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Dal «carelianismo» e dal neoromanticismo finnico erompe la lirica possente di Eino Leino

di Francesco Lamendola - 22/07/2014

Fonte: Arianna editrice


 

 


 

«IL CANTO PERDUTO 

 

Una volta sognavo d’alte imprese

e cieli in terra scorgevo.

Ora solo, solo siedo

a contar la fuga dell’ore.

Da mane a sera siedo

a mirar del focolare la brace

e stillan le lacrime brucianti

ma morto è il canto…

 Era il canto del mio destino

raggiante di luce e di forza.

Creato in giorni e notti

nel più fondo dell’anima mia.

Scorron e scorron gli anni

e dello sguardo s’offusca il fuoco.

 O Dio, se ritrovassi / della lira il perduto tesoro!...»

 

Così cantava Eino Leino - forse il più grande poeta finlandese di ogni tempo, e uno dei più grandi della letteratura mondiale -, con accenti commossi che ricordano, per certi aspetti, la lirica pensosa e malinconica del poeta latino Massimiano; con la differenza che, in lui, l’elegia non è intessuta né di rimorsi, né di rimpianti per le occasioni perdute; e non si rivolge in maniera pressoché esclusiva al tema amoroso, ma abbraccia l’insieme della vita in tutte le sue manifestazioni e registra con inconsolabile tristezza la fuga del tempo e della giovinezza.

Ed ecco, su quest’ultimo tema, un altro esempio della forza e della freschezza poetiche di Leino:

 

«ELEGIA

 

Fugge la giovinezza

com’acqua che scorre.

Della vita l’aureo tessuto

presto dalla notte prende la trama.

Invano, ah, invano

l’ore vorrei frenare,

piacer non dona l’allegra compagnia o la coppa.

Dei pensieri il fiero

assalto batte in ritirata.

Dei sogni i castelli in aria

da tempo son rovinati.

In alto salivo,

or scendo forse a valle?

Ora soltanto io spero

un attimo di requie dal dolore…

Nel mare sprofondarono

dei sogni le fiorite aiuole.

Dolente è il poeta,

misera la sua moneta.

Tutto il mio diedi,

a innalzarmi un istante

alle auree chimere

un’anima uccisi…»

 

Come ha scritto Edoardo Roberto Gummerus dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli, autore di queste traduzioni (in: «Le letterature dei Paesi Baltici. Finlandia, Estonia, Lettonia, Lituania», a cura di G. Devoto, Firenze e Milano, Sansoni/Accademia, 1969, p. 141:

 

«Di Leino si può dire che nella sua lirica il modernismo europeo del primo Novecento si sposa al tradizionale mito finnico: fenomeno, del resto, che si verifica anche per la pittura, la musica e l’architettura di quel periodo.  Ne risulta un insieme molto originale e di alto valore estetico. Se […] dietro il poeta finnico si profila la grande ombra di Nietzsche, è necessario, tuttavia, aggiungere che, nel terzo e ultimo periodo della sua vita, Leino arrivò a una concezione che egli stesso chiamò “ottimismo tragico”, basata sul culto della libertà come continua, incessante e mai risolta battaglia che mette in gioco le possibilità e il significato stesso dell’esistenza umana.»

 

Ma per comprendere il prodigio di questa voce poetica così potente e originale, così specificamente nazionale e, nello stesso tempo, così tipicamente europea e novecentesca, è necessario inquadrarla nel contesto della vita culturale e letteraria finlandese dei primi anni del XX secolo, quando da non molto si stava placando lo scontro fra i sostenitori delle due lingue e letterature nazionali, la svedese e la finlandese, e quelli che vedevano solo in quest’ultima l’espressione autentica dell’anima nazionale (erano gli anni dei nazionalismi esasperati e non molti, in Europa, erano disposti ad ammettere la coesistenza di più lingue e letterature in un’unica cultura nazionale, nonostante gli esempi in contrario del Belgio e della Svizzera).

Il panorama complessivo della letteratura finlandese viene così riassunto da Eeva Uotila nel saggio «La letteratura finlandese di espressione finnica» (nella enciclopedia «Tutto sapere» (Edizioni Paoline/Editrice Saie, 1991, vol. 2, p. 108):

 

«Verso la fine del XIX secolo il realismo cominciò a cedere di fronte a una nuova corrente letteraria definita “neoromanticismo”. Questa svolta fu giustificata dal contesto storico, in quanto si tornò a esaltare i valori etnici e nazionali da un lato, e quelli spirituali ed estetici dall’altro., come reazione alla politica panslavista dell’impero russo. In questo clima nacque uno dei movimenti culturali più creativi della storia finlandese, il “carelianismo”, con il quale lo spirito romantico si richiamava alla Carelia., terra custode dei canti kalevaliani. Opere direttamente ispirate al carelianismo sono la musica di Jean Sibelius, la pittura di Akseli Gallén-Kallela e la poesia di Eino Leino. Nella letteratura la poesia prese il sopravvento sulla prosa, sottolineando prevalente,ente i valori spiro rituali, intimistici ed estetici, in contrasto con le tematiche sociali e gli intenti descrittivi di denuncia del realismo.

La poesia neoromantica fu contemporanea del simbolismo europeo, e certamente ne fu influenzata. Se ne distaccò comunque per i suoi caratteri stilistici e per i contenuti. In essa prevalgono i motivi patriottici e l’espressione dell’amore, della malinconia, di un’intima esperienza della natura.

L’esito più caratteristico e artisticamente valido del neoromanticismo è il ciclo di poemi “Canti sacri”, di Eino Leino, il quale rielaborò in modo creativo e personale i vari motivi e le formule stilistiche della poesia popolare, componendo leggende e ballate di monumentale bellezza. La finezza di espressione di questi poemi dipende in tale misura dai fattori linguistico-formali, che questo capolavoro di Leino non ha trovato una meritata valorizzazione quando è stato tradotto in altre lingue.

La produzione giovanile di Leino, poeta freneticamente creativo, rappresenta la più genuina espressione lirica della letteratura finlandese. In essa vengono abilmente sfruttati gli elementi della poesia popolare e le forme stilistiche della poesia europea dell’epoca. Leino tradusse la “Divina Commedia” in lingua finnica nel 1914.

Nato nel 1878 nella Finlandia nord-orientale, in una famiglia medio borghese, dotato di talento precoce e prodigioso, Eino Leino [che è uno pseudonimo; il suo vero nome è Armas E. Leopold Lönnbohm] esordì come poeta nel 1896, appena finiti gli studi liceali, al’età di 18 anni. Per il suo spirito libero e versatile fu una persona dagli interessi assai ampi, e più di qualsiasi altro scrittore influenzò e stimolò la vita culturale finlandese dell’epoca. Fu attivo come poeta, romanziere, drammaturgo, traduttore, critico e giornalista. Dopo la seconda raccolta di “Canti sacri” (1916, la prima è del 1903), la forza creativa di Leino cominciò a declinare. Dopo anni di attività convulsa e di vita dissoluta morì prematuramente nel 1926.»

 

Leino, dunque, è parente, in qualche misura, di Pascoli e di Verlaine, con i quali condivide l’idea che dietro le cose si celi un insondabile mistero, e che il poeta sia l’unico capace di spingersi oltre le apparenze, verso la realtà vera; ma anche di Rilke e di Esenin, cui lo accomuna la vena elegiaca, nostalgica e sognante, intessuta d’invincibile malinconia; e infine, volendo spaziare anche nell’ambito della prosa, di Hamsun e di Strindberg, legato al primo dal fresco, istintivo sentimento della natura e al secondo dalle cupe tristezze e dalla difficoltà di inserirsi in un mondo patriarcale le cui fondamenta sono intaccate dall’avanzata inarrestabile della modernità.

Vi è inoltre, nei suoi versi, un sentimento dolente del tempo che scorre inesorabile, tema che riconduce a Proust, e al tempo stesso una attitudine a farsi interprete del sentimento patriottico, sulle orme di Elias Lönnrot, l’autore del poema nazionale «Kalevala», colui che amorevolmente aveva cucito insieme  innumerevoli racconti orali percorrendo a piedi le regioni più isolate della Carelia orientale e della remota Penisola di Kola (da cui, appunto, il mito del “carelianismo”, come ritorno alla autentiche sorgenti dello spirito finnico), ma senza eccessi nazionalistici, anche perché la Finlandia era ancora una provincia dell’Impero russo e, a differenza della vicina Svezia, cui era stata soggetta politicamente per secoli, non aveva alcuna ambizione egemonica al di fuori dei propri confini naturali.

Non sfugga, ancora, una coloritura di tipo neanche troppo velatamente crepuscolare – se è lecito istituire un parallelismo con la letteratura italiana di quegli anni -, specialmente là dove Leino allude alla miseria esistenziale della condizione poetica, alla fallacia e alla illusorietà del mondo di sogno creato dal poeta rispetto alla vita “vera” degli uomini “sani”, cioè non ammalati di letteratura, e al desolante bilancio conclusivo di una vita spesa inseguendo miraggi inafferrabili e visioni seducenti, ma elusive: quasi il rovescio della medaglia rispetto alla concezione, tipicamente simbolista, del poeta come essere privilegiato, capace di esplorare l’inesplorabile. Temi, questi ultimi, che lo imparentano anche con la condizione della “inettitudine” in senso sveviano (ma anche nel senso del «Tonio Kröger» manniano) e, quindi, con la nostalgia per una vita più piena ed autentica, come la vagheggiano disperatamente tanti personaggi di Pirandello (e di Ibsen), senza peraltro mai poterla raggiungere o anche solo avvicinarvisi.

E poi, come è stato notato e specialmente nell’ultima fase della suo percorso letterario, vi è lo slancio dell’anima verso l’affermazione di una libertà assoluta, tanto sul piano interiore che su quello esteriore: uno slancio così perentorio e insofferente di compromessi, da richiamare, in controluce, non solo il messaggio di Nietzsche, ma anche quello di Stirner – e, di nuovo, per molti aspetti, quello di Hamsun: più come una rivolta dell’io individualista, comunque, che come un bisogno di esplicitare aspirazioni ideologiche di tipo sociale o politico.

Perché il Simbolismo e, più in generale, il Decadentismo, sulla cui scia si delinea la fresca e vigorosa parabola poetica di Leino, sono insofferenti di istanze collettive ed esprimono, semmai, le inquietudini, i crucci e le malinconie di un “io” diviso e in crisi di certezze e di valori, ma pur sempre borghesemente proteso all’affermazione di sé, nel senso vitalistico e schopenhaueriano – e, quindi, come aveva insegnato il filosofo di Danzica, sotto il segno di una inevitabile, completa e bruciante sconfitta.

E qui una comunanza, a ben guardare – e sempre restando nell’ambito delle letterature ugro-finniche – si potrebbe trovare, a nostro avviso, con il grande poeta ungherese Endre Ady, il quale, negli stessi anni, viveva l’esperienza dell’incanto e del disincanto, passando attraverso un itinerario spirituale e materiale che presenta molti punti di convergenza con quello del Nostro; con la differenza, appunto, che in Ady è più forte, a un certo momento, lo sforzo di uscire dalla dimensione individuale per vagheggiare un ideale di rinnovamento sociale  (come già lo era stato in Pascoli, al tempo della giovinezza) e più vigorosa la “sfida” a quel mondo borghese entro i cui orizzonti, pure, egli continua a muoversi. Più vicino alla sensibilità, o quanto meno ai rimpianti, di un Cesare Pavese – al Pavese de «La casa in collina», piuttosto che a quello di «Lavorare stanca» -, Ady sogna e attende una palingenesi politica e sociale, pur se avverte la distanza incolmabile che lo separa dall’impegno in senso “organico; mentre Leino rimane più fedele a una vocazione poetica essenzialmente di tipo interiore. Tuttavia la parentela c’è, ed è innegabile.

Il mondo poetico di Leino è un mondo in cui lo slancio dell’anima verso la bellezza e verso la verità viene continuamente contraddetto e smentito dall’amara esperienza della “realtà”, opaca e banale, contro cui tale slancio si infrange, ma che risorge incessante come una perenne domanda senza risposta: è un mondo che ha perso l’incanto (per dirla con Max Weber), ma che non sa e non può rassegnarsi; un mondo in cui, dopo i sogni smisurati della giovinezza, non resta che la coscienza del dolore, dilatato a dimensioni cosmiche. Atteggiamenti e propensioni che potremmo identificare come tipiche di un secondo romanticismo, il quale abbia fatto l’esperienza nietzschiana della “morte di Dio” ma che non è ancora intimamente persuaso di dovere e di potere continuare a vivere senza più quelle mète ideali e sublimi alle quali l’anima aspirava e, quasi suo malgrado, continua pur sempre ad aspirare, a dispetto di tutte le disillusioni e di tutte le amarezze.

Se a tutto ciò si aggiunge quella vena fresca, esuberante, sorgiva, della vita spirituale finlandese che da poco si è destata e muove i primi passi verso la maturità, meglio si comprendono sia la sua forza espressiva e la sua inesauribile vitalità, sia la malinconia di un mondo primigenio che, mentre ancora si affanna per riappropriarsi del proprio patrimonio culturale e morale, già vede allungarsi su di sé le ombre inquietanti di una modernità che non concede soste “sentimentali” e che tende ad appiattire e omologare tutte le cose, spegnendo ogni soffio di autentica poesia e ogni profonda aspirazione alla bellezza.

E questo è anche un dramma, collettivo oltre che individuale: il dramma di chi si è appena seduto a tavola, mentre già i camerieri si avvicinano per sparecchiare e la maggioranza dei convitati, sazi, non hanno più voglia di fare conversazione, ma sono come trasognati e intorpiditi. 

Il tempo fugge; ma non per tutti alla stessa maniera, né dopo aver trattato ciascuno allo stesso modo: e ciò vale sia per la dimensione dei singoli individui, sia per quelle grandi comunità che chiamiamo popoli.