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Finanza o economia reale?

di Francesco Carlesi - 15/07/2014

Fonte: L'intellettuale dissidente


Gli Stati Uniti in primis, seguendo l’influenza di pensatori quali Alvin Toffler, cominciarono sin dagli anni ’70 a drenare risorse verso i servizi e il mercato borsistico, trascurando l’industria. E’ da allora che il capitale finanziario transnazionale ha cominciato a divenire decisivo nelle sorti del paese, e poi del mondo. Un passaggio che, oltre a pagare ricchi dividendi a manager e banchieri, ha fatto vacillare in serie molte certezze della superpotenza.

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“La scomparsa dell’Italia industriale” è il titolo di un fortunato saggio di Luciano Gallino, risalente a più di dieci anni fa, ma più attuale che mai. Il nostro paese, infatti, continua a perdere o a ridurre fortemente la sua capacità produttiva in settori industriali nei quali era stato fra i primi al mondo. È il caso dell’informatica e della chimica. L’Italia industriale è uscita quasi completamente da mercati in continua crescita quali l’elettronica di consumo. Né è pervenuta a far raggiungere un’adeguata massa critica a industrie dove ancora possiede un grande capitale di tecnologia e di risorse umane.

Tra le maggiori cause di questo impoverimento vi è il progressivo avanzamento dell’economia finanziaria a danno di quella reale, ancora una volta descritto puntualmente da Gallino in opere come “Finanzcapitalismo” o “Il lavoro non è una merce”. Gli allarmi lanciati dal sociologo, cresciuto in una “palestra” del calibro dell’Olivetti (azienda in grado di tracciare un significativo messaggio sociale), non sono stati raccolti da una classe dirigente e imprenditoriale a dir poco sorda. Da sempre abituata al clientelismo e poco propensa al rischio e alla tutela del “bene comune”. Privatizzazioni e delocalizzazioni sono l’aspetto più evidente di queste problematiche storiche, aggravate dalla crisi. In più, sempre più paesi “occidentali” stanno da tempo abbandonando il settore industriale in favore del terziario, lasciando spazio a mercati più “competitivi”, in particolar modo asiatici.  «L’unico misuratore di valore, stabilito dall’equilibrio tra chi compra e chi vende, è il mercato finanziario. Il resto sono cavolate», arrivò ad affermare Sergio Marchionne.

Gli Stati Uniti in primis, seguendo l’influenza di pensatori quali Alvin Toffler, cominciarono sin dagli anni ’70 a drenare risorse verso i servizi e il mercato borsistico, trascurando l’industria. E’ da allora che il capitale finanziario transnazionale ha cominciato a divenire decisivo nelle sorti del paese, e poi del mondo. Un passaggio che, oltre a pagare ricchi dividendi a manager e banchieri, ha fatto vacillare in serie molte certezze della superpotenza.  E della sua valuta, moneta mondiale di riserva e di cambio. Se nel 1945 era il potere politico, economico e militare nordamericano che sosteneva l’egemonia del dollaro, dal 2009 diventa evidente il contrario: l’egemonia del dollaro sostiene un potere politico, economico e militare in crisi.

Per il nostro paese uscire dalle secche è ancor più difficile, considerando che l’euro sta progressivamente erodendo la nostra competitività in favore della Germania. Senza considerare le limitazioni e le “gabbie” imposte dall’Unione Europea, esiziali in un momento di recessione. I concetti di sovranità politica, ricerca e sinergia pubblico – privato in campo industriale dovrebbero essere i punti fermi per la ricostruzione. L’interventismo statale ha spesso disegnato strategie e impulsi fondamentali per la crescita italiana (pensiamo all’IRI), accanto all’originalità che alcuni, come l’Olivetti citata in apertura, seppe offrire al mondo del lavoro e dell’innovazione. Riscopriamoli.