare, e la molla che lo spingeva era una sola: una curiosità che egli viveva come un dovere etico oltre che un piacere estetico. Dantescamente ulisside, Fosco chiedeva alla vita di poter sempre più diventare esperto e degli umani vizi e del valore. Mettendo a frutto l’inglese succhiato col latte materno, nel ’34 si era imbarcato ventiduenne come docente di tale lingua sulla Vespucci e aveva girato il Mediterraneo: che però non gli bastava. Nel giro di due anni, fra il ’35 e il ‘37 si sposò, vide nascere la primogenita Dacia, si laureò e raggiunse il grande orientalista, antropologo Giuseppe Tucci per una spedizione in Tibet, rinnovata undici anni più tardi.

Quindi il Giappone, il grande amore della sua vita, nel quale avrebbe vissuto durante il periodo bellico affrontandovi anche la prigionìa per non aver accettato di aderire alla Repubblica Sociale. E poi, oltre alle frequenti visite nel Paese del Sol Levante, tutto il resto del mondo: soprattutto il Tibet, l’Asia Centrale, la Corea, Gerusalemme alla quale dedicò un libro bellissimo che andrebbe assolutamente ristampato.

Fu giornalista e scrittore di viaggi tra i nostri migliori. Ma anche, com’è noto e come io stesso ho ricordato or ora, alpinista e rocciatore, fotografo, saggista e poeta elaboratore di nuove tesi semantico-filologiche. Cercatore instancabile della Verità, era convinto che ogni popolo e ogni tradizione ne possedesse un pezzo o un frammento: o magari tutta, ma da punti di vista sempre diversi rispetto agli altri. Quando se ne andò novantaduenne, nel 2004, stava interrogandosi ansiosamente – dopo la tragedia dell’11 settembre del 2001 – sul senso dell’Islam, una cultura che fino ad allora gli era rimasta piuttosto estranea e della quale si rendeva conto di non essere riuscito a comprender molte cose. Voleva capire, lo riteneva doveroso e necessario: ma, soprattutto, la sfida del conoscere gli piaceva, lo inebriava. La sua non era il vizio medievale della vana curiositas, ma piuttosto la sancta curiositas di un innamorato della vita e dell’umanità.

Ci restano la sua memoria, le sue foto, i suoi libri. Quelli che scrisse, come l’affascinante e commovente autobiografia Case, amori, universi; quelli che amò e possedette, custoditi oggi in Palazzo Strozzi presso il gabinetto Vieusseux. Firenze non lo ha ancora onorato come merita. Mi permetterei di suggerire – e spero che Matteo Renzi non se lo dimentichi - che quando, nel 2015, celebreremo solennemente il sessantenario della folle e generosa visita dell’allora sindaco di Firenze Giorgio La Pira ad Hanoi per convincere Ho Chi Minh ad arrestare il conflitto vietnamita allora nascente (e non fu certo colpa dello Zio Ho se esso deflagrò invece con la violenza che sappiamo, e che del resto ricadde su chi lo aveva voluto), non dovremo perdere l’occasione per ricordare con affetto quei due “fiorentini d’Asia” che tanto hanno fatto per farci comprendere e soprattutto per farci amare il mondo e per farci comprendere che siamo tutti una sola, grande, meravigliosa famiglia che rischia di continuo di rovinar se stessa ma che pure potrebbe essere felice se solo imparasse a conoscer se stessa, quindi ad amare. Tiziano Terzani e Fosco Maraini, insieme: il Piccolo Principe di Poggio Imperiale figlio di un raffinato intellettuale fascista e il ragazzo di Monticelli figlio di un generoso operaio comunista. Tiziano e Fosco: il loro sorriso, il loro coraggio, le loro macchine fotografiche. Rien que la terre.