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Trasgressori senza dignità

di Adriano Segatori - 29/06/2014

Fonte: Italicum




I sacrestani sono quei personaggi della vita ecumenica che offrono il loro tempo e il loro servizio alla pulitura degli ambienti religiosi, al controllo dell’efficienza propagandistica tramite la distribuzione di santini, l’aggiornamento degli eventi di preghiera e il mantenimento della quota di ceri disponibili. Sono loro che, con sguardo ovino e passo strascicato, sussurrano melensi ringraziamenti mentre passano tra i credenti con la saccoccia delle elemosina.
Questi poi – i benefattori degli spiccioli – si sentono perfettamente ripuliti e a loro agio al compimento del gesto di versare, come esempio pubblico di magnanimità ed interiore rivendicazione del perdono per i peccati commessi o anche solo pensati.
Insomma, tutto un grande affaccendamento liturgico tra compassione collettiva e assoluzioni di gruppo.
Compassione e assoluzione: i due dispositivi messi in atto da un certo tipo di religiosità decadente per giustificare ogni forma di aberrazione e di ignominia. <<Chi sono io per giudicare>>, dice il papa dal pergolo di San Pietro. Tu forse niente, ma quel Dio che rappresenti anche sì. <<Mafiosi pentitevi e sarete perdonati! Ve lo chiedo in ginocchio>>. Se non fosse agghiacciante sarebbe solo comico. I credenti se li beccano pure in paradiso i pluriassassini!
Insomma, dovunque si guardi e si ascolti, solo gesti di accattonaggio misericordioso e scarti di parole.
Del resto, dal punto di vista simbolico e non solo, un certo clima di degenerazione era nell’aria da secoli.
Abbiamo – un po’ per caso e un po’ per divertimento di studio – analizzato il passaggio mentale e politico di certe debolezze umane, e la loro discarica nella cosiddetta post-modernità.
Ai tempi di Aristotele esistevano i vizi capitali – gola, invidia, accidia, superbia, avarizia, lussuria e ira – che rispondevano, per le persone portatrici, al pubblico ludibrio della polis. Erano, in altre parole, deviazioni dell’anima e nemiche della kalokagathia, cioè dell’ideale di armonia e di perfezione dato dall’unione indissolubile del bello e del buono. I golosi, gli invidiosi, gli accidiosi, i superbi, gli avari, i lussuriosi e gli iracondi venivano considerati inferiori e imperfetti, perché schiavi delle passioni ed impotenti al raziocinio.
Poi arrivò il cristianesimo, e con esso la <<guerra all’ultimo sangue contro l’esemplare umano superiore [prendendo] le parti di tutto ciò che è debole, meschino, malriuscito>> – tanto per rievocare Nietzsche. Niente umana deprecazione – ‘Chi è senza peccato scagli la prima pietra’ –, né ostracismo dalla comunità organica di appartenenza – tutti fanno parte del ‘gregge del Signore’ –, ma solo a Dio il potere di sistemarli a friggere da qualche parte all’inferno. L’unico poeta-giudice fu Dante, che trovò una collocazione per tutti, seguendo l’elenco sovraesposto. <<Voi cittadini mi chiamaste Ciacco:/per la dannosa colpa de la gola/come tu vedi a la pioggia mi fiacco>> (Inferno, VI); <<Allora più che prima gli occhi apersi/guarda’mi innanzi, e vidi ombre con manti/al color de la pietra non diversi>> (Purgatorio, XIII); <<Tristi fummo/ne l’aere dolce che del sol s’allegra/portando dentro accidioso fummo>> (Inferno, VII); <<Gli occhi miei ch’a mirar eran contenti/per veder novitade ond’è son vaghi/volgendosi ver lui non furon lenti>> (Purgatorio, XI); <<Percoteansi ‘ncontro; e poscia pur li/si rivolgea ciascun, voltando a retro,/gridando: “Perché tieni?” e “Perché burli?” (Inferno, VII); <<La bufera infernal, che mai non resta/mena li spirti con la sua rapina:/voltando e percuotendo li molesta>> (Inferno, V); <<Queste si percotean non pur con mano/ma con la testa e col petto e coi piedi/troncandosi cò denti a brano a brano>> (Inferno, VII). C’è ne per tutti, insomma, con un occhio di riguardo per gli invidiosi e i superbi: troppo numerosi, avrebbe riempito l’inferno, e poi, in fondo, un margine di espiazione possiamo pure capirla per due peccati in un certo senso inflazionati.
Peccati, quindi, e non più vizi. Non più deviazioni che mettono a repentaglio con il cattivo esempio l’ordine comunitario, ma comportamenti che insultano un presunto piano di ineffabile disposizione del Dio.
Già qui emerge il primo istinto di infantilizzazione dell’uomo. Da individuo integrale e differenziato, che senza il ‘signore interiore’ si riduce a reietto e recide, per sua volontà, ogni legame con i suoi simili, a peccatore originario che non può assumersi nessuna responsabilità in piedi, ma solo inginocchiarsi e pentirsi, per evitare una punizione nell’altra vita.
Passa il tempo, ed anche la chiesa si conforma e si deforma. Niente più inferno, niente più purgatorio: tutti redenti, finalmente!
Ma qualcosa si deve pur dire di queste sette anomalie elencate. Se non sono vizi, e neppure peccati, dove mai possiamo inquadrarle. Ma nelle malattie, naturalmente!
Ed ecco che la gola diventa Disturbo da alimentazione incontrollata; l’invidia, Disturbo antisociale di personalità; l’accidia, Disturbo depressivo; la superbia, Disturbo narcisistico di personalità; l’avarizia, Disturbo da accaparramento; la lussuria, Disturbo da ipersessualità o sex-addiction; l’ira, Disturbo del controllo degli impulsi.
Il gioco è fatto. Ciò che distingueva l’adulto fatto, l’uomo di rango e di stile che mai avrebbe delegato ad altri il potere di assolvere o condannare, di promuovere o di bocciare, si trasforma prima in penitente e poi in sofferente, incaricando il prete e lo psicologo alla cura della sua anima e della sua psiche.
E chi è che demanda – volente o nolente – ad altri il compito di giustificare e di accudire se non il bambino ai propri genitori? Chi è che pretende l’assoluzione per le proprie marachelle e la comprensione per i pasticci procurati a sé e agli altri se non il ragazzino discolo e indisciplinato?
Tanto per ritornare ad un argomento ormai inflazionato negli ultimi anni, riparliamo dell’assenza del Padre, come simbolo e archetipo di un certo modo adulto di stare al mondo. Potremmo dire che il Padre sta al vizio, come la Madre sta al peccato, come il Sanitario sta alla malattia. Spieghiamoci meglio. Il Padre, portatore della Legge e funzionario della proibizione e del limite, è colui che determina il principio della retta via, la cui trasgressione porta alla condanna. La Madre, nel suo ruolo di accudimento e di accoglienza, comprende le disubbidienze e le inserisce nel campo della benevolenza e del perdono. Il Sanitario, quale operatore di salute e di cura, fa diagnosi delle devianze del comportamento e le inquadra nel contesto della malattia.
È la vittoria della profezia di Thomas Szasz: lo Stato Terapeutico. Un sistema nel quale nessuno è colpevole, né di fronte agli uomini né di fronte a Dio, ma tutti un po’ cagionevoli di salute, quindi passibili di cura e di miglioramento. Il giudice interiore – tenutario della colpa, del rimorso o della rivendicazione – ha lasciato il posto al diagnosta clinico e al counselor, nella centrata etimologia latina di colui che consola, conforta, viene in aiuto.
È il trionfo dell’irresponsabilità propria del bambino, dell’immaturo che non risponde di fronte alla legge e per il quale è previsto – anche in caso di reati di sangue – la non punibilità, quindi un percorso alternativo di consapevolezza e di sviluppo psichico. Una condizione definita da Massimo Recalcati come <<minorizzazione generalizzata degli adulti>>, con la conseguente falsa interpretazione che ogni punizione e ogni censura sia un abuso contro la libertà individuale.
In questo società di attempati adolescenti male-educati, non c’è più posto per la sublime malinconia di Leopardi, né per l’arroganza trasgressiva di Casanova; come non ha spazio la prevaricante aggressività di Shylock, e neppure la crudele licenziosità di Semiramide; non trova la giusta dimensione la violenza di Cellini, l’aristocratica abbondanza di Ferrè o l’artistica antisocialità di Caravaggio. Tutti devono essere ricondotti alla turpe catalogazione del disturbo, per giustificare l’inetta e plebea degradazione dei contemporanei. L’obiettivo è quello di sopprimere ogni vizio, di assolvere ogni peccato e di convertire tutto a malfunzionamento.
È questa la natura del bambino irresponsabile, la natura volgare della incoscienza, mentre noi reclamiamo la responsabilità e il dovere di trasgredire. Noi rifiutiamo l’idea che il male debba passare dallo studio dello psicologo, perché facciamo nostro il proclama di Nietzsche: <<Noi siamo diventati più severi, più duri, più impazienti verso tale psicologia volgare, che oltretutto credeva persino di essere ‘idealistica’; noi siamo cinici, perfino contro questa bugiarderia e romanticismo del ‘bel sentimento’>> (Frammenti postumi, Primavera 1888-15, Mondadori, Milano 1977, 15 [14], p. 354). Pretendiamo di pagare le conseguenze dei nostri atti senza scappatoie confessionali o interpretazioni psicodinamiche, perché crediamo nella dignità di una trasgressione rivendicata, perché, sempre per dirla con Nietzsche, <<esigiamo la volontà di essere responsabili di noi stessi>>.