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Assolutismo e diritto divino dei re nel pensiero filosofico di Robert Filmer

di Francesco Lamendola - 07/07/2014

Fonte: Arianna editrice


 



Quello di Sir Robert Filmer (1588-1653) è il classico caso di un pensatore così politicamente scorretto da aver subito una vera e propria “damnatio memoriae”, al punto di non essersi mai ripreso da essa e da non essere mai più stato “sdoganato” da qualche solitario studioso in vena di ripensamenti, se non proprio di riabilitazioni tardive. Gli è toccato in sorte, dunque, un destino peggiore di quello del pur bistrattato De Maistre, il cui nome è quasi impronunciabile nei salotti buoni della cultura progressista di matrice liberal-democratica (per non parlare di quelli neo-marxisti, tuttora assai più influenti di quel che non si creda e tanto più esiziali, in quanto non “pentiti”, anche laddove hanno cambiato casacca, né coscienti delle ragioni del loro fallimento storico): perché di De Maistre, comunque, ogni tanto si sente parlare, anche se, il più delle volte, per biasimarlo come tipico esponente del pensiero cattolico “reazionario”; mentre Filmer si direbbe proprio precipitato nell’oblio e pochissimi, ormai, si prendono anche solo la briga di confutarlo o di additarlo alla pubblica esecrazione.

Inutile cercare il suo nome sui testi di storia della filosofia ad uso scolastico; inutile cercarlo anche sulla diffusissima «Enciclopedia di Filosofia» della Garzanti; ma nemmeno nella sua patria, l’Inghilterra, ha ricevuto un trattamento molto migliore: basti dire che sulla «Enciclopedia Britannica» gli è stato riservato un trafiletto di poche righe, una “voce” talmente striminzita e sbrigativa che la possiamo riportare in brevissimo spazio. Nato ad East Sutton, nel Kent (ma senza indicazione della data di nascita), l’estensore della “voce” ci informa che è stato uno scrittore inglese, campione del “diritto divino” dei re; che fu educato presso il Trinity College di Cambridge; che fu un ardente sostenitore del partito monarchico e che la sua casa si dice abbia subito dieci saccheggi consecutivi durante la guerra civile fra il re, Carlo I Stuart, e il Parlamento. Filmer sostiene che Dio trasmise ad Adamo piena autorità sul creato, una autorità che fu trasmessa a Noè e, in seguito, ai suoi tre figli; e che i Patriarchi, i re e i governanti che si avvicendarono da allora fino al presente hanno ereditato il potere assoluto, fondato sul diritto divino. Il re, pertanto, gode di una libertà totale, svincolata da ogni controllo umano. Infine la «Britannica» precisa che queste idee furono sviluppate da Filmer in una serie di lavori, il più completo dei quali, intitolato «Patriarcha», venne pubblicato postumo soltanto nel 1680; e che passarono altri due secoli prima che venisse ripubblicato, nel 1883, dalla Morley’s Universal Library.

Si tratta di una sintesi sostanzialmente esatta, ma alquanto avara, del pensiero politico di Robert Filmer; l’antipatia, o la scarsa considerazione dell’estensore della “voce”, nei suoi confronti, è piuttosto palese. Filmer, insomma, fa ancora scandalo, anche se non c’è più un Cromwell pronto a tagliare la testa a chi sia favorevole alla monarchia assoluta, né un Guglielmo d’Orange che lo punisca con il carcere o l’esilio: tutta la cultura britannica, dalla Glorious Revolution in poi, non è che una costante, ininterrotta apologia del sistema monarchico parlamentare e, più specificamente, di quello realizzato in Inghilterra dopo la fuga di Giacomo II nel 1688.

Il trattato più importante di Filmer è preceduto da una citazione di Lucano, «Libertas .... populi, quem regna coercent  / libertate perit ...» e da una di Claudiano, esponente della rinascita pagana che ebbe luogo fra il IV e il V secolo: «Fallitur egregio quisquis sub principe credit / servitium; nunquam libertas gratior extat quam sub Rege pio ...», il cui intento è di esaltare l’eccellenza dell’istituto monarchico e di mostrare che, quando il popolo osa levarsi contro di esso, il senso del bene comune viene irrimediabilmente smarrito a causa del dilagare dei privati egoismi e, di conseguenza, lo Stato perisce miseramente.

Di fatto, il “metodo” preferito da Filmer per corroborare le proprie convinzioni circa l’origine divina del potere monarchico assoluto  consiste in un puntuale ricorso sia alla Bibbia, sia alla storia antica di Grecia e di Roma, che egli conosce bene e che interpreta nel senso di una diretta continuità fra i patriarchi e i re d’Israele, i sovrani greci e romani dell’epoca arcaica, e i re delle epoche successive, fino all’Inghilterra di Carlo I, il re (dal quale egli era stato creato baronetto)  che, sconfitto dal Parlamento nella guerra civile, venne processato e decapitato il 30 gennaio 1649: processo illegale, secondo Filmer - e secondo lo stesso sovrano, che, come risulta dai verbali del processo, si rifiutò di risponde alle domande dei giudici – perché il re non è responsabile davanti ai suoi sudditi, qualunque potere deriva da lui, mentre egli non è soggetto ad alcuno.

Non è, quello del filosofo inglese, un modo di procedere arbitrario, ma, al contrario, piuttosto diffuso all’epoca, allorché la tradizione rappresentava un valore in se stessa, e la Bibbia costituiva il compendio di tutti i valori - tanto è vero che essa verrà ancora considerata la base del sapere non solo in campo teologico e morale, ma anche scientifico, almeno fino ai tempi di Darwin, cioè fin verso la metà del XIX secolo. L’autorità degli storici greci, come Erodoto e Tucidide, e latini, come Tito Livio e Tacito, veniva subito dopo ed era considerata, anche negli ambienti colti e nell’ambito universitario, come la più considerevole cui si potesse fare ricorso, per dimostrare la validità di un istituto politico - Sacre Scritture a parte.

Il nostro lettore può farsi un’idea della prosa di Robert Filmer da questo breve passo, tratto dal terzo capitolo del trattato «Patriarcha» (cit. in: Giulia Lorenzoni-Beatrice Pellati, «Past & Present», Novara, De Agostini Scuola, 2013, p. 166; ma il lettore interessato può andare a leggersi l’opera in lingua originale sul sito Internet: http://www.constitution.org/eng/patriarcha.htm):

 

«The people of Athens, as soon as they gave over kings, were forced to give power to Draco first, then to Solon, to make them laws not to bride kings but themselves; and though many of their laws were very severe and bloody, […] Solon, but an absolute jurisdiction, at his pleasure  to abrogate and confirm what he thought fit, the people never challenging any such power to themselves. So the people of Rome gave to the ten men, who were to choose and correct their laws fort the Twelwe Tables, an absolute power without any appeal to the people.»

 

Gli Ateniesi, dunque (per non parlare degli Spartani) passarono dall’autorità dei re a quella di Dracone, poi di Solone, i quali ultimi stabilirono delle leggi severe e perfino sanguinarie, alle quali mai il popolo si ribellò e che esso non osò mai sfidare, restando a quei legislatori piena e assoluta libertà di modificare o confermare il proprio operato. Non solo gli Ateniesi non contestarono mai le leggi, ma non misero mai in dubbio l’autorità di coloro che le avevano promulgate, tanto era universale il riconoscimento del loro potere e il dovere dell’obbedienza incondizionata che il popolo aveva nei loro confronti.

Similmente accadde con il popolo romano nei riguardi dei dieci legislatori che redassero le Dodici Tavole: si trattava di una autorità assoluta, che il popolo riconosceva come tale e contro la quale non avrebbe mai neppure concepito di poter fare ricorso. L’idea che la sovranità risieda nel popolo era tanto lontana da quei popoli antichi, quanto lo sarebbe stata l’idea che gli uomini abbiano la facoltà di porre limiti o addirittura di sfidare le prerogative della divinità: si trattava di qualcosa di inconcepibile; e, del resto, la solidità e la durata del sistema politico ateniese, e soprattutto di quello romano, dimostrano che la totale obbedienza all’autorità sovrana non mina per niente, ma anzi rafforza la robustezza delle strutture sociali e la coesione dello Stato.

Ma dopo la restaurazione degli Stuart, è venuta la Gloriosa Rivoluzione; e, con essa, si è verificata una egemonia culturale del liberalismo che, in Inghilterra – e, poi, anche fuori di essa, fino ad abbracciare il mondo intero – ha reso impresentabili le idee politiche favorevoli all’assolutismo, che avevano avuto in Thomas Hobbes il loro ultimo, strenuo difensore. John Locke, in particolare, che nella cultura anglosassone è considerato poco meno che una sorta di infallibile e indiscutibile divinità filosofica, prese il «Patriarcha» di Robert Filmer come la classica testa di turco contro la quale esercitare la sferza della sua critica, nei «Trattati del governo» (un po’ come Galilei prese la «Libra» di Orazio Grassi come testa di turco sulla quale scagliare le folgori del suo «Saggiatore»). Sicché il povero Filmer, ancora oggi, viene ricordato quasi solo – ironia del destino – da quanti riportano la critica che ne ha fatto, con mano pesante, John Locke, il filosofo della parte uscita vittoriosa dalla rivoluzione parlamentare anti-assolutista; il che ricorda l’amaro destino postumo di Lamarck, la cui teoria evoluzionista viene soprattutto ricordata, nei testi scolastici, per metterla sfavorevolmente a confronto con quella di Darwin (come se quest’ultima fosse una verità definitiva e ed una acquisizione indiscutibile nel campo delle scienze biologiche).

Di fatto, l’idea che il potere dei re provenisse da una diretta investitura divina e che il loro corpo, il loro sangue, fossero sacri, era riconosciuta non soltanto dalla tarda antichità e dal Medioevo, ma anche dal Rinascimento, il quale, pur così critico riguardo a tanti aspetti della cultura medievale, non aveva trovato in ciò assolutamente nulla di scandaloso; e neppure la cultura dei Comuni italiani l’aveva, in generale, contestata, dato che, anzi, Dante aveva visto nel potere imperiale una fonte di autorità proveniente direttamente dal Cielo e, dunque, assolutamente legittima, nonostante i suoi frequenti contrasti con il potere, del pari ritenuto divino, della Chiesa. Solo Marsilio da Padova, caso isolato, aveva visto la fonte dell’autorità imperiale nella volontà dei cittadini, da lui considerata come superiore ad ogni altra: per lui, infatti, il fine che lo Stato deve realizzare è immanente e puramente umano, non ha nulla di soprannaturale.

Più tardi, dapprima sotto forma della cultura dei diritti “naturali” – di cui Locke è il massimo campione, ma al quale il terreno era stato preparato dal moderno giusnaturalismo di Grozio, Althusius e Pufendorf -, poi, con l’Illuminismo e con Rousseau, in forma sempre più assertiva ed esplicita, si fa strada e s’impone il concetto della sovranità popolare: concetto che è passato attraverso il banco di prova del costituzionalismo inglese e ne è uscito “promosso”, visto che, nel mondo della politica, almeno da Machiavelli in poi, il successo si giudica in base al risultato e senza guardare troppo per il sottile quanto ai mezzi impiegati per conseguirlo (siano anche la peggiore sciagura che possa darsi nella vita di una nazione, ossia la guerra civile).

Hobbes è stato altrettanto categorico di Filmer, oltre che assai più fortunato, nello svolgere una teoria coerente e compatta sulle ragioni della monarchia assoluta, ma con una distonia non secondaria: l’affermazione della necessità di uno Stato laico. Ora, uno Stato laico è, per forza di cose, uno Stato in cui il principio di autorità non può, né deve risiedere sopra una base religiosa, quale che essa sia: pertanto, viene colpita al cuore, e sia pure indirettamente e come esigenza secondaria di questa concezione politica, l’idea della monarchia per diritto divino. Hobbes, da parte sua, ha un bell’affannarsi a sostenere che la forma di governo migliore che possa darsi, è la monarchia assoluta: in pratica, la monarchia assoluta non può essere tale se non in forza del principio della sua investitura divina: si tolga quello, e non resterà altro che il puro e semplice esercizio della forza. A quel punto, però, è inevitabile che ci si domandi quale bisogno vi sia di una monarchia assoluta, quando è sufficiente una qualsiasi forma di governo capace di esercitare il suo potere in maniera assoluta, cioè senza concedere ai sudditi il benché minimo diritto di controllo o di critica. E, di fatto, una simile forma di governo si è più volte realizzata, nella storia contemporanea – dalla Germania nazista all’Unione Sovietica staliniana -, ben al di fuori della forma istituzionale della monarchia assoluta.

Filmer, ad ogni modo, se pure procede a colpi di Bibbia e di storia greca e romana, non è sprovvisto di una sua giustificazione etica della monarchia assoluta: senza di essa, gli uomini sarebbero incapaci di vivere ordinatamente gli uni con gli altri. È la stessa idea di Hobbes, quella che vede l’uomo come un essere naturalmente aggressivo e minaccioso verso i propri simili («homo homini lupus»), e, dunque, bisognoso di sottostare ad un ferreo potere statale che lo disciplini e che, se necessario, lo intimorisca. Resta il fatto che nessun potere statale può esercitare il più radicale assolutismo, se non è in grado di mostrare che la sua esistenza è giusta e necessaria alla conservazione della società. Dante vede l’Impero come la fonte della giustizia e della pace in terra, affinché la Chiesa possa dedicarsi al compito più importante, la salute delle anime; Hobbes vede lo Stato Leviatano, lo Stato-mostro che ingloba le volontà individuali, le disciplina, le organizza e si coagula attorno al monarca, come il migliore antidoto contro l’originaria e distruttiva aggressività umana.

Solo Filmer, però, con la sua concezione politica apparentemente più rozza e semplicistica, e soprattutto meno “moderna” di quella di Hobbes (perché antitetica all’idea, tutta moderna, della laicità dello Stato), appare in grado di giustificare sino in fondo tale concezione: poiché solo un potere dinastico che venga direttamente da Dio possiede la garanzia sufficiente per presentarsi agli uomini non come una forza arbitraria, ma come parte di un progetto sapiente voluto direttamente dal Cielo per il benessere, la sicurezza e la pace degli esseri umani.

Per il sovrano, del resto, il fatto che il suo potere venga da Dio rappresenta non solo una cambiale in bianco da riscuotere a spese dei suoi sudditi, abbandonandosi a ogni sorta di tirannico abuso, quanto anche un freno, un deterrente verso la tentazione degli eccessi, una responsabilità di cui egli sarà chiamato a rendere conto. Dio, infatti, gli ha trasmesso il potere non certo perché egli opprima il suo popolo con tasse esorbitanti, leggi inique e conflitti senza fine, ma perché lo guidi, come un buon pastore, verso uno stato di maggior sicurezza e benessere, in cui ciascuno possa lavorare in pace e godere dei frutti della propria fatica.

Se i moderni totalitarismi avessero conservato questa duplice concezione del potere assoluto, come radicale libertà rispetto alle volontà individuali, ma anche come suprema responsabilità al cospetto di Dio, certo non si sarebbero verificati gli orrori di un potere sciolto da ogni limite, da ogni trascendenza, da ogni coscienza di dover render conto del proprio operato ad una istanza superiore a se stesso.