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Rileggere Dante per comprendere la modernità

di Nicola Berti - 29/06/2014

Fonte: L'intellettuale dissidente


Il nuovo Veltro, l’istituzione statale, langue ed è completamente sottomesso alla nuova Lupa, ciò è alle forze adespote della Tecnica e della Finanza.

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In quel Medioevo che si sta colorando dei colori dell’autunno (Huizinga) e in cui già sono presenti tutti i semi della modernità, Dante è capace, con tutti i limiti di un pensiero profondamente immerso nel contesto medievale, di una riflessione universale sul rapporto fra potere politico ed economia capitalistica, attraverso le enigmatiche figure del Veltro e della Lupa illustrate nella Divina Commedia. Non interessa in questa sede intervenire nel complesso dibattito che da secoli anima la filologia dantesca circa l’identificazione delle due figure, bensì trarre da esse una riflessione sul nostro tempo. 

Già nel canto I s’impone la terribile figura della Lupa, allegoria dell’avarizia, il peccato personale (“non lascia altrui passar per la sua via”) e sociale (“molte genti fé già viver grame”) secondo Dante più radicato e temibile, prima causa della rovina dell’humana civitas. La denuncia dell’avarizia percorre il sottosuolo dell’intero poema, riaffiorando con forza nei canti a maggior caratterizzazione politica (come il VI), a dimostrazione della sua preminente rilevanza civile. Nel canto XVI la radice dell’avarizia viene storicamente collegata alla “gente nova” e ai  “subiti guadagni”, cioè alla nuova classe mercantile arricchitasi velocemente grazie al commercio e all’usura, che “orgoglio e dismisura han generata”; quella medesima dismisura, quel “cattivo infinito”(Hegel) che riecheggia nell’efficace rappresentazione della Lupa come colei “che mai non empie la bramosa voglia, / e dopo ‘l pasto ha più fame che pria” (I, 98-99). Dante profetizza (e auspica) che il dilagante dominio della Lupa troverà un antagonista nell’oracolare figura del Veltro, il quale, non desideroso di dominio di terre né possesso di denaro (non ciberà terra né peltro) ma di “sapienza, amore e virtute”, “la farà morir con doglia” e la “caccerà per ogni villa, / fin che l’ avrà rimessa ne lo ‘nferno”(I, 103-110)

Il Veltro appare come il katéchon della teologia politica, cioè il “potere che frena” le forze dell’anomia, della tracotanza e della dismisura (si ricordi che tanto il Veltro che il katéchon sono stati storicamente affiancati all’istituzione imperiale); anzi, il ruolo del Veltro non sembra solo quello di arginare la Lupa, ma di cacciarla: esso rappresenterebbe pertanto non solo una forma di potere regolativa e “contenitrice” (ministerium), bensì “direttiva”ed eticamente connotata (potremmo definirlo magisterium), cioè autenticamente politica. A distanza di sette secoli la cinomachia descritta dal Sommo Poeta vede tuttavia la Lupa come trionfante. Viviamo oggi il dominio assoluto dell’avarizia, della gente nova e dei subiti guadagni. Il nuovo Veltro, l’istituzione statale, langue ed è completamente sottomesso alla nuova Lupa, ciò è alle forze adespote della Tecnica e della Finanza.  La lezione dantesca ci insegna che lo Stato, se vuole recuperare il suo ruolo “catecontico”, deve necessariamente ritornare alla sua essenza politica e al dominio del fenomeno economico; solo così“di quell’umile Italia fia salute”(I, 107).