Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Per Leopardi la vita è Nulla perché gli sfugge quale ne sia il vero fine

Per Leopardi la vita è Nulla perché gli sfugge quale ne sia il vero fine

di Francesco Lamendola - 29/06/2014


 

Davvero Leopardi è stato, oltre che un grandissimo poeta, un grande filosofo, o anche, semplicemente, un filosofo?

Dato lo stretto legame esistente tra la sua concezione del mondo e la sua poetica, la questione è di somma importanza; facilmente il lettore delle sue poesie, infatti, o anche delle «Operette morali», è portato a pensare che il suo tragico pessimismo sia “giustificato” sul piano speculativo, in virtù della suggestione che emana dall’arte dello scrittore, senza però soffermarsi a valutare se tale inferenza sia pienamente giustificata.

Consapevoli del fatto che tale questione è stata più volte dibattuta, anche recentemente, da insigni studiosi e da specialisti che hanno sviscerato la vasta produzione leopardiana dal primo all’ultimo foglio, compreso l’epistolario e le sterminate annotazioni dello «Zibaldone», e quindi senza alcuna pretesa di aver fatto chissà quale scoperta e senza la presunzione di aver capito ogni cosa nel breve spazio di una riflessione come questa, crediamo nondimeno che valga la pena di riprendere in mano il problema, se non altro per sgombrare il campo da possibili fraintendimenti su tale questione, che sono, invece - a nostro avviso - assai diffusi.

Per Leopardi, la vita umana, e non solo essa, ma tutto ciò che esiste, cade sotto l’impero del Nulla: l’intera sua opera letteraria, in prosa e in versi, incomincia e finisce sotto questa certezza, presentata, per lo più, come auto-evidente, o, al massimo, accompagnata da alcune riflessioni che, senza scendere molto in profondità, valgono più che altro a convalidare quanto espresso a livello poetico, a fornire un supporto filosofico al nichilismo che pervade la sua poesia.

Ma cos’è questo Nulla, si chiede Giuseppe Zonta, che, per Leopardi, è l’alfa e l’omega della vita umana, della condizione umana, anzi, della condizione universale? Prima di affermare che tutto è Nulla, che tutto è destinato al Nulla e che solo nel Nulla trova conclusione il patire di tutte le creature, bisognerebbe anzitutto definire che cosa, esattamente, esso sia.

Ma Leopardi non lo definisce mai con precisione; al contrario, egli ondeggia fra la concezione del Nulla come totale negatività dell’essere e quella del Nulla come non-essere; e da questa ambiguità derivano serie conseguenze, sì che Leopardi è portato a trarre conclusioni radicalmente pessimistiche, molto più grandi, sul piano logico, delle premesse.

Scrive, dunque, Giuseppe Zonta  nella sua pregevole monografia - oggi purtroppo pressoché dimenticata, come del resto il suo autore - «L’anima dell’Ottocento» (Torino, Paravia, 1924, pp. 107-108):

 

«Cos’è questo Nulla, che il Leopardi così decisamente afferma costituire l’essenza della vita e dell’uomo? Non è certamente un valore inesistente, perché allora la mente non lo potrebbe né concepire, né avvertire.

Deve quindi essere un valore negativo, rispetto ad un altro positivo, come appunto la mancanza di luce chiamiamo “il buio”, il contrario dell’amore “l’odio”, e via dicendo. E appunto per Giacomo Leopardi il NULLA non è altro che il valore opposto a quello della felicità. Esso aderisce all’estremo limite di questa, ma si dispone in senso contrario, come il convesso rispetto al concavo, in maniera da rappresentare un’attività negativa; è una forma di ESSERE NON FELICE in confronto a una forma di ESSERE FELICE. L’uomo – ragiona il Leopardi – è di sua natura spinto verso il piacere, che consiste nell’appagamento dei desiderî, che egli si foggia nell’accesa fantasia. Ma non può giammai soddisfare al suo sogno, perché è impedito di creare un mondo a sua posta dalla Realtà,, tiranna rigida e impassibile, che si oppone ostinatamente di contro alla illusione. Ne avviene perciò lo stesso fenomeno che si verifica quando venga frapposto a una fonte luminosa uno schermo. Dietro di questo viene a formarsi un cono d’ombra, che è sì una proiezione della luce, ma che non partecipa della sua essenza e natura; e che di essa mantiene soltanto i contorno, i quali maggiormente servono a dimostrare – per contrasto – la mancanza appunto di luce. E come il cono d’ombra è l’effetto di un contrasto tra le vibrazioni luminose e un mezzo rigido, che loro impedisce di propagarsi, così il Nulla leopardiano è il prodotto della stasi, in cui lo spirito viene a piombare, in seguito al risultato di un cozzo tra due forze eguali e contrarie, che sono l’IDEALE e il REALE. Come lo scontro di due masse eguali e contrarie, ha come effetto la quiete (cioè il nulla, rispetto al moto), così il continuo urto tra i prodotti dell’Io e la resistenza delle cose produce nella vita un risultato immobile e negativo, privo di piacere, che è il NULLA, rispetto al fine dell’animo, che è la felicità.

Perciò il punto d’’incidenza, dove le due forze concorrenti si toccano, è l’unico che si percepisca dagli uomini come realmente esistente, perché in esso aderiscono insieme – siano pure incerti – tanto il reale che l’ideale. E la conseguente constatazione della quiete, che subentra all’urto, è il più angoscioso momento della vita, come quello che rappresenta la verifica, che fa l’animo, della continua e fatale persistenza del Nulla. Questo punto di incidenza e questa immobilità spirituale si chiama la NOIA: “Solo la noia, la quale nasce sempre dalla vanità delle cose, non è mai vanità, non inganno; mai non è fondata in sul falso. E si può dire che, essendo tutto l’altro vano, alla noia riducasi e in lei consista quanto la vita degli uomini ha di sostanzievole e di reale”. Poi che dunque la noia è la constatazione del Nulla, cioè della inerzia, che segue al cozzo tra l’ideale e il reale, e siccome questo avviene di continuo ed è la vicenda costante della umana esistenza, ne deriva come fatale necessità che la Noia pervada e soggioghi la vita degli uomini, generando un assiduo fastidio, “un tedio così veemente, che si assomiglia a dolore e spasimo, un certo non solamente conoscere, ma vedere, gustare, toccare la vanità di ogni cosa che ci occorra; di maniera che non solo l’intelletto nostro, ma tutti i sentimenti ancora del corpo, sono (per un modo di dire strano, ma accomodato al caso) pieni di questa vanità”.

Eppure tutti gli uomini credono che la FELICITÀ sia la loro méta e che essi siano stati creati soltanto per la felicità; e corrono verso di essa colle braccia tese, magri per la febbre dei lunghi sogni, e non vedono che tutto è vano e nulla, CHE LA FELICITÀ NON ESISTE, non è esistita e non esisterà mai; e che la vita non è che OZIO, rispetto alla felicità, perché ad onta di ogni sforzo, non riusciranno mai a conquistarla:
“Le notti e i giorni

Tragge in ozio il nocchiero; ozio il perenne

Sudar delle officine, ozio le vegghie

Son de’ guerrieri e il perigliar nell’armi,

e il mercatante avaro in ozio vive:

ché non a sé, non ad altrui, la bella

felicità, cui solo agogna e crea

la natura mortale, veruno acquista

per cura o per sudor, vegghia o periglio”.

Dopo la investigazione di se stesso, degli uomini e delle cose, l’anima di Giacomo Leopardi si erge nuda e sdegnosa, come farinata, sopra il deserto che essa stessa si è formato d’attorno.»

 

La premessa di tutto il ragionamento leopardiano, dunque, è che la vita umana sia indirizzata verso la felicità; che ad essa tendano tutte le forze dell’uomo; che essa ne sia la mèta e lo scopo supremo. Se cade la premessa, cade tutto il ragionamento.

Dunque, vediamo: Leopardi si prende la briga di dimostrare, o almeno di argomentare in profondità, che la ricerca del piacere, e – si badi – non di un piacere qualunque, ma di un piacere INFINITO, sia la molla fondamentale dell’agire umano, nonché il senso dell’umana esistenza? Sono due affermazioni distinte, anche se egli tende a presentarle come una sola: 1) che il piacere sia ciò cui tendono tutti gli esseri umani; 2) che dall’esito di tale ricerca dipenda il significato della vita e, quindi, il giudizio di valore che si può dare su di essa.

In realtà, Leopardi riprende questa formula, pari pari, dal sensismo francese e dalle correnti materialiste dell’Illuminismo: e ne deduce che, essendo l’essere umano dotato di sensi finiti, mai e poi mai potrà soddisfare la sua brama di piacere infinito; il che, necessariamente, ha come esito il suo stato perenne, inevitabile, irrimediabile, di infelicità. Da questa formuletta, chiamiamola così senza voler mancare di rispetto al grande recanatese, egli deduce tutte le più pessimistiche conseguenze sul piano sia esistenziale, che estetico: che non esiste alcun piacere positivo, ma solo l’attesa di un piacere futuro o il ricordo di un bene passato, oppure, ancora, la sospensione temporanea della noia e del dolore – eterni e inseparabili compagni della condizione umana – vissuta come un sollievo e quindi, illusoriamente, come uno stato di benessere che viene scambiato per qualcosa di simile alla felicità. L’altissima poesia di liriche come «Il sabato del villaggio» e «La quiete dopo la tempesta» è la viva e commossa espressione di tali conclusioni.

Dunque, proviamo a vedere. La prima affermazione opinabile, nel ragionamento di Leopardi, è che il piacere corrisponda, automaticamente, al concetto di felicità; per cui, fallito l’obiettivo del piacere, deve ritenersi fallito anche quello della felicità. In realtà, il piacere è l’effetto di un benessere corporeo, dunque di origine fisica, che si estende e si propaga alla sfera spirituale, comunque si voglia intendere quest’ultima, in senso immanente o in senso trascendente. La felicità, invece, è una condizione di perfetta letizia interiore, che prescinde, o perlomeno può prescindere, dalle condizioni fisiche, dunque anche dal benessere corporeo: di fatto, abbiamo esempi di grandi personalità, di santi, di mistici, di ricercatori spirituali, che hanno raggiunto la felicità pur trovandosi in condizioni fisiche precarie, tribolate, addirittura dolorose. Non è vero, dunque, che, per essere felici, bisogna toccare il vertice del piacere; semmai è vero il contrario: che la felicità, stato interiore, conferisce il piacere, un piacere totale, che è contemporaneamente fisico e spirituale. Lo sanno gli amanti, i quali, nel momento dell’estasi, toccano uno stato di rapimento che si può definire “felice”, e nel quale ogni eventuale inconveniente fisico, miracolosamente, scompare – almeno finché dura lo stato di perfetta fusione dell’uno con l’altra.

La seconda affermazione opinabile è che tutti gli uomini tendano a un piacere infinito. È strano che proprio Leopardi, il teorico della poetica del “vago” e dell’”indefinito”, abbia confuso così grossolanamente il concetto di “infinito” con quello di “indefinito”. L’uomo, certamente, aspira alla felicità – il che non significa, come abbiamo visto, al piacere sensibile; che questa felicità se la immagini come infinita, è tutto da vedere: piuttosto, vi è motivo di pensare che se la raffiguri come indefinita: qualcosa di vago, di indescrivibilmente bello, di inesprimibile. Il bambino che attende un misterioso regalo natalizio non se lo figura come infinito, ma come indefinito: non sa cosa sarà, ma gode immensamente dell’attesa, e gode tanto di più, quanto più non ha un’idea precisa di che cosa sarà. Un piacere indefinito, o l’attesa di un piacere indefinito, può corrispondere a uno stato di felicità completo, se per “completo” si intende che non se ne potrebbe immaginare uno più grande. Chiediamolo a quel bambino, che aspetta con il cuore che batte all’impazzata la rivelazione del regalo a lui destinato: egli è felice, e la sua felicità è qualcosa di reale, di positivo. Non vale definirla come semplice “illusione”: anche qui, Leopardi non ha chiarito a sufficienza il concetto di illusione. Meglio di lui lo aveva compreso Foscolo, per il quale le nobili illusioni dell’uomo non sono fantasmi, non sono amari inganni, ma qualcosa di vivo, di reale, che è suscettibile di conferire un alto significato alla vita umana.

La terza affermazione opinabile è che nella ricerca del piacere consista il fine dell’esistenza e che dal suo mancato raggiungimento nascano la noia e il dolore come risultato inevitabile: condizione che egli definisce come infelicità e come Nulla. Ma egli non ha dimostrato che fine e scopo siano la stessa cosa, lo ha solamente posto: di fatto, noi possiamo tendere a un certo fine, senza che quel fine sia lo scopo ultimo del nostro agire. Lo scopo è la cosa in vista di cui si agisce; il fine, è il senso di quella ricerca. Il senso di una ricerca potrebbe anche essere la ricerca stessa e non il raggiungimento di uno scopo. Lo scopo è sempre limitato, il fine è tendenzialmente illimitato, perché non si esaurisce mai completamente. E la sua mancata realizzazione integrale, ben lungi da rappresentare un marchio d’imperfezione, è, al contrario, il segno di una dimensione ulteriore, una dimensione assoluta, che non si appaga, né mai potrebbe appagarsi, nella dimensione del contingente e del relativo. In ciò, quindi, si può scorgere l’indizio - e, in un certo senso, ricevere la caparra – del fatto che noi siano destinati alla dimensione dell’assoluto, fuori da quella, necessariamente imperfetta e talvolta dolorosa, del relativo.

Quanto al Nulla, non è corretto porlo come il contrario della felicità: questo non è fare filosofia, ma del sentimentalismo, per quanto rispettabilissimo nella sua sfera di competenza, vale a dire la poesia. In un ragionamento filosofico, il Nulla non è il contrario della felicità, né potrebbe mai esserlo, per il semplice fatto che la felicità non è il Tutto, ma uno stato dell’animo; non una cosa, e nemmeno una non-cosa, ma un modo dell’essere. I modi dell’essere non sono cose, non sono oggetti: sono, appunto, modi, stati o condizioni esistenziali; non hanno a che fare con l’essere in sé, ma con le manifestazioni dell’essere. Dunque il Nulla non è uno stato dell’essere; e, se lo si assume come tale, si opera una falsificazione concettuale. Ogni cosa ha il suo nome e ogni sana filosofia cerca di definire con chiarezza ed esattezza i suoi oggetti, proprio per evitar di cadere in equivoci e fraintendimenti.

Il Nulla è il non-essere: che lo si scriva con la maiuscola o con la minuscola. Del Nulla non si può nemmeno parlare; non ha a che fare con la vita umana, né con alcuna forma di esperienza sensibile, ma solo e unicamente con l’universo concettuale: è un’astrazione logico-matematica. Se vogliamo chiamare Nulla uno stato di noia e di dolore, radicalmente contrapposto alla felicità, facciamolo pure, ma consapevoli che stiamo adoperando il linguaggio in maniera impropria: lo stiamo forzando, stiamo abusando delle parole.

E chi ha detto, poi, che il Nulla è la rivelazione dell’”arido vero”, ossia del fatto che tutto è vano, tutto è brutto, tutto è male? Leopardi lo pone come dimostrato, ma non lo argomenta. Che ogni cosa esista per il male, come afferma in un famoso passo dello «Zibaldone», e che la sola cosa buona sia il non-essere, questo andrebbe discusso, se non dimostrato: altrimenti, non è che una dichiarazione di principio, tanto soggettiva quanto opinabile. Come si può affermare che l’unico bene è il non-essere (e, in subordine, il morire, come liberazione dal male radicale dell’esistere), quando il non-essere è, per definizione, ciò che non solo non esiste, ma che non si può nemmeno propriamente definire, che non si può neppure pensare, dato che qualunque pensiero è una modalità dell’essere e che nulla che non sia l’essere è capace di porsi simili interrogativi?

Per dire che il non-essere è meglio dell’essere, bisognerebbe aver dimostrato che il non-essere sia qualcosa, insomma che sia: invece il non essere, per definizione, non è: dunque, sfugge a qualsiasi discorso. E così il Nulla, propriamente parlando.

Ma forse, dopotutto, Leopardi ha trascurato il fatto che la vita umana, e non essa soltanto, può avere un senso, indipendentemente dal raggiungimento della felicità, intesa alla maniera del sensismo e del materialismo; che il fine cui siano chiamati a collaborare ci trascende, e risiede in un principio più alto che non sia il nostro piacere; che la promessa di felicità, cui siamo stati fatti partecipi, non deve ritenersi un inganno solo per il fatto non si realizza nella dimensione del contingente e del relativo, perché tale dimensione non è la dimensione ultima dell’essere, ma, al contrario, solo la prima e la più bassa, appunto perché, per sua natura, elusiva e ingannevole.