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Vittoria una storia nera degli anni 70…

di Mario Grossi - 07/07/2014


Ogni epoca, ogni guerra, ogni rivoluzione ha i suoi memorialisti, i racconti dei reduci, le storie individuali che esprimono un modo d’essere o d’essere stati. E’ un genere che non mi ha mai entusiasmato molto. La scrittura dei suoi autori è quasi sempre standardizzata, piatta, noiosa, oppure esagerata ed enfatica, senza stile. Oscilla tra una monotona descrizione dei fatti senza sentimento, orbata oltretutto dal taglio personalistico che gli viene dato, e una sconsiderata esaltazione solipsista drogata e anfetaminica che rende i ritmi, gli accadimenti quasi sempre accelerati, direi comicamente accelerati, mozza fiato, incalzanti, fuori misura, parodistici. E’ per questo motivo che, quando l’amico libraio mi ha consigliato di leggere Vittoria di Annalisa Terranova (Giubilei Regnani Editore, 2014, euro 13,60) la mia spocchia di lettore guardingo mi ha messo subito sul chi va là.

Il titolo e le brevi note di copertina sembravano dare ragione alla mia perplessità. La storia di un’adolescente alle prese con gli anni settanta e i suoi belluini rigurgiti di violenza, oltretutto vissuti tutti dalla parte “sbagliata”, mi facevano pensare ad una melensa carrellata di già visto, già detto, già letto. Mai giudizio così superficialmente espresso fu così prepotentemente rovesciato dalla lettura del romanzo. Chi si appresta alla lettura deve tener conto che si confronterà con un vortice calmo, lento, riflessivo, ben più profondo di quegli anni settanta che pure sono il contenitore di tutta la narrazione. È un susseguirsi di schegge, i capitoli, che in forma compiuta, eppure magistralmente connessi, danno uno spessore a questa storia, per certi aspetti esteriormente ordinaria, che la dilata ben aldilà del racconto intimista e che ne fa una parabola che fu di molti e può essere quindi ben rappresentativa di una generazione che in parte si perse, in parte fu travolta da quelle esperienze da cui non riuscì più a liberarsi come da un liquido vischioso che ne rattrappì le membra e spesso anche la mente.

Il primo terzo del racconto è una calda incubatrice alla tragedia che incombe e che di lì a poco accelererà verso le dilanianti esperienze di morte che sono ricordate sul finire del romanzo. Una calda incubatrice fatta da una famiglia normale (e speciale allo stesso tempo), affettuosa, protettiva, con ruoli definiti e rassicuranti in cui, l’ancor bambina Vittoria, vive sentendosi a proprio agio. È un momento della vita in cui i riti familiari, della Befana, delle feste di Natale, dell’acquisto dell’automobile assumono agli occhi della bambina un carattere epico, epifanico, quasi fondante.

Anche la scoperta dell’appartenenza al MSI dei due genitori è vissuto con un tenero stupore, attraverso una frase di Mussolini sul pane scoperta nello studio paterno. È l’inizio di un percorso, ancora non completamente consapevole, che farà affiorare, attraverso quella normalità, una frattura con il mondo esterno che, lentamente conosciuto, le farà capire quanto quella normalità interna alla famiglia è considerata anomala e sbagliata dal mondo esterno a quel nucleo familiare. È in queste pagine che prende corpo uno stile di contrappunto che riesce a dare la misura di un sentimento. Leggendole pagine gli occhi si riescono a percepire i colori, i suoni, gli odori e quella frattura prima impercettibile, poi sempre più marcata, fino a diventare lacerante, tra ciò che sta dentro e quello che sta fuori. All’interno della casa i colori sono attenuati, fatti di sfumature, solo talvolta si percepisce l’erompere della violenza del  bianco abbacinante del sole. I suoni sono smussati, ottusi e dolcemente avvolgenti, solo talvolta rotti dalle grida dei litigi del condominio. Gli odori, a partire da quella tazza di latte con il pane raffermo consumata a colazione fino alle mitiche pastarelle domenicali, si spandono dalle pagine stampate e sono cosa reale ma mai invadente. Un dolce effluvio per i sensi declamato sottovoce, con sottile ironia bonaria (come in certe pagine del Dizionario delle cose perdute del Guccini scrittore).

Sono queste pagine che mi hanno fatto tornare alla memoria le descrizioni che i viaggiatori ottocenteschi facevano degli arem ombrosi, dei ginecei greci, di quei luoghi vissuti come una tutela, mai soffocanti ma che lentamente diventano un peso da cui è necessario liberarsi. E ancora questa frattura tra ciò che è casalingo e quello che sta fuori, mi ha ricordato alcune pagine del Gattopardo, in cui il Principe di Salina trova la sua pace radendosi la barba nel fresco riposante del bagno, mentre fuori imperversa il maglio doloroso della sferza solare e che riecheggiano anche in certe canzoni di Battiato. Il percorso di Vittoria però, in concomitanza con il suo prendere visione del mondo esterno, prende un indirizzo nuovo, anche questo vissuto con stupore. Il mondo esterno è quello che molti militanti “sbagliati” hanno vissuto sulla propria pelle: emarginazione, riprovazione sociale, ghettizzazione, disprezzo, violenza.

È una scoperta che però ha un’ambigua valenza. Questo status è percepito con la considerazione della propria diversità, in una solitudine che però è anche marchio del proprio rango, con quella lucida follia adolescenziale che, aldilà di ogni opportunismo, ti fa schierare con il fascino e la dignità della sconfitta. È così che questa separazione dal mondo, in parte anche voluta, non genera in Vittoria una solitudine cupa ma uno straniamento sottile, sorretto  da una comunione con gli altri che salda i rapporti ma che è fonte di nuova disaffezione.

Quel mondo di reietti che dovrebbe essere solidale, si scopre invece piuttosto diverso da come se lo era immaginato Vittoria. La distanza con i vecchi fascisti con il torcicollo, incapaci di comprendere le istanze giovanili, la polemica verso una classe dirigente doppiogiochista e sempre pronta a scaricare, in nome dell’ordine e dello Stato, i giovani irrequieti, l’odio montante di cui sono oggetto e che viene peraltro ricambiato (anche se non da parte di Vittoria che se ne stupisce e se ne dispiace), introducono alla parte più drammatica della narrazione che mantiene sempre dei toni lievi e intimisti. In alcuni casi venati d’umorismo. Come quando il Palla insegna alle giovinetta la tecnica migliore per attaccare manifesti o quando il coatto a scuola cerca di dispensarle le perle della sua saggezza borgatara.

Tra una manifestazione e l’altra, un comizio e il successivo, un presidio e un’occupazione questo leggerezza narrativa, che nasconde sempre però una riflessione incessante dal tono agrodolce, non viene mai meno ed è la vera cifra stilistica dell’autrice. S’infrange solo di fronte alla tragedia che conclude il romanzo: la strage di Via Acca Larenzia e il salto di qualità che ne consegue, lo smarrimento di chi poi decise di percorrere un disegno di lotta armata, di chi, attonito, si sentì così svuotato di tutto da abbandonare la tenzone. Smarrimento e angoscia che attanagliano fino allo straniamento anche Vittoria che, nell’epilogo, datato trent’anni dopo i fatti di sangue narrati, ancora è presa da una vertigine e da una stretta angosciosa alla gola che è dolore vero ma sedato, ricomposto.

È questa forza interiore e questa solidità, mutuata anche dai genitori, che le ha permesso di passare indenne attraverso quegli anni, seppur segnata da cicatrici indelebili, acquistando un equilibrio nel giudizio che mi fa dire che il nome Vittoria è il vero colpo di genio di tutto il romanzo. Nomen Omen. La protagonista è Vittoria, perché da tutta questa temperie sanguinolenta ne è uscita appunto con una vittoria. Perché non soccombere a quei tempi, agli odi che li attraversarono, la capacità di rinascere e di vivere contro ogni logica, senza mai scordare però da dove si è venuti è vincere, contro se stessi soprattutto. E Vittoria può così permettersi di testimoniare con dolcezza ed equilibrio, senza enfasi e senza presunzione, con capacità e stile nuovi.

Questo romanzo sarebbe una ottima sceneggiatura per un buon film, la cui colonna sonora è già tutta scritta e descritta dall’autrice, da Battisti a Cat Stevens. Lo dico proprio nei giorni in cui si proietta “Sangue sparso” che vorrebbe recuperare il clima di quegli anni ma che già nel titolo ha un sapore splatter, da grand guignol.

Chiudo porgendo le mie scuse all’autrice per aver inizialmente dubitato di lei. Ma si sa che la lettura è un duro braccio di ferro tra l’autore e il suo lettore. E io oggi riporto una solenne e benefica sconfitta. A vincere è Vittoria, la Nike alata.