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Capitalismo e famiglia: un inconciliabile binomio

di Benedetta Scotti - 22/07/2014

Fonte: L'intellettuale dissidente

 

Nella storia dell'economia moderna la famiglia è stata progressivamente svuotata della sua originaria funzione socio-economica. Da centrale unità produttrice, è divenuta mera unità consumatrice. Da generatrice di sicurezza economica a deprecabile causa di inefficienza. Da scuola di responsabilità sociale a insopportabile freno alla libera espressione dell'ego. 

Comunismo-Capitalismo (1)


Secondo l’economista americano di scuola austriaca Steven Horwitz, l’evoluzione della famiglia può essere riassunta come un movimento dal nucleo familiare propriamente inteso verso il mercato (“from the household, to the market”). Nell’era pre-capitalista essa rappresentava, in quanto prima forma di aggregazione sociale, l’unita di base non solo dal punto di vista politico ma anche economico. La produzione, primariamente agricola e artigianale nei centri urbani, era volta in primo luogo alla sussistenza e, data la la scarsità di capitale di cui ciascuna famiglia disponeva, dipendeva in modo cruciale dall’abbondanza di manodopera. Ne conseguiva che una numerosa prole fosse altamente desiderabile per la sopravvivenza economica del nucleo familiare, nonché come garanzia e assicurazione contro vecchiaia ed infermità. “Domus” e “labor” erano, quindi, indissolubilmente congiunti. 

Fu il processo di industrializzazione a generare un cambiamento epocale nell’organizzazione e nella concezione della famiglia, con la svolta incarnata dall’avvento del lavoro salariato e dalle prime migrazioni dalle campagne alle fabbriche. Avvenne così il passaggio da un sistema produttivo maggiormente caratterizzato dal senso di comunità (si pensi non solo alla centralità della famiglia, ma anche al ruolo delle corporazioni in epoca medioevale) ad un sistema caratterizzato da un maggiore individualismo dal momento che, per sopravvivere, diventava possibile vendere il proprio lavoro senza più la necessità di avere alle spalle un gruppo sociale, piccolo o grande che fosse. 

Secondo Horwitz, l’avvento del grande capitalismo, pur con le sue durezze legate all’alienante vita di fabbrica, avrebbe dunque affrancato i singoli dall’obbligo di legami propri dell’arretrata civiltà pre-industriale, segnando il passaggio da una famiglia intesa come nucleo di natura socio-economica ad “istituzione psicologica”, basata su emozionalità e romantica affettività, piuttosto che anche su ragioni pratiche. Non a caso, come nota lo storico americano e attivista LGBT D’Emilio, il movimento di liberazione omosessuale, che propone un modello multiforme in alternativa al “rigido” modello eterosessuale al grido del puramente emozionale “love is love”, non sarebbe altro che l’estrema manifestazione dello sviluppo storico del capitalismo. Sarebbe il lavoro salariato, che libera il singolo dalla necessità di stabilire un rapporto con l’altro sesso e costituire una famiglia, ad aver permesso, con il passare del tempo, a migliaia di persone di riconoscere la propria omosessualità. Insomma, secondo D’Emilio, l’identità e l’orgoglio gay potrebbe essere propriamente intesi come ennesimo prodotto della società capitalista, liberatasi dai soffocanti schemi del passato.  

Che la famiglia come agente economico (e non come nucleo passivamente consumatore) sia considerata retrò e superata lo dimostrano le pesanti critiche che illustri economisti hanno riservato all’imprenditoria familiare, storicamente presente in paesi quali Francia o Italia, giudicata inefficiente e poco competitiva date le piccole-medie dimensioni. L’economista del MIT Kindleberger arrivò a definire le imprese familiari francesi come un “peccato contro l’efficienza economica”. Molto più appropriato, in questo senso, il modello delle corporations, enti anonimi e  teoricamente immortali che, come le famiglie, mirano ad auto-perpetuarsi senza la scomodità di legami sociali stabili e duraturi che corrono il rischio di degenerare nei riprovevoli fenomeni di clientelismo e nepotismo (come se il lobbismo esercitato dalle grandi corporations non generasse altrettante inefficienze). Per non parlare, poi, dell’inaccettabile e inefficiente differenziazione sessuale che la famiglia “tradizionale” imporrebbe nel mondo del lavoro, che dovrebbe essere, invece, il più possibile omogeneo e uniforme, con uomini e donne perfettamente intercambiabili.   

Nella storia dell’economia moderna, dagli albori dell’industrializzazione a questa parte, la famiglia è stata, quindi, progressivamente svuotata della sua originaria funzione socio-economica. Da centrale unità produttrice, è divenuta mera unità consumatrice. Da generatrice di sicurezza economica a deprecabile causa di inefficienza. Da scuola di responsabilità sociale a insopportabile freno alla libera espressione dell’ego. 

“Non si ripeterà mai abbastanza che ciò che distrusse la famiglia nel mondo moderno fu il capitalismo.”(G.K. Chesterton).