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Educare alla decrescita

di Gloria Germani - 28/07/2014

Fonte: Arianna editrice



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Solo fino a qualche anno fa, il nostro sembrava il Migliore dei Mondi Possibili. La Civiltà più Evoluta nella Storia dell’Uomo. Era la Civiltà della Scienza, la Civiltà delle verità scientifiche dimostrate. Era il TINA: There Is No Alternative.

Eppure, almeno dal 2007, due cataclismi si sono scaraventati su di noi: una gravissima crisi ambientale e una crisi economico-finanziaria di proporzioni gigantesche che mina le basi stesse del nostro sistema di vita. Le due cose sono strettamente correlate. Infatti era facile intuirlo, le cause del surriscaldamento globale e della crisi climatica sono riconducibili al 95% all’impatto del sistema industriale sull’ecosfera; dunque sono imputabili alla vorticosa azione che l’uomo ha intrapreso soprattutto negli ultimi 50 anni. Lo hanno dimostrato indiscutibilmente i vari rapporti dei 2500 scienziati dell’International Pannel for Climate Change – premiati con il Premio Nobel nel 2007 – e moltissime altre indagini a partire da quelle degli anni ’70 del Club di Roma. Lo dimostrano malgrado il fatto che tutti i massmedia – figli della produttività tecnologica e legati al marketing della modernità – tendono ad occultare in ogni maniera questo legame strettissimo e a distrarci e a confonderci con ogni genere di informazione e di spettacolo. In fondo la crisi ambientale non è immediatamente visibile. Una pioggia in più o un’estate particolarmente torrida si possono diluire nell’attenzione con il passare dei giorni e delle tante stagioni della vita.

Molto più pregnante ed incisiva è la crisi economica. Ascoltare i notiziari ossessionati dallo spread e dall’andamento delle borse, venire a sapere di persone che perdono il lavoro, o che non arrivano alla fine del mese, o che giungono a gesta di suicidio, nonostante il divieto del governo di pubblicare notizie del genere, impressiona e sciocca. L’economia era diventata negli ultimi decenni il centro propulsore di tutte le nostre politiche, l’obiettivo unico di tutti i nostri governi – sia di destra che di sinistra. L’unico valore riconosciuto ovunque nel mondo.

Ma l’Impero dell’Economia si è bloccato. Ormai, nel 2013, sono molte le voci e le correnti della società civile che cominciano a capire che non è l’economia a dover essere indirizzata meglio, e neppure che ci dobbiamo inventare un’economia sostenibile o una economia verde. La crisi è talmente grave e onnicomprensiva che occorre ripensare, da capo, l’economia e i suoi presupposti di base: il concetto di Crescita e quello del PIL. Perché il problema economico nasce semplicemente dal fatto che produciamo molte più cose di quante non riusciamo a comprare. «Perché la sovrapproduzione di merci ha raggiunto un livello tale che se non si acquistasse a debito, crescerebbe la quantità di merci invendute e si scatenerebbe una crisi in grado di distruggere il sistema economico produttivo fondato sulla crescita infinita e sul PIL.

L’unico modo di incrementare la domanda è l’indebitamento. Perciò la crescita non è la soluzione. È il problema!» – scrive Maurizio Pallante nel Manifesto Appello del Movimento per la Decrescita Felice.(1) La scrittrice e attivista Helena Norberg Hodge – Premio Nobel Alternativo nel 1987 – sostiene con molte e acute argomentazioni nel suo bellissimo documentario L’Economia della Felicità: «Il sistema economico che ci ha condotto alla Globalizzazione è costruito su una giustificazione falsa: quella della Crescita! – ed esorta con slancio – Non possiamo lasciare l’economia agli esperti».(2)

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Solo se scendiamo a questo livello di lettura – più elementare, ma anche più profondo – possiamo afferrare al volo la connessione, da una parte, tra economia, industrializzazione e globalizzazione e, dall’altra, crisi ambientale e surriscaldamento globale. Ormai, in svariati ambienti si sente ripetere il motto: «Colui che pensa che sia possibile una crescita infinita in un pianeta finito, o è un pazzo o è un economista!».(3)

Il più importante teorico della Decrescita, Serge Latouche, ha giustamente sottolineato il bisogno di usare lo slogan De-crescita per rompere con l’illusione dello sviluppo e anche dello sviluppo sostenibile. Occorre riconoscere che l’immaginario ha svolto un ruolo centrale nella costruzione dell’economia attuale. «Noi sosteniamo la necessità di rifiutare l’immaginario della crescita e la religione dello sviluppo economico. Questa decolonizzazione dell’immaginario precede qualsiasi costruzione di una via alternativa».(4)

In altre parole, l’economia che invade i nostri telegiornali, l’egemonia dei soldi della nostra epoca, non è affatto qualcosa di
naturale o che c’è sempre stato. Al contrario, Aristotele parlava sì di Oikònomos, ma si riferiva all’amministrazione della casa, mentre usava il termine crematistica per riferirsi all’arte di acquisire ricchezza con la ricchezza e questa pratica in antico era sempre biasimata e condannata.(5)

Il perseguimento della ricchezza per la ricchezza non è saggio, diceva Socrate e lo ribadiva con forza Platone. Il commercio è pericoloso e fare soldi prestando soldi (senza fatica) è usura e pertanto un peccato capitale, ripete all’unisono tutta l’antichità cristiana almeno fino al Rinascimento. L’interesse sui prestiti è contrario alla morale, e quindi vietato, ripete ancora oggi l’Islam.

Dobbiamo renderci conto che c’è stata L’invenzione dell’economia – così come Latouche intitola uno dei suoi saggi(6) – e questa invenzione è avvenuta in tempi relativamente recenti. Il fatto che il mercato sia neutrale è, invero, un artificio culturale di non più di un secolo. Se per uscire dalla gravissima crisi economica e ambientale che ci sta attanagliando, occorre rimettere in discussione l’idea della Crescita (insieme forse ad altre idee come quelle di Economia, di Sviluppo e di Progresso) questa stessa Decolonizzazione dell’Immaginario può aiutarci a mettere a fuoco un’altra crisi molto grave anche se, spesso taciuta: quella esistenziale dei giovani e delle giovani generazioni. Anche se non ci piace saperlo e, tendenzialmente, facciamo di tutto per sviare lo sguardo, oggi assistiamo allo sbandamento e a un grave malessere dei giovani. I dati statistici ce lo confermano ogni anno di più. Forti disturbi dell’apprendimento, incremento dell’uso degli stupefacenti e di alcool in fasce sempre più basse di età, disturbi dell’alimentazione, con bulimia e anoressia in costante aumento, oltre al fenomeno in continua ascesa del bullismo e della violenza gratuita.

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Decolonizzare l’immaginario

Proveremo qui a ribaltare la visione tradizionale con cui siamo abituati ad affrontare il problema. I giovani sono sbandati non perché seguono poco la scuola, ma perché seguono questo tipo di scuola.

Se, come ci insegna Latouche, dobbiamo decolonizzare l’immaginario per arginare la crisi economica e quella collegata del surriscaldamento globale e della crisi climatica, non dovremmo ancor più decolonizzare l’immaginario per aiutare i giovani?

I giovani ovviamente si formano e crescono secondo l’immaginario dei propri tempi. Se ci sono delle ambiguità e degli sbagli nelle idee di base, quante conseguenze negative ne trarranno riguardo alla loro visione del mondo e al loro agire in esso!

Latouche infatti, nel suo recente saggio Come si esce dalla società dei consumi, dedica il capitolo centrale all’educazione: “La sfida all’educazione alla decrescita”.La decolonizzazione dell’immaginario deve passare necessariamente attraverso il ripensamento della formazione di cittadini, cioè la scuola.Ovviamente la formazione – l’educazione dei giovani è sempre esistita, ma le scuole e i metodi non erano affatto uguali a quelli attuali.

«Per gli antichi, la formazione del cittadino, la paideia, la sua trasformazione in membro della polis, passava innanzitutto per la sua edificazione» scrive Latouche. «Bisognava disciplinare la hybris (l’arroganza, la dismisura), controllare le passioni tristi (l’avidità, la sete di potere, l’egoismo, i desideri) e canalizzare le energie in direzione dell’armonia e della bellezza».(7)

Quelo che oggi si chiama, il diritto allo studio – peraltro imposto obbligatoriamente fino ai 16 anni – consiste esclusivamente nell’impartire nozioni della cultura occidentale moderna.

«Oggi la scuola – sottolinea Latouche – trasmette la religione della crescita, inculca la fede nel progresso. La missione ufficiale del sistema educativo, dalla materna all’università passando per la formazione permanente, è quella di fabbricare ingranaggi ben oliati per una megamacchina folle. Senza parlare delle Business school, che costituiscono il modello e che ormai da tempo si presentano come scuole di guerra. In esse si insegna che l’avidità è cosa buona e i giovani vengono formati per diventare dei killer. La scuola inoltre è anche propedeutica alla banalità del male. La parcellizzazione del sapere e delle competenze professionali cancella la responsabilità dell’attore, ridotto alla condizione di esecutore. E così che poi nelle imprese i manager realizzano gli obiettivi imposti dagli azionisti, mentre al termine della catena gli operai si suicidano o vengono licenziati».(8)

«Fin dall’infanzia, in nome della produttività, viene diffusa una educazione coercitiva in cui, parcheggiati in venticinque o trenta per classe, gli scolari vengono rimbambiti da principi di competizione e di concorrenza, sottoposti alla legge dei predoni, iniziati al feticismo del denaro, paralizzati dalla paura dell’insuccesso, infestati dall’arrivismo, abbandonati in balia di funzionari amareggiati e mal pagati, meno propensi a nutrire la curiosità delle giovani generazioni che a vendicarsi su di esse delle loro sventure».(9)

Uno dei padri fondatori della Decrescita – Ivan Illich – nel celebre libro Descolarizzare la società, aveva già denunciato con forza che l’idea generosa e progressista dell’accesso al sapere per tutti ha finito per distruggere ogni altra forma di costruzione del cittadino. L’istruzione rischia di trasformarsi in rituale di iniziazione alla religione dell’economia, della crescita e del consumo.(10)

In generale, questo tipo di educazione è stato un potente strumento dell’occidentalizzazione del mondo. Una delle prime cose che i colonizzatori facevano, infatti, era istituire scuole per le élite locali, per instillare in loro sentimenti di emulazione della superiore civiltà e, in coloro che non potevano andarci, sentimenti di inferiorità. Si trattava – e si tratta oggi – di inculcare una visione del mondo specifica, discipline e nozioni che seguono la logica cartesiano-newtoniana.

Latouche è consapevole che molte materie andrebbero decolonizzate: in particolare l’insegnamento della Storia. «La storia dei manuali dovrebbe anch’essa venir decolonizzata. Bisognerebbe demistificare e demitizzare il grande racconto occidentale della crescita e del progresso con la rivoluzione industriale e i miracoli della tecnologia, racconto che ha largamente contribuito alla formattazione delle menti. In effetti, negli storici (da Le Goff a Hobsbawn) si possono trovare in pratica tutti gli elementi di un’altra storia dell’Occidente che però rimane tutta da scrivere».(11)

L’educazione nuova che andrebbe proposta ai giovani dovrebbe alfabetizzarli sull’ecologia e sui problemi ambientali, come sostengono in molti, tra cui il grande fisico Fridjof Capra che dirige il Centro per l’Ecoalfabetizzazione di Berkeley. Purtroppo, svariate ricerche condotte in Francia e in Belgio dimostrano che la scuola alimenta disinformazione e confusioni gravi in abito di conoscenze ambientali. L’indirizzo educativo ecologico tuttavia, è senz’altro importante, ma non è sufficiente.

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Già Illich denunciava la natura manipolatrice dell’informazione-educazione moderna, e sosteneva la necessità di disintossicarsi dalla scuola per ritrovare la natura e l’uomo. Nella società della comunicazione attuale, il totalitarismo mediatico si trasforma in disinformazione e si combina con la pubblicità commerciale e politica, diventando deformazione, propaganda e manipolazione. Il progresso, la crescita e il consumo non sono più una scelta, ma una droga a cui ci siamo assuefatti. Per questo Illich riteneva necessario l’ascesi e il tecno-digiuno. «Quale che sia il vostro livello intellettuale o emotivo, capire di che cosa potete fare a meno è uno dei mezzi più efficaci per convincervi che siete liberi. Proviamo a rinunciare a qualcosa, per ricordare a noi stessi quanto siamo attaccati a questo mondo moderno così com’è, e come potremmo tuttavia farne a meno».(12)

Questa era esattamente anche la visione di Gandhi. Per lui educazione non significava inculcare la cultura occidentale inglese, ma educare all’autonomia i settecentomila villaggi indiani. Se dunque occorre prendere coscienza della situazione attuale fatta di deformazione e di manipolazione, ci sono però oggi anche motivi di grande ottimismo. Come sostiene Pallante, «la decrescita è un cambiamento di paradigma culturale rispetto alle idee che si sono consolidate negli ultimi due secoli» e la «situazione di crisi, i cataclismi e le catastrofi naturali – rincara Latouche – possono condurre la società ad una fase di effervescenza, che può ben essere propizia ad un cambiamento radicale».(13)

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9788866810469Tratto da Alice Project (Terra Nuova edizioni). Il libro racconta l’esperienza di una scuola interculturale e interreligiosa (con una pedagogia transdisciplinare, che lega mente e corpo, teoria e prassi… in grado di mettere in discussione il paradigma dello svilippo), fondata in India nel 1994 da Valentino Giacomin e diffusa ora anche in alcuni paesi europei. Il sito della scuola.

NOTE

1. Così AA.VV., Debiti pubblici, crisi economica e Decrescita Felice, Edizioni Decrescita Felice, Roma 2012.

2. Norberg Hodge H., L’economia della felicità, Satya doc e CG Home Video, 2011.

3. La battuta è di K. Boulding, economista egli stesso, citato in Latouche S., Come si esce dalla società dei consumi, Bollati Boringhieri, Torino 2011, p. 51.

4. Latouche S., Come si esce cit., p. 51.

5. Aristotele, Politica, Etica Niconomachea 5, 5, cap. VIII; Platone, Repubblica, II, 369b.

6. Latouche S., L’invenzione dell’economia. L’artificio culturale della naturalità del mercato, Arianna, Bologna 2002, ed. riv. ed ampl. L’invenzione dell’economia, Bollati Boringhieri, Torino 2010.

7. Latouche S., Come si esce cit., p. 115.

8. Ivi, p.118.

9. Vaneigem R., Pour l’abolition de la societé merchande, Payot et Rivages, Paris 2002, p. 104, citati da Latouche, Ivi, p. 110.

10. Illich I., Descolarizzare la società (Pdf), Mondadori, Milano 1971.

11. S. Latouche S., Come si esce cit., p. 123.

12. Cayley D. e Illich I., La corruption du meilleur engendre le pire, Actes Sud, Arles 2007, p. 305.

13. Pallante M., La felicità sostenibile, Rizzoli, Milano 2009, p. 199; Latouche S., Come si esce cit., p. 122.