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Difendo e difenderò sempre Renato Vallanzasca. Ho un debito morale con lui

di Massimo Fini - 17/06/2014

Fonte: Massimo Fini

Renato Vallanzasca è stato pescato a rubare in un Supermercato, l'Esselunga di viale Umbria a Milano. L'ho ha fatto nel modo più ingenuo. Una parte della merce l'ha pagata, l'altra, un paio di boxer, cesoie e concime per piante, l'aveva nascosto in un borsone. Beccarlo è stato un gioco da ragazzi. Bottino 70 euro.

Chi non ha rubato in un Supermarket alzi la mano e gli sarà tagliata per menzogna manifesta. Il Tribunale lo ha processato per direttissima e gli ha revocato il regime di semilibertà. Sulla revoca della semilibertà niente da dire, era un provvedimento inevitabile. Sul processo per direttissima ho invece qualche perplessità. E qui usciamo, per un momento, dal personaggio Vallanzasca, che i suoi debiti con la giustizia li ha pagati fino in fondo con quarant'anni di carcere di cui undici in isolamento (le 'anime belle' di Amnesty International, dei 'diritti umani' affini, i difensori professionali dei diritti dei cani, dei gatti e delle lucertole hanno un'idea di che cosa significhino undici anni in isolamento?) ed entriamo in quelli di un cittadino comune che avesse commesso lo stesso reato. Per un furto di 70 euro si può essere processati per direttissima, per i grassatori di milioni di euro ci vogliono decine di anni prima che si arrivi a una sentenza definitiva, che in genere non arriva perché è stata tagliata dalla prescrizione. E se caso mai arriva, dopo sforzi inumani della magistratura, per i 'ladri in grande stile' ci sono gli 'arresti domiciliari' in lussuose ville, che proprio con i loro latrocini si sono fatte, o la beffa dei 'servizi sociali' dove si fa finta, per quattro ore alla settimana, di imboccare degli ammalati di Alzheimer che vomitano quel cibo non perché incapaci di ingurgitarlo, ma disgustati da colui che glielo dà.

No, non infierirò su Vallanzasca e non cederò alla tentazione di irriderlo perché da bandito che seminò il terrore a Milano, negli anni Settanta e in parte degli Ottanta, si è ridotto a essere un 'ladro di ruote di scorta di micromotori' per dirla alla Jannacci. Non lo farò perché ho un debito con lui. Gli devo la sua onestà intellettuale. Quando fu catturato per la prima volta, a Roma, e portato, in manette, sul famoso balconcino, sotto c'era una folla di fotografi e giornalisti (la difesa della persona esiste solo per i delinquenti di grosso calibro, per gli altri valgono gli 'schiavettoni'). Uno dei giornalisti, nel clima sociologicizzante dell'epoca, gli chiese: «Vallanzasca, lei si ritiene vittima della società?». E lui rispose: «Non diciamo cazzate». Lo avrei graziato solo per questo. Ha sempre ammesso le sue responsabilità e se ne è assunte anche altre che erano pur sue ma che i magistrati avevano erroneamente attribuito ad altri. In quarant'anni di carcere ha subito i pestaggi più selvaggi da parte degli agenti di custodia (chi avrebbe mai difeso un 'pendaglio da forca' come lui?) e non se nè mai lamentato. Non ha invocato Amnesty International, come hanno fatto i ladri di Tangentopoli per poche settimane di detenzione preventiva, e nemmeno difeso i suoi più elementari diritti di detenuto (si rifaceva scopandosi tutte le direttrici, se carine, dei 36 penitenziari in cui è stato recluso, oh yes). Solo una volta, dopo un pestaggio più violento del solito, scrisse una lettera di protesta. Ma al solito giornalista che gli chiedeva: «Vallanzasca, lei è stato torturato?» rispose: «Beh, adesso non esageriamo».

No, infierirò su Renato Vallanzasca. Come scrissi in un articolo sull'Europeo del primo agosto 1987, lo considero «un bandito onesto in una società dove, troppo spesso, gli onesti sono dei banditi».