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Né eroi, né esploratori, né santi: solo orfani

di Adriano Segatori - 28/07/2014

Fonte: Italicum

 

 

<<Sventurato il mondo che ha bisogno di eroi>>, aveva sentenziato Bertold Brecht, e il tempo lo ha corrisposto nel risultato, ma sconfitto nel giudizio: viviamo in un’epoca di viltà con un esito infausto.

Alla morte di Dio preannunciata da Nietzsche non poteva che corrispondere la fine del padre. La cosa fastidiosa è che coloro i quali, nell’attualità, si esibiscono in contorsionismi sociologici e in piagnistei psicoanalitici denunciando questa condizione, sono gli stessi relativisti autori o complici o celebranti del deicidio e del parricidio. A parte queste inezie di responsabilità e i conseguenti sfibrati  rimedi, il giudizio sulla tragedia è  sottoscrivibile.

Il padre, nella sua dimensione archetipica, è ben di più e di altro rispetto al genitore di sesso maschile di quotidiano intendimento e di scontata rappresentazione. Quello che si intende non è colui che ricorda un ruolo di ancestrale memoria e di elementare impegno – procacciare il cibo, accendere il fuoco, difendere la caverna –, ma il simbolo di una funzione.

Innanzitutto, la sua rappresentazione era di tipo legislativo e <<anche esecutivo e giudiziario, persino negli stati liberali>>[1]; classica era la minaccia della madre al bambino: “Quando torna a casa tuo padre gli dico tutto e farai i conti con lui”. La donna, in altri termini, una volta assolto il compito di accudimento e di sostentamento del figlio, delegava al marito il compito del giudizio su un certo comportamento e l’eventuale sanzione dello stesso. Una sinergia di funzioni ed un accordo di responsabilità condivisa, elementi fondamentali per una educazione coerente ed una uniforme costruzione della personalità, poiché: <<Per sapere “chi sono” devo crescere in un mondo familiare e sociale […] che mi pone in un contesto ben delimitato e relativamente costante. Altrimenti sarò sempre confuso e inquieto nel collocare la mia identità del momento in un quadro di riferimento sufficientemente stabile>>[2].

Poi, il padre, quale rappresentante del simbolo della Legge, era anche colui che determinava la prescrizione, che stabiliva il limite, che decretava la proibizione. È questo il concetto di castrazione della clinica psicoanalitica: l’impedimento alla soddisfazione delle voglie, la punizione in caso di trasgressione del limite, il castigo per la violazione del divieto. La Legge descritta non è mai sopruso o sadismo, ma sempre un dispositivo sano di maturazione, tanto da essere essenziale per il raggiungimento di due obiettivi: l’esame di realtà e il modellamento del desiderio. Da un lato, quindi, la corretta entrata nel mondo reale, che è di per sé ordinato, limitato e circoscritto dalle norme. Dall’altro, però, la corretta educazione dal punto di vista etimologico, cioè il condurre fuori, il fare emergere le competenze interiori e le capacità di natura del figlio, che si possono riassumere nel proprio daimon della psicologia archetipica, o molto più comprensibilmente, vocazione.

Ad un certo momento, per cause cosmiche, per un progetto diabolico nel suo paradigma di scissione, di divisione (dia-bállein: il diabolico per separare, fomentare il disaccordo, spargere il sospetto, indurre in errore, dividere), l’armonia simbolica (syn-bállein: il simbolico mettere insieme, riunire, legare) è stata smantellata, e con essa le funzioni che le erano proprie.

Quella che adesso, nell’attività modaiola della disquisizione sui massimi sistemi, viene definita dagli psicoanalisti salottieri <<l’evaporazione del padre>>, altro non è che la disgregazione del principio di autorità già denunciato negli oramai arcaici anni sessanta. All’epoca, colti personaggi della cultura e anticonformisti d’avanguardia misero in guardia giovani e adulti sull’iniziata deriva. Quando – per dirla alla Gomez Dávila – si iniziò a dare del tu a Platone, ogni aristocratica distanza venne annullata, ed il senso di rispetto scomparve. Incominciò il mito dei giovani, coinvolgendo nell’infantilizzazione genitori e insegnanti, sociologi e pedagogisti, con enorme soddisfazione degli apparati pubblicitari che investirono risorse e denaro nella propaganda commerciale indirizzata verso questa nuova tipologia antropologica.

Il problema più grave, rispetto alla già pericolosa mercantilizzazione dei giovani, è stato quello di rendere evanescente ogni termine di paragone, quindi di confronto e di limite, con la conseguenza di aprire il varco a qualsivoglia istanza pulsionale. In questo senso la fine del Padre è stata devastante dalla prospettiva simbolica. Nella scuola come nella famiglia – presi a paradigmi dell’organismo comunitario – la democratizzazione dei rapporti ha portato a due conseguenze molto dannose che si sono vicendevolmente supportate in termini negativi: da un lato, l’idea che non esiste alcun rapporto verticale, ma solo una parità orizzontale di relazioni; dall’altro, la presunzione che ogni percorso di vita possa essere facilitato, reso piacevole, escluso da qualunque intoppo e frustrazione. <<Nella conoscenza di sé devi conoscere anche i tuoi limiti>>[3] – annota Umberto Galimberti, e con i tuoi limiti anche la tua funzione e il tuo mandato vocazionale. E questo era il mandato archetipico del Padre.

Verificato che ci sono cose imparabili, ma non insegnabili, il Padre aveva la funzione di esempio del divieto, di esame di realtà. La sua rappresentazione simbolica determinava, in un certo modo, l’alveo dentro al quale incanalare le energie, evitando di disperderle nel consumo afinalistico delle voglie contingenti.

In questo processo educativo, nel differimento della gratificazione e nella prescrizione del dovere, trovava la sua essenza vitale il desiderio, ben altro e ben di più della semplice bramosia, e dell’altra fuorviante aspirazione. Esso entra a pieno titolo in quella che è riconoscibile con l’idea di vocazione. Cos’era, e cos’è, per un esploratore, se non la volontà di conoscenza quella disposizione ad abbandonare un luogo sicuro per avventurarsi verso l’ignoto per mare e per terra? E per il mistico, la determinazione a lasciare il luogo mondano per ritirarsi in solitaria meditazione verso uno spirito inconoscibile? E per l’eroe, la coerenza nel giocarsi la stessa vita per un ideale unico ed impagabile? Sempre è soltanto la vocazione, la fermezza implicita nel proprio carattere.

Si potrebbe riassumere così la figura simbolica del Padre, su cui tanto ha analizzato e continua ad indagare la psicoanalisi: colui che forma il carattere. Scrive Salvatore Natoli: <<Il carattere è “fedeltà a se stessi” e per questo diviene destino>>[4], ed è quello che insegnavano un tempo i vecchi, carichi della propria esperienza e conformi al proprio pensiero. E con il carattere insegnavano quattro indirizzi mentali e comportamentali necessariamente compresenti: la curiosità, la passione, il rigore e la perseveranza.

Ora, tutto è passato. La curiosità si è trasformata in indiscrezione, macinata nella rapidità dell’informazione e nella transitorietà dell’interesse. La passione è intesa solamente come eccitazione, senza misura e senza governo. Il rigore viene interpretato come castigo e tormento, perciò evitato. La perseveranza come ostinazione e perdente caparbietà, quindi da abolire in un’ottica di flessibilità. Ora, tutto è possibile, tutto è esigibile, tutto è opinabile.

Per essere eroi, esploratori o santi bisogna aver avuto un Padre, quindi essere diventati uomini. La contemporaneità, invece, ha scomunicato tutto ciò: <<Il tramonto del regno del padre non [ha] annuncia[to] l’avvento del regno delle madri, ma solo un periodo di reggenza materna in nome del regno del figlio, una sorta di paidocentrismo>>[5]. Con molti ringraziamenti del capitale: <<[…] il bambino significa il simbolo del perfetto consumatore, lo stato paradisiaco del capriccio accontentato come valore supremo. […] Il “diventa adulto” rivolto al bambino significa “diventa consumatore” [in] una generale infantilizzazione, priva di leggi paterne e sfuggita al contenimento materno>>[6].

Risultato: padri che hanno tradito la propria funzione e figli – secondo una felice, seppur tragicamente cinica definizione di un’insegnante illuminata – ‘orfani di genitori viventi’.

Bertold Brecht ha vinto, ma chi è stato sconfitto è l’uomo differenziato, sostituto da un individuo confuso e sfuggente, alla ricerca inconscia di un padrone che lo guidi e lo protegga.



 

 

[1] R. MÀDERA, La carta del senso, Raffaello Cortina, Milano 2012, p. 103.

[2] Ivi, p. 105.

[3] U. GALIMBERTI, Il viandante della filosofia, Aliberti, Roma 2011.

[4] S. NATOLI, Il buon uso del mondo, Mondadori, Milano 2010, p. 137.

[5] R. MÀDERA, La carta del senso,  cit., p. 114.

[6] Ivi, p. 115.