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Cui prodest il successo dei ribelli jihadisti in Iraq?

di Valentina Rossetti de Scander - 28/07/2014

Fonte: Italicum

 

Stupore: ecco la parola che più e meglio di ogni altra esprime il nostro stato d’animo dopo avere appreso la notizia di quanto stava accadendo in Iraq. Stupore: sì, ancora stupore, perché pare che la dietrologia sia demodé e sia considerata un inutile esercizio intellettuale, mentre noi pensiamo sia quanto mai utile ricordare che «cui prodest scelus is fecit» [Seneca, Medea]. Il titolo, pertanto, può non casualmente sembrare capzioso. Insomma, diceva il Senatore Giulio Andreotti, «a pensar male si fa peccato, ma alle volte ci si azzecca». La domanda che ci poniamo è: da dove arriva la forza militare dei jihadisti, insomma chi li finanzia? Sembra un interrogativo tanto scontato quanto poco indagato se si guarda alla superficialità o al silenzio che i media hanno assunto come criterio di condotta sul problema. A occuparsene è stato The Guardian, che però interpreta i fatti tendendo conto della sua “britannicità” e dei conseguenti interessi in gioco del Paese d’Oltre Manica.

Due giorni prima della conquista di Mosul da parte dell’Isil, gli iracheni ne avevano catturato il corriere più fidato, noto all’interno del gruppo estremista islamico come Abu Hajjar. Dopo estenuanti interrogatori è crollato e non solo ha rivelato il nome del capo militare dell’Isil, ma pare abbia anticipato ciò che sarebbe accaduto di lì a poco a Mosul. Alcune ore dopo Abdulrahman al Bilawi, l’uomo per conto del quale faceva da corriere e che aveva cessato di proteggere, veniva ucciso nel suo nascondiglio non lontano da Mosul. Dalla casa di questi e da quella del prigioniero sono state sequestrate 160 chiavette usb contenenti informazioni dettagliate sul gruppo terroristico. Tra queste spiccavano i nomi veri e di battaglia dei combattenti di origine straniera, le identità dei capi più anziani e i loro nomi in codice, le iniziali delle talpe nei ministeri e, dulcis in fundo, resoconti sulle finanze del gruppo. Una brillante operazione di intelligence delle forze irachene che hanno portato alla luce una situazione che, si dice, abbia lasciati esterrefatti gli stessi agenti della CIA. Ne frattempo, non solo si stava avverando a Mosul quanto già anticipato dal prigioniero, ma in tre giorni lo Stato islamico e del Levante (Isil) è avanzato conquistando anche Tigrit e minacciando Kirkuk. Ciò che emerge è che gli uomini di tre divisioni dell’esercito iracheno hanno abbandonato le divise e disertato: né più né meno di quanto era già accaduto con il forte ed equipaggiatissimo esercito iracheno in occasione dei due interventi occidentali, esercito liquefattosi in men che non si dica.

Non c’è dubbio, comunque, che la sconfitta dell’esercito iracheno di fronte ai jihadisti abbia cambiato radicalmente gli equilibri di potere in Iraq, indebolito il Primo ministro Nuri al Maliki, permesso alle forze curde di assumere il controllo della città contesa di Kirkuk e innescato una reazione degli sciiti che minaccia il già fragile equilibrio geopolitico dell’area. Ebbene, noi siamo dell’avviso che tutto ciò non sia possibile senza ingenti entrate finanziarie cui il gruppo terroristico evidentemente sa di poter accedere. Da alcune verifiche compiute subito dopo l’arresto del corriere di cui s’è detto in precedenza, risulta che prima della conquista di Mosul i jihadisti disponessero di poco meno di 900 milioni di dollari in beni e in contanti. In seguito, con i beni rubati alle banche e gli equipaggiamenti militari di cui si sono impadroniti, la cifra sarebbe salita a due miliardi e trecento milioni di dollari: disponibilità enorme se si considera che l’organizzazione è nata solo pochi anni fa.

Inoltre, l’Isil sembra dotato di notevole acume strategico, attento com’è ai dettagli: i leader del gruppo sono stati scelti con cura, mentre molti combattenti di rango inferiore provengono da una lunga esperienza di lotta condotta contro le forze statunitensi e non conoscono i nomi dei loro compagni. Sarebbe un errore, tuttavia, trarre da ciò l’impressione di un’organizzazione innovativa sotto il profilo della struttura intera, perché, a ben vedere, si tratta di regole proprie di qualsiasi organizzazione di resistenza o a sfondo terroristico. Ciò che più colpisce, invece, è che le entrate dell’Isil, come scoperto dai servizi segreti stranieri, provengano oltre dallo sfruttamento dei pozzi petroliferi nell’est della Siria, area controllata dallo Stato islamico dal 2012, e dalla rivendita di parte del petrolio allo stesso governo siriano. È proprio vero che pecunia non olet, anche quando si è costretti a trattare con il nemico e questo è costretto a pagare ciò che già sarebbe suo. Verrebbe quasi da dire, polemicamente, che, stante così la situazione, il governo siriano potrebbe essere considerato, seppure indirettamente, uno Stato sponsor del gruppo terroristico con cui è in guerra.

Ma ciò che ancor di più sorprende e preoccupa (tema cui dovrebbe essere sensibile l’UNESCO) è che le maggiori fonti di entrata del gruppo derivino dal contrabbando di reperti rubati negli scavi archeologici. Ricavi che, in meno di tre anni, hanno trasformato l’Isil da banda raffazzonata di estremisti islamici nel gruppo terroristico che si dice essere il più ricco ed efficiente al mondo.

Come risulta al The Guardian, un funzionario dell’intelligence irachena avrebbe rivelato che i terroristi avrebbero guadagnato 36 milioni di dollari solo dal sito di Al Nabuk in Siria, sito in cui c’erano reperti risalenti a ottomila anni fa. La conclusione è che questo gruppo sembra in grado di autofinanziarsi e pare non abbia bisogno del sostegno di nessuno Stato terzo. Riteniamo, in aggiunta, che proprio questa ingente disponibilità finanziaria abbia indotto l’Isil a giocare d’azzardo occupando i centri in precedenza menzionati, indicando chiaramente quale fosse il proprio disegno politico.

L’impressione che ricaviamo da questo conflitto è che tutta l’area mediorientale è destinata a subire gli effetti di un forte sommovimento tellurico, militare e politico.

La mobilitazione degli iracheni su base settaria squarcia il velo sulla natura di un conflitto che si rivela ben più grave di quelli finora combattuti nell’area e, nello specifico, in Medio Oriente. La propaganda religiosa[1] e le dichiarazioni dei leader delle diverse fazioni hanno aperto il “vaso di Pandora”, una polveriera pronta a scoppiare da un momento all’altro.

L’Iraq si trova oggi esposto a una grave minaccia, quella della sua frammentazione che equivale alla fine del Paese così come lo si conosce. Una circostanza, inutile ripeterlo, che avrebbe gravi conseguenze su tutta la regione. Quanti vedono l’Iraq formato da tre entità distinte e, dunque, non si stupiscono della dissoluzione del Paese, sembrano non tener conto dei legami sociali e storici che fanno da collante al popolo iracheno unitariamente inteso. Siamo dunque dell’avviso che se si dovesse arrivare alla divisione del Paese, questa avverrà inevitabilmente tra violenze inaudite e, comunque, sarebbe un processo che avrebbe immediate ripercussioni anche in Siria.

Il 2014 è l’anno in cui si ricorda il centesimo anniversario dello scoppio della prima guerra mondiale. Volgendo lo sguardo al passato e, in particolare, al crollo dell’impero ottomano, non possiamo non osservare come la mappa del Medio Oriente che ne seguì non fosse stata disegnata a beneficio degli interessi delle popolazioni, se si considera che i confini stabiliti con gli accordi Sykes-Picot del 1916 hanno causato solo guerre.

Conclusivamente, possiamo solo rilevare come, per evitare ulteriori catastrofi nell’area, l’onere maggiori gravi sui governi arabi che devono impegnarsi a intervenire per assicurare l’inviolabilità della sovranità e della stabilità irachena. Questo dev’essere più che un auspicio, dovrebbe essere l’impegno politico su cui gli occidentali dovrebbero focalizzare la propria attenzione uscendo dagli schemi precostituiti che sembrano animarli nelle questioni mediorientali: i bla bla, gli appoggi di maniera a questo o a quello dei contendenti, il ricorso all’uso delle armi quale unica possibile soluzione dei problemi. Se una volta tanto si decidessero a fare politica….       



[1] Il 13 giugno u.s., il grande ayatollah Ali Al Sistani, una delle più importanti autorità religiose a livello mondiale, ha esortato i suoi seguaci sciiti a combattere contro l’Isil, appello immediatamente recepito da migliaia di giovani di Bagdad. Viceversa, alcuni giorni addietro il sunnita Al Baghdadi, inventando probabilmente una discendenza califfale, ha imposto a tutti i musulmani di seguire le sue indicazioni e prestargli obbedienza.