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Ernst Jünger Inedito. La battaglia come esperienza interiore

di Gian Paolo Serino - 29/06/2014

Fonte: satisfiction

A cento anni dalla Prima Guerra Mondiale presentiamo iun inedito di Ernst Jünger, il grandissimo scrittore tedesco che ha segnato il XX secolo del pensiero e della letteratura grazie a romanzi e saggi provocatori e profetici su una catastrofe epocale che coinvolge non solo la società umana ma l’intero pianeta, e dalla quale può salvarsi solo l’individuo in responsabile fuga verso l’interiorizzazione. Nello straordinario La battaglia come esperienza interiore, (nelle librerie per Piano B Edizioni dal 25 Giugno, con la traduzione di Simone Buttazzi), troviamo tutti quelli che sono i richiami alla base pura dell’uomo: dell’uomo soldato. Jünger partecipò alla Prima Guerra Mondiale non solo dalla trincea della carta e in questo inedito  racconta, come la lotta sia un’esperienza che forma, rafforza, incrina per ri-forgiare e vada contenuta in una sorta di meccanismo demiurgico-razionale, che permetta la comprensione – postuma o immediata – di quello che sta accadendo e di quello che accadrà sul campo, nelle trincee, accanto a sé, prima e dopo. Il soldato vive in un’epica personale fatta di estetica della battaglia, di sollecitazione emozionale comune in cui il senso della lotta diventa un nodo gordiano di partenza e arrivo per lui e per la sua dimensione cognitiva di ciò che egli rappresenta, di ciò che rappresenta “il nemico” – cui viene tributato comunque, il giusto onore, il doveroso rispetto, reso concreto da una sorta di fratellanza d’armi, nonostante le linee avverse, i simboli antagonisti.
Perché la capacità del combattente è proprio una sorta di decisionismo che permette di comprendere, dominare, tutte le pulsioni che vivono nella stagione della lotta.
Poi l’artista, lo scrittore, il genio di Junger, è capace anche di trasformare le proprie sensazioni ed esperienze in puro mito, permettendoci di comprendere l’orrore in tutte le sue sfaccettature, riuscendo a destabilizzarci e inebriarci, ma non lasciandoci scampo davanti  alla sua struggente e toccante scrittura.
 
Gian Paolo Serino
 
 
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 Sì, siamo spensierati e sicuri del trionfo. Questi giorni, queste notti prima della battaglia hanno un sapore tutto particolare. Ogni lamentela diventa inessenziale, l’attimo diventa merce preziosa. L’avvenire, i crucci, ogni gravame che ci ha fatto passare ore disperate viene buttato via come una cicca fumata fino alla fine. Tra poche ore forse ci lasceremo alle spalle quell’isola confusa cui noi, novelli Robinson tra tanti, abbiamo cercato di dare un senso. Il denaro, mera fonte di preoccupazioni, diventerà superfluo e sciocco, tant’è che gli ultimi talleri finiscono nell’alcool così da sbarazzarsene una volta per tutte. I genitori piangeranno, ma il tempo spazza via ogni cosa. Sono così tanti gli uomini a cadere che la ragazza troverà un nuovo fidanzato e l’amore per il defunto subirà una trasformazione. Gli amici, il vino, i libri, la ricca gamma dei piaceri dolci e amari, tutto si spegnerà insieme alla coscienza come l’ultima luce di una candela sistemata sull’albero di Natale. Si muore con la speranza che il mondo migliori e nell’ultimo sussulto si coglie la fuggevolezza di fondo della nostra folle corsa tra le cose e le persone. La gran serata, l’annullamento, l’oblio, morire e risorgere nell’eternità, dallo spazio definito all’infinito, dall’individualità a quella grandezza che ha in grembo ogni cosa.
Sì, il soldato nel suo rapporto con la morte, nell’impegno personale per un’idea, ne sa ben poco dei filosofi e dei loro valori. Ma in lui e nelle sue azioni si esprime la vita in chiave più concreta e profonda di quanto possa mai riuscire a un libro. E ogni volta, malgrado l’assurdità e la contraddittorietà degli eventi, in lui resta una verità accecante: che morire per le proprie convinzioni è quanto di più alto. È professione di fede, azione, realizzazione, amore, speranza, traguardo; in questo mondo incompiuto è qualcosa di perfetto, la perfezione per antonomasia. L’azione in sé non è nulla, la convinzione è tutto. Uno può anche morire convinto di una cosa non vera: avrà comunque fatto del suo meglio. L’aviatore di Barbusse potrà vedere sotto di sé due eserciti armati fino ai denti pregare un dio per la vittoria, e sicuramente uno, o forse tutti e due, spilleranno un errore alle proprie bandiere; eppure, dio accoglierà entrambi. La follia e il mondo sono una cosa sola, e chi muore per un errore resta comunque un eroe.
[…] Partiamo domani appena fa buio, per attendere l’attacco ancora un giorno e una notte nascosti in buche e gallerie. Son tre notti che diverse migliaia di persone s’assembrano sul far della sera attorno a questa casupola che pare un’isoletta nella corrente, silenziosa ed effimera, senza canti né divertimento, senza barzellette né risa. A volte un ordine, impersonale e piatto, s’inserisce tra il trapestio assordante degli stivali chiodati, tra gli urti metallici delle armi contro gli elmi, contro le vanghe. Poi rumoreggiano nuove colonne di artiglieria di passaggio, da quelle più piccole ai giganteschi mortai trainati da motori. E alla fine, agli occhi di chi osserva questa oscura parata di uomini, animali e materia, non resta che una sensazione di forza mostruosa e orripilante, sospinta verso il traguardo da un’analoga volontà. Ciò che nella notte fluisce per poi assembrarsi, enorme, presso le muraglie ai confini, è la volontà di trionfare, la potenza ridotta nella sua forma più succinta: l’esercito.
L’esercito: uomini, animali e macchine forgiati in una sola arma. Con le macchine vogliamo calpestare il nemico, accecarlo, soffocarlo, schiacciarlo, incenerirlo, spalmarlo sul fondo dei crateri creati dalle granate. Con le macchine vogliamo annichilire la volontà dei pochi sopravvissuti mediante un tale ricorso a immagini d’orrore che i nostri uomini, impetuosi, si limiteranno a cavarli fuori dalle buche senza far nulla, con un sorriso idiota stampato in faccia. La macchina è l’intelligenza del popolo fusa in una forma d’acciaio. Essa centuplica la potenza del singolo e conferisce ai nostri combattenti il loro carattere tanto temuto.
La battaglia delle macchine è così rintronante che l’uomo per poco non vi scompare. Spesso, immerso nel campo di forza delle moderne battaglie, non mi è parso vero di assistere a un evento di proporzioni storiche. La battaglia assumeva i tratti di un meccanismo gigantesco e morto, emanando un’onda di distruzione gelida, impersonale, su tutta la spianata. Un paesaggio di crateri, di astri senza vita, in preda a eruzioni vulcaniche.
Eppure: dietro a tutto c’è l’uomo. È lui a imporre alle macchine una direzione, un senso. È lui a far sì che lancino proiettili, esplosivo e veleni. Egli si leva al loro interno come un uccello predatore sopra il nemico. Si accovaccia nel loro ventre quando avanzano massicce sul campo di battaglia, sputando fuoco. È lui la creatura più pericolosa, assetata di sangue e risoluta del pianeta Terra.
Le battaglie e le guerre ci sono sempre state, ma ciò che vediamo qui all’opera, oscuro e incessante, è la forma più spaventosa in cui lo spirito del mondo abbia mai modellato la vita. E proprio perché queste masse avanzano in maniera così monotona per poi, dietro agli argini, diventare bacini colmi di un mostruoso potenziale, proprio per questo danno la sensazione del potere puro, che invade ogni singolo spettatore come una tempesta elettrica. Si coglie la stessa sobrietà inebriante che si manifesta solo nei cuori pulsanti delle nostre grandi città o nel concetto dei campi di forza elaborato dalla fisica moderna. Vi soggiace una volontà imperiale, degna delle masse coinvolte. Ciò che qui sta per scatenarsi è una battaglia nel segno di una nuovissima epoca.
Eppure, mentre me ne sto con i camerati le cui risa rimbombano contro le finestre chiuse, io sono il figlio di un’epoca antica e mi pare che dopodomani bisognerebbe portare simboli vecchi e sacri verso nuovi orizzonti. Ma qui l’antico splendore setato delle bandiere sembra stingere, qui interviene una serietà più amara e ardua, un ritmo di marcia che richiama le immagini di ampie zone industriali, di eserciti di macchine, di battaglioni di operai e uomini di potere nuovi, e gelidi. Qui la materia parla la sua lingua dura come il ferro e lo stesso dicasi dell’intelletto superiore che ne fa largo uso. Questa lingua è più decisa e tagliente di qualsiasi altra mai apparsa prima.
Cosa sono gli uomini che non si sentono all’altezza del proprio tempo? Oggi scriviamo poesie d’acciaio e componimenti di cemento armato, lottiamo per il potere in battaglie il cui ritmo vanta una precisione macchinica. Vi è una tale bellezza in tutto questo: nelle battaglie di terra, per mare e nell’aria, in cui la volontà incandescente del fulmine viene domata ed espressa padroneggiando miracoli tecnologici. E posso anche immaginarmi che ben presto tali miracoli si concedano alla vista di una razza dotata di un potente senso della realtà, come una splendida orchidea che non ha bisogno di altre giustificazioni se non la propria stessa esistenza.
Tutti gli obiettivi sono effimeri, solo il movimento è eterno e porta con sé, senza sosta, scenari magnifici e spietati. Potersi richiudere nella propria sublime mancanza di scopo come in un’opera d’arte o nel cielo stellato è un lusso che solo pochi si possono permettere. Ma chi in questa guerra vede solo negazione e sofferenza e non l’affermazione, il massimo dinamismo, allora avrà vissuto da schiavo. Costui avrà avuto solo un’esperienza esteriore, non un’esperienza interiore.
Ed ecco volare via la vita, la grande emozione, la volontà di combattere e di conquistare il potere nelle forme della nostra epoca, la nostra forma, la forma più ostinata e robusta che si possa immaginare. Dinanzi a tale potente, perpetuo rifluire verso la battaglia tutte le opere s’annichiliscono, tutti i concetti si svuotano, e si coglie un che di elementare e grandioso che è sempre stato e sempre sarà, anche quando non ci saranno più né uomini e né guerre.

Ernst Jünger