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Israele-Palestina: proteggere Gaza con una no-fly zone

di Claudio Moffa - 30/07/2014

Fonte: l'indro

L’attacco israeliano contro Gaza appare sempre più 'sconvolgente': dal punto di vista umano, perché sono morte oltre 1000 persone   -tanti bambini, malati, persone deboli-; poi perché la comunità internazionale non interviene a tutela della popolazione indifesa; infine  -punto importante (condiviso da molti sopravvissuti alla Shoah)- come è possibile che il popolo che ha subito la Shoah possa riservare un trattamento che per molti aspetti appare analogo a un altro popolo? un popolo che appartiene allo stesso ceppo linguistico, quello semita.
È scomodo dire che il comportamento di Israele nei confronti di Gaza sia umanamente e storicamente inspiegabile, sotto questo profilo, ed è facile sentire sulla bocca 'dell’uomo della strada' il ricorso a metafore apparentemente poco corrette. Eppure, anche cercando di motivarle, le argomentazioni che cercano di approfondire la posizione israeliana rischiano di evocare gli ignobili pogrom, le persecuzioni ai danni di un popolo (ebraico) che nella storia ha sofferto molto. Quanto abbia sofferto, quali siano le motivazioni di un passato molto pesante, non è tema di questo servizio. Ma ha sofferto -e continua a soffrire- il popolo palestinese. Infine, ragionare delle responsabilità attuali di un popolo non significa automaticamente approvarne lo sterminio. Che nemmeno un essere umano debba morire nei campi di sterminio o in una prigione a cielo aperto è un valore irrinunciabile; contare le vittime e determinare le ragioni che hanno portato a tante morti è una questione di fonti storiche. Infine, ciò che decidono i governanti non necessariamente rappresenta la volontà di un popolo.      

 

Claudio Moffa è professore ordinario di Storia delle Relazioni Internazionali e di Storia del Diritto Internazionale all’Università di Teramo, e membro dell’ASDIE-Associazione degli Studiosi del Diritto Internazionale e Europeo.

 

Professor Moffa, Lei ha scritto «un cognome non fa l’ebreo, un ebreo non fa il sionista, un sionista non fa il talmudista»; sembra significare che contano i comportamenti, non le parole. È così? Ci spiega meglio questa frase?
Certo i comportamenti contano, ma la frase vuol dire soprattutto 'mai generalizzare'; scavare nelle differenze; cercare di capire se sono sostanziali o di facciata. Tutto ciò nella prospettiva di un superamento dei conflitti sulla base dei principi di fratellanza, di eguaglianza e di rispetto dei diritti di tutti. La generalizzazione porta al rischio razzismo, l’autocensura della critica a Israele porta al razzismo contrario, l’intoccabilità degli Ebrei, la soccombenza al dogma religioso del 'Popolo eletto' anche quando i suoi leaders si macchiano di crimini terribili. L’esempio che mi ha portato a distinguere non solo tra Ebrei e Sionismo   -distinzione comunque difficile negli ultimi decenni, tranne che per alcuni coraggiosi intellettuali come Gilad Atzmon, Norman Finkelstein, Ilan Pappe e altri- ma anche tra sionismo e talmudismo è stato l’assassinio di Yitzhak Rabin nel 1995. Rabin aveva condiviso tutte le scelte dello Stato ebraico, dalla pulizia etnica del 1948 fino agli anni ’90. Poi, a un certo punto, ha optato per la pace e per il riconoscimento di fatto di Yasser Arafat e dei diritti palestinesi. Ma è stato ucciso, da un gruppo di suoi connazionali che non accettava compromessi con gli Arabi, con i Gojm (quelli che il Talmud definisce 'bestie'). E dunque la distinzione è d’obbligo, anche senza dare patenti ‘rivoluzionarie’ a chi rompe il tabù della guerra di annientamento del Popolo palestinese.

Lei pensa che questa distinzione vada colta anche oggi, in questa nuova guerra di Gaza?
Sì e no. Sì, perché è possibile leggere quel che è accaduto e sta accadendo, come una reazione all’incontro di pace tra Abu Mazen e Shimon Peres dello scorso 8 giugno a Roma, mèntore Papa Francesco. Appena si muove qualcosa in direzione di una normalizzazione dei rapporti israelo-palestinesi, il mostro riappare improvviso con la sua logica di guerra continua e totale. Ma si può rispondere anche ‘no’, perché al Governo di Israele  non c’è un Rabin, e nel Paese non si leva alcuna forte voce di dissenso contro la guerra in atto: Shimon Peres tace, Netanyahu non ha opposizioni, e questo 'sembra' indicare che tutto il popolo ebraico è d’accordo con i massacri in atto. Stragi nate da un curioso rapporto matematico: 3 ragazzi ebrei uccisi  -peraltro, ormai è accertato, non per mano di Hamas- contro 1.000 palestinesi, compresi tantissimi bambini, ragazzini innocenti che giocavano a calcio sulla spiaggia. È una logica di razza quella che emerge da questa ennesima invasione, qualcosa di assolutamente intollerabile.

Ci spiega cosa intende con 'logica di razza'? In fondo, ebrei e arabi sono entrambi semiti, in quanto parlano lingue derivanti dal ceppo linguistico semita. Perciò i due popoli sono più vicini di quanto possa apparire …
È una logica che risponde a due principi: il primo è che per la legge ebraica -l’Halakhà- è ebreo, quale che sia la sua ideologia o addirittura religione, chi discende da madre ebrea. Si possono trovare contraddizioni in questa narrazione      -la discendenza abramitica per via materna, anche se per il tramite di Sara e non di Agar; o l’assurdità di pretendere una continuità razziale per le generazioni succedutesi in tre millenni, senza contaminazioni e meticciamenti sia pure ‘casuali’-    ma questa è l’ideologia che sorregge l’ultranazionalismo ebraico.  Un nazionalismo che aborre ogni contaminazione, ogni tipo di integrazione e di coinvolgimento dell’ 'altro': non a caso la parola 'ebreo' accomuna sia l’identità religiosa che quella nazionale e nella storia dell’ebraismo le conversioni sono una eccezione rara, dettate non da un sentimento universalista, ma da esigenze economiche o di autodifesa e promozione della comunità di appartenenza. L’identità ebraica così concepita non si distingue -nella sostanza- da quella tedesca disegnata da Herder nell’800 e ripresa da Hitler: il ‘sangue’ come fattore discriminante. Ed ecco il secondo principio: il fattore genetico come base dell’identità nazionale non solo distingue, ma diventa anche  il vettore della presunta ‘superiorità’ della ‘razza ebraica’ su tutti gli altri popoli del mondo. In termini religiosi, il 'Popolo eletto' che mai ha accettato di condividere il suo dio con i Gentili; in termini geopolitici, l’espansionismo sionista.

Quanto c’entra l’economia, anzi, da quando il fatto economico e geopolitico hanno cominciato a pesare più di un sentimento di vicinanza?
Mi sono fatto l’idea che nel caso del sionismo e di Israele il fattore economico sia più di natura finanziaria che produttiva, più banche che petrolio; ed inoltre che esiste una molla anche religiosa nell’espansionismo e nella finanza del sionismo. È vero che il sostegno allo 'JudenStaat' (NdR: è il titolo di un saggio di Theodor Herzl, il fondatore del sionismo, e risale al 1896) garantito dai grandi banchieri ebrei già alla fine dell’Ottocento può essere interpretato alla luce della necessità storica delle minoranze ebraiche europee di avere nella 'Terra promessa' una sorta di ‘santuario’, di retrovia sicuro contro le discriminazioni in Occidente (vere o presunte): un principio e una pratica che ancor oggi sopravvive con il doppio passaporto per molti ebrei della diaspora, compresi quelli perseguiti dalle leggi degli Stati ‘gojm’: vedi quell’hacker ebreo-americano accusato di incursioni nel sito della NASA, o certi finanzieri russo-israeliani dopo l’ascesa di Vladimir Putin. Questo è possibile, ma è anche vero che il tunnel scavato da Sharon sotto la spianata delle Moschee di Gerusalemme non ha nulla a che vedere con la logica del profitto e con criteri economici. Ricorda piuttosto quel che scriveva Marx del banchiere Pereire, 'profeta e ciarlatano', o quello 'zelo religioso' di cui parlava Baruch Spinoza a proposito del totalizzante ‘amor patrio’ degli Ebrei del suo tempo. Uno zelo che oggi porta gli israeliani a negare il fatto storico della sovrapposizione plurimillenaria in terra di Palestina di più culture e civiltà, e in particolare di tutte e tre le religioni del Libro, non solo il Giudaismo ma anche il Cristianesimo e l’Islam. Il dramma nel dramma di Gerusalemme nasce da qui.

Una minoranza cristiana, e due altre presenze maggioritarie, musulmana e ebraica. Ma lo Stato è uno solo, quello di Israele, perché la Palestina non  è uno Stato riconosciuto in senso giuridico. Ma allora che cosa è esattamente, cioè giuridicamente, la Striscia di Gaza, e come si definisce, geopoliticamente? E l'assenza di uno Stato riconosciuto a livello internazionale è un requisito formale capace di impedire alla comunità internazionale di intervenire?
Non esistono motivi giuridici perché la comunità internazionale non possa, anzi non debba intervenire. Israele è lo Stato che ha più violato il diritto internazionale da quando è nato ad oggi: diciamo pure, non l’ha mai rispettato, sono centinaia le risoluzioni ONU disattese dalla leadership sionista. E la violazione continua in queste settimane, con l’invasione di un territorio che comunque -quale che sia lo status giuridico di Gaza- è segnato da confini, e dunque non è suo. Israele è perciò in questo momento più che mai, non solo una potenza occupante, ma una potenza genocida, che sta uccidendo centinaia e centinaia di civili, da cui la necessità di un intervento internazionale: una forza di interposizione ONU lungo il confine con Gaza, e una no-fly zone almeno sulla Striscia. Da qualsiasi punto di vista giuridico-internazionalista si voglia leggere l’attacco in corso, l’ONU ha il diritto-dovere di intervenire: la violazione dell’art. 2 della Carta di San Francisco c’è («3. I Membri devono risolvere le loro controversie internazionali con mezzi pacifici ….  4. I Membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o  dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di  qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite».). Ma anche adagiandosi sulle ambiguità del nuovo diritto internazionale postbipolare     -una serie di nuovi istituti giuridici che ledono il principio cardine della sovranità e integrità degli Stati che formalmente hanno retto i rapporti  internazionali dal 1945 fino al dissolvimento del blocco sovietico-      esistono motivazioni fortissime perché Ban Ki-moo e il Consiglio di Sicurezza si muovano in questa direzione.  Prendiamo la cosiddetta R2P, la 'responsabilità di proteggere i civili', di cui alcuni autori   -cito il belga Jean Bricmont e in Italia il magistrato Luca Baiada, autore di un eccellente saggio sull’argomento su Jura Gentium-   hanno denunciato a ragione la funzione di supporto all’oltranzismo e all’espansionismo occidentale in tutte le crisi dell’ultimo quarto di secolo: ebbene, questo principio sbagliato, che adesso venga applicato contro gli arbitrii del principale Paese che ne ha beneficiato negli ultimi decenni, Israele. Sono ormai mille i morti a Gaza: donne vecchi, bambini. Questo orrore va fermato, via libera dunque alla R2P contro Israele. È scandaloso che il Papa taccia su questo punto, e parli genericamente di pace, dopo aver subito l’affronto alla sua iniziativa diplomatica, l’incontro dell’8 giugno a Roma. Il Papa e il Vaticano, che in nome del solito buonismo cattolico hanno elogiato ripetutamente -vedi ancora il saggio di Baiada- la cosiddetta 'Responsabilità di proteggere i civili', apparentemente senza rendersi conto di quanto questo principio fosse funzionale alle guerre contro i Paesi sovrani extraeuropei, dovrebbero levare la loro protesta e invocare un intervento immediato della comunità internazionale contro Israele.

Dunque siamo al nodo del rapporto tra Israele e comunità internazionale: non c’è solo il Vaticano, ma anche gli Stati Uniti, la Russia, l’Europa. Come è possibile che Israele possa opporsi a così tante superpotenze mondiali? Perché nessuno reagisce secondo misura?
Le risposte possono essere tante, ma una le comprende tutte. Come ho scritto anche in occasione della guerra del Libano, il sionismo non riguarda solo i Palestinesi, le sue vittime principali, in prima linea. Né solo i Paesi del vicino e medio Oriente. Il sionismo è un fenomeno globale, in senso sia geografico che funzionale. Le lobbies di cui al libro di Walt e Meirsheimer per quel che attiene agli Stati Uniti, sono un anello fondamentale di questa catena, ma non il solo. È un discorso ampio e che va approfondito.