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La ricostruzione del sistema: capolavoro del sessantotto

di Luca Leonello Rimbotti - 29/06/2014

Fonte: Italicum

 

 

La capacità del modello borghese-capitalistico di ricrearsi sempre uguale a se stesso è in Occidente straordinaria, soprattutto quando a metterlo in discussione sono soltanto atteggiamenti, estetiche, sottoculture della divagazione. Il Sessantotto, che per un momento ebbe i caratteri di una rivolta globale nei confronti del codice borghese, in realtà si mostrò povero di strategie, di obiettivi e di una sua propria ideologia di vera alternativa. Si è dimostrato nulla più che un’escrescenza borghese. Nel Sessantotto ci fu un po’ di tutto: sociologia, filosofia, politica costume, musica, nuova religiosità, psicanalisi e canapa e acido lisergico. Ma il calderone non bastò a scuotere il regime di collaudata repressione industrialista. L’errore era alla radice: stava nel concepire l’assurdo, voler cioè mutare dall’interno un meccanismo collaudato e potente, semplicemente attraverso la costruzione di modelli sostanzialmente non di lotta ma di fuga, paralleli e non frontalmente antagonisti alla società capitalistica. Le utopie sessantottine non andarono lontano perché, mentre il potere si rinsaldava dinanzi alle varie crisi di assestamento e alla minaccia di una involuzione, dalla base contestatrice venivano proposti atteggiamenti, attitudini, gesti, parole. Il comunitarismo, appena rivendicato, era renitente di fronte alla necessità di mobilitazione, dando vita unicamente a frammenti di individualismo: cos’altro era la “comune” fricchettona, se non uscita di scena, abbandono, renitenza, auto-chiusura nell’angolo?

E dire che l’occhio giusto era stato gettato e, ad esempio, un Marcuse, aveva ben centrato l’obiettivo: la sostanza totalitaria della macchina democratico-liberale era stata denunciata in pieno, la vocazione alla repressione, tipica della società “aperta” capitalista, che usufruiva di alcuni ottimi attrezzi di narcosi sociale super-borghese come il freudismo, era stata ben individuata. E Marcuse, che sbarcò in America provenendo direttamente dalla Germania dei primi anni Trenta, conosceva, sapeva, annusava: e se ne uscì con la nota teoria dell’immaginazione al potere e del lavoro come gioia: cos’altro furono, queste sue trovate, se non la traduzione para-libertaria in lingua americana di postulati provenienti da tutt’altra parte, cioè il pensiero mitico e la forza attraverso la gioia, che erano stati cavalli di battaglia del Terzo Reich? Negli anni Cinquanta Marcuse cercò di far filtrare alcune concezioni appartenenti al patrimonio socialista nazionale, da lui appreso vivendo il clima della Germania weimariana, barattando l’irrazionalismo imperante allora in tutta Europa (da Klages a Blondel, da Marinetti a Rosenberg) per l’ultima saggezza post-marxista. Boutade e impostura più clamorose non sarebbero state possibili, se non fosse per l’ignoranza, il provincialismo, l’incolta povertà mentale imperanti negli Stati Uniti e nei suoi seguaci occidentalisti, allora come oggi.

Già, perché – dobbiamo ricordarlo - queste iniziative di “nuova cultura” partirono dai campus californiani, e dalle cattedre universitarie di professori europei trapiantati negli USA, prima ancora che dalle strade americane, da quei pulpiti assembleari e da quei “collettivi” perfettamente borghesi si irraggiarono le parole d’ordine del flower power, della liberazione sessuale, della denuncia della società repressiva, dell’autogoverno studentesco etc. Ma proprio su quest’ultimo punto, voglio ricordare che fu Nolte a notare che la contestazione studentesca del maggio francese, postuma rispetto a quella americana con a seguire quella del mondo occidentale e buon’ultima l’italiana, non fu che la riproposta sotto altri simboli del processo di autogoverno universitario lanciato nel 1933-34 da Heidegger all’Università di Friburgo, di conserva con gli studenti-lavoratori delle SA. Come noto, la parola d’ordine di quegli studenti, politicizzati con trenta-quarant’anni di anticipo nei confronti dei loro omologhi degli anni Sessanta-Settanta, era “i giovani guidano i giovani” e del pari centrale era la contestazione contro i vecchi baroni della cattedra, espressione del conservatorismo reazionario prussianeggiante. Cohn-Bendit e Rudi Dutschke vennero dunque anticipati, e di parecchio, ma nessuno – a parte poche eccezioni – si rammentò di segnalarlo, né tantomeno di dire con precisione da chi.

Quella che era nata nell’anteguerra come rivolta generazionale socialista e nazionale di massa, si ripropose negli anni Sessanta in Europa e in America come libertarismo anarco-marxista: quando si dice della capacità post-moderna di imbrogliare le carte e confondere le idee! Tuttavia, l’intero movimento studentesco e l’intera contestazione – che riguardò anche frange, ma solo frange, dell’operaismo – sono stati visti come una cattura da sinistra di idee nate a destra. Archetipo spettacolare di questa eterogenesi dei fini è l’utilizzo, massicciamente operato a sinistra, di pensatori di punta della destra nazionalpopolare più radicale e insieme più prestigiosa. I nomi di Heidegger, Schmitt e Jünger possono bastare. Il pensare per immagini jüngeriano, lo schmittiano stato d’eccezione, l’esistenzialismo di Heidegger e il rianimarsi dei nostri sogni originari di Rosenberg anticipano di circa trent’anni l’immaginazione al potere di Marcuse e le teorie della rivolta di Rudi il rosso. E cos’altro fu l’intera ideologia dei vari fascismi, se non l’utilizzo della fantasia e dell’irrazionale contro il grigiore calcolante della ragione cartesiana? E non fu un marxista ortodosso – vogliamo dire Lukàcs – a indicare nella distruzione della ragione per l’appunto il filone che conduceva secondo lui da Schelling e i Romantici dritto fino a Rosenberg e a Hitler?  Il paradosso consiste nel fatto che la cultura della sinistra sessantottina, per sostenere le proprie idee sbilenche, nulla trovò di meglio che puntellarle…con il meglio della cultura nazionalsocialista o nazionalpopolare degli anni Trenta. Fu allora che le case editrici della sinistra impegnata presero a pullulare di Schmitt, Heidegger, Benn, Jünger, Spengler, Cioran e insieme a costoro persino Guénon, Davila…il fior fiore del “reazionarismo” tradizionalista.

Come ha scritto Massimo Borghesi in un suo intervento on line intitolato “La cultura di destra legittimata a sinistra”, «è una cultura di destra, una cultura irrazionalista e vitalista che oppone l’immaginazione alla ragione […] la cultura della contestazione, come distruzione della ragione, porta alla vittoria del filone di destra della cultura europea del Novecento». Da sempre il mito sta dalla parte della tradizione rivoluzionaria, gerarchica e guerriera, il logos invece – come ben sapeva Nietzsche – sta dalla parte della sovversione progressista, illuminista e cosmopolita, da Socrate a Marx. La distruzione della metafisica occidentale operata da Heidegger, il suo negare l’individuo nel nome di una rifondazione dell’origine, è stata catturata a sinistra come delegittimazione dell’imperialismo borghese, senza però che si pagasse dazio all’ideologia da cui questi elementi venivano estratti. Cosicché, come è stato scritto ancora da Borghesi, «la sconfitta politica della Germania nazista è stata soppiantata dalla sua vittoria culturale».

La negazione dell’umanesimo cristiano, la critica a fondo del razionalismo borghese-imperialistico, la frantumazione della soggettività e – per converso – il riaprirsi alla dimensione comunitarista, l’accettazione che forze e leggi egemoniche della vita (l’eros, la volontà di potenza, gli istinti, lo spazio etc.) e non utopismi umanitari dettano i valori – ciò che venne sommariamente rivendicato dalla contestazione sessantottina - è una piattaforma tipicamente rivoluzionario-conservatrice, raccolta in pieno dai fascismi e da essi rilanciata come essenziale tavola dei valori: dallo slancio vitale di Bergson e dalla filosofia della forza di Blondel, cui si abbeverò Mussolini sin da giovane (ne scrisse già intorno al 1908), fino all’Eros cosmogonico di Klages, oppure alla filosofia dell’amore di Giulio Cogni (che negli anni Trenta, per il suo messaggio di liberazione sessuale, fece inorridire i cattolici retrogradi) e fino a Nietzsche, D’Annunzio etc. La musica suonata a “destra” è sempre stata quella di voler sovvertire il moloch razionalista-progressista nato con i philosophes illuministi e santificato con il materialismo scientifico marxiano. Dionisismo, gioia di stare insieme, condivisione di spazio e destino, festa, aria aperta, salute del corpo e dello spirito, unitamente a ciò che i tedeschi chiamano la Begeisterung, l’entusiasmo irrazionale: questa la “fantasia al potere” rivendicata per davvero dagli autentici rivoluzionari, e non per gioco di società tra rampolli borghesi.

Ed ecco improvvisamente che i “libertari” d’oltre-Oceano e i loro eterni imitatori europei –  la folla degli intellettuali sulla perenne cresta dell’onda, dalla Scuola di Francoforte di Adorno e Horckheimer fino ai più modesti nostrani Cacciari o Vattimo e fino ai “nuovi filosofi” francesi alla Glucksmann o alla Derrida, ivi compresi i nipotini del tipo di Bernard-Lévy – ed ecco dunque, dicevamo, che tutti costoro si fanno in quattro per insegnare al mondo ciò che il mondo – se solo avesse ascoltato bene – già avrebbe dovuto sapere da decenni: il sistema capitalistico-finanziario a guida occidentale è un marcio laboratorio di repressione e intimidazione, innestato su metodi di imbonimento violento e al tempo stesso sottile, strisciante, ma non meno inquisitorio, tanto da esser riconosciuto come un totalitarismo compiuto, ben più pericoloso di quello nazi-fascista-comunista perché spesso sottotraccia, paludato con panneggi pseudo-democratici e tolleranti. La Scuola di Francoforte fece la sua critica all’Occidente illuminista per prima, ma in ritardo gravissimo, anch’essa, di almeno venti-trent’anni. In ritardo di cinquanta, se invece si pensa a uno Spengler, di sessant’anni, se si pensa a cosa scrivevano sul marciume borghese e sulla necessità di un nuovo paganesimo irrazionale un Papini o un Prezzolini nei primissimi anni del Novecento. In ritardo di un secolo e mezzo se si pensa ai Romantici e alla loro ribellione contro il razionalismo.

Dice: la contestazione sessantottina ha rivoltato le coscienze, ha imposto nuovi modelli di liberazione etica, ha allargato le coscienze….Vuoi mettere, la liberazione sessuale, una vera rivoluzione! Certo, ma vale una rivoluzione se la conduce la banda egemonica degli intellettuali di sinistra, mentre non viene neppure rammentata se a farla erano i nazionalisti rivoluzionari di inizio-Novecento? Voliamo pure basso, a livello di costume sociale: liberazione sessuale, nudismo, comunitarismo, naturismo, ecologismo: l’Artamanenbund di epoca guglielmino-weimariana, il coevo Circolo di Stefan George, quello di Monte Verità (tra cui uno Jung, un Klages, etc.) facevano nudismo, naturismo, ecologismo, cultura alternativa, pensiero oppositivo nel 1910, nel 1920. E la New Age, quella vera – come nuova religiosità antidogmatica, panteista e neopagana – la facevano Ezra Pound (“New Age” si chiamava appunto la rivista dei “vorticisti” inglesi) nel 1910 o i tradizionalisti romano-italici nel 1920 o quelli völkisch fin dai tempi del Kaiser, mentre a Fiume gli Arditi di D’Annunzio facevano “festa” rivoluzionaria, liberazione del corpo, anarchismo guerrigliero cinquant’anni prima degli hyppies e di Che Guevara…

La grande boutade della contestazione si è poi rapidamente sgonfiata come una vescica piena d’aria non appena il sistema liberalcapitalista, che si trovava in piena decomposizione di crescita in epoca kennediana, si è ripreso proprio grazie alle benefiche punture di spillo – una vera agopuntura – che gli provenivano dai suoi contestatori, tutti interni alla way of life americanomorfa, consumista ed arrivista Difatti, tutti i maggiori come i minori artefici di quella scampagnata che è stata la contestazione del 1968, e poi tutti i più esilaranti guru del “pensiero alternativo”, noi li abbiamo ritrovati, dismessi gli abiti fricchettoni e indossata la divisa del liberale, a comandare i nuovi indirizzi del totalitarismo capitalista: a cominciare da Paul Allen e Bill Gates che, passati in un baleno da Woodstock al business mondiale con la rivoluzione informatica, oltre a diventare loro stessi capitalisti plurimiliardari, hanno provveduto a fornire al sistema di controllo-repressione mondialista il più fantastico e adeguato degli strumenti: il web.

Il Sessantotto, per parlar chiaro, avrebbe anche potuto costituire una buona occasione per dare una spallata a fondo a tutta la società consumistico-finanziaria del post-capitalismo turbo-liberista, se a gestire quella protesta, anziché intellettuali borghesi fintamente rivoluzionari oppure testimonial del circo mediatico come Bob Dylan o John Lennon, con tutta la ridicola coorte dei piccoli o piccolissimi seguaci alla Veltroni, ci fossero stati autentici militanti in grado di definire ideologia, progetti e strategie della sovversione anti-liberista. Così non è stato, e pensare di correggere oppure rivoluzionare una società progressista con mezzi, idee e piccoli uomini progressisti si è dimostrata una finzione e alla fine un inganno giocato non a una, ma a diverse generazioni di giovani e meno giovani afflitti da ingenuità cronica. Su tutta la questione, in fondo, continuiamo a pensarla come Adriano Romualdi, quando scriveva che la contestazione altro non era che «una fase senile della democrazia» tutta interna ad un sistema che «simpatizzava col contestatore», coccolandolo, adulandolo e alla fine, ormai sedato a forza di consumismo e modelli di competizione basati sul dio-denaro, sistemandolo nei gangli del proprio stesso potere. Il conformismo, la natura snobistica e ludica, di mera divagazione di costume, dunque la pochezza sostanziale di tutto il fenomeno balzano agli occhi.

Come infatti scriveva Romualdi, questi finti ribelli erano i rampolli del potere egemonico, tanto che «il “movimento studentesco” attira i giovani in un ordine d’idee che – placatisi i giovani bollori – farà di loro dei bravi elettori comunisti». Questa precoce e centratissima analisi di Romualdi, risalente al 1970, dice molto relativamente alla qualità tutta borghese, perbenista e conformista del Sessantotto, il nostrano come l’altrui. Quell’epoca e quel movimento furono tuttavia un’occasione sprecata. In esso, se diversamente convogliato, potevano anche trovarsi stimoli e spunti potenzialmente minacciosi nei confronti del potere costituto. L’occasione, come si sa, fu perduta anche a destra, dove, a lato di un’espansione del pensiero mitico e ribellistico presso i giovani, del tipo di quello che si rifece alla cultura tradizionale e mitica attraverso la riscoperta di Evola, non si ebbe però la sagacia di saldare queste fibrillazioni e queste inquietudini a un progetto di reale e serio rivoluzionamento delle carte politiche, finendo con l’accartocciare le spinte innovatrici tra le maglie del borghesismo conservatore missino. Con le derive, che ognuno conosce, legate alla successiva stagione di rafforzamento del sistema capitalistico, portato a termine con la strategia astuta degli opposti estremismi e la facile vittoria sugli sterili spontaneismi armati. Il capitalismo liberale, che si stava decomponendo sotto la spinta centrifuga dei vari boom economici e della crescita industrialista, alla fine è stato rimesso in carreggiata proprio dai suoi falsi profeti della contestazione, che ne hanno operato una metodica ricostruzione con gli stessi materiali buonisti, falso-pacifisti, falso-umanitaristi ed individualisti di allora. Il caos identitario, il massacro sociale e la decrescita criminale di oggi sono figli legittimi di quella vecchia sbornia utopistica.