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Gyula Illyés amava l’Europa perché amava la ricchezza delle «piccole patrie»

di Francesco Lamendola - 30/07/2014

Fonte: Arianna editrice


 


 

«Se qualcuno mi chiedesse che cos’è la civiltà europea, risponderei: scambio», affermava il grande scrittore ungherese Gyula Illyés (1902-1983), una delle voci più nitide e alte del panorama letterario europeo novecentesco.

Ora, è impossibile comprendere veramente il pensiero di Illyés sull’Europa se non lo si inserisce nel contesto della cultura dominante nel suo Paese, e non solo, dopo il 1945: ossia una cultura di forte ascendenza marxista, nella quale l’idea delle “piccole patrie” non è che ciarpame reazionario, perché tutto quello che conta è la lotta di classe, la divisone fondamentale e irriducibile fra lavoratori sfruttati e capitalisti sfruttatori; schematizzazione che, pur nella sua estrema rozzezza e nella sua assoluta incapacità di rendere conto di tutta una serie di problematiche storiche, sociali e culturali, nondimeno era presa per buona dalla maggior parte degli intellettuali, sotto il ricatto permanente di venire sospettati di “deviazionismo piccolo borghese”. Al massimo, gli intellettuali più coraggiosi elaboravano qualche versione un po’ riveduta e aggiornata dei vecchi dogmi marxisti duri e puri; e questi timidi riformatori, da Gramsci a Lukács, esponenti di un marxismo non dogmatico e “umanistico”, passavano già per dei leoni, mentre chi si spingeva appena un po’ oltre, come Pasolini - che volle coniugare «Il Capitale» con il Vangelo -, inesorabilmente scivolava nella categoria degli eretici e dei reprobi.

Sempre Pasolini, in quanto legatissimo all’infanzia e alla madre friulana, aveva una particolare sensibilità per il tema delle piccole patrie; alcune delle sue poesie più belle, come la struggente «Ciant da li ciampanis», sono in lingua (non dialetto!) friulana; e in friulano scrisse anche un pezzo teatrale drammatico di argomento storico, «I Turcs tal Friul». Ma ben pochi altri intellettuali osavano indulgere a queste forme di “romanticismo decadente” – salvo, beninteso, che si trattasse di scrittori d’impronta meridionalista, perché allora il loro discorso veniva automaticamente nobilitato dalla lettura in chiave di denuncia sociale che si poteva fare delle loro opere. Cesare Pavese, per aver indugiato un po’ troppo sulle colline e sui miti arcaici e rurali delle “sue” Langhe, già veniva guardato con sospetto e quasi denunciato per delitto di leso neo-realismo e di tradimento nei confronti dell’ideologia progressista, la quale non poteva essere (come Marx aveva insegnato) se non urbana, industriale e, possibilmente, cosmopolita.

Nel resto d’Europa le cose andavano suppergiù nello stesso modo, almeno fino a che l’egemonia cultura marxista non andò in crisi e da ultimo cadde rovinosamente, insieme al Muro di Berlino, nel novembre 1989. Ma per tutti gli anni della Guerra Fredda e fino alla stagione degli anni Sessanta e Settanta, parlare delle “piccole patrie” era ancora difficile: la Bretagna, la Corsica, i Paesi Baschi, il Galles, la Sardegna, il Friuli, erano argomenti scomodi. Gli intellettuali progressisti temevano che, dietro la rivendicazione di una restaurazione linguistica e culturale, potessero trovare spazio ulteriori rivendicazioni, di tipo nazionalistico, che avrebbero rappresentato, dal loro punto di vista, un regresso verso forme politiche superate, tipiche della vecchia società classista. Si citava spesso (beata ingenuità!; o forse qualcosa di peggio?) la Repubblica Popolare Federativa di Jugoslavia, come esempio riuscito e ammirevole di ”superamento” dei micro-nazionalismi per merito di una impostazione socialista lungimirante e di ampio respiro; gli intellettuali italiani di sinistra, poi, si infastidivano se qualche scrittore, come Enzo Bettiza, osava ricordare il dramma degli Italiani espulsi dalla Venezia Giulia, da Fiume e dalla Dalmazia o come la piccola minoranza italiana superstite veniva tuttora tratta nel Paradiso di Iosip Broz, detto Tito. Erano infastiditi perché si sentivano come degli adulti che, mentre stanno andando in estasi ascoltando un concerto di musica classica, vengono tirati per la giacca da uno sciocco bambino che vuole le caramelle o che chiede insistentemente di essere accompagnato al bagno: loro stavano volando alto, stavano sognando il futuro e la risoluzione di tutti i problemi del genere umano; e quei seccatori li riportavano nell’atmosfera chiusa e opprimente delle piccole beghe quotidiane, delle insignificanti e anacronistiche  pretese di gruppi minoritari o addirittura di singoli individui. Eh, che cattivo gusto; che mancanza di delicatezza!

Ma le piccole patrie non erano e non sono solamente alcune regioni storiche poste all’interno dei grandi Stati nazionali europei; erano anche, o stavano per diventarlo, le nazioni “minori” della Mitteleuropa, che un tempo avevano trovato spazio e voce, bene o male, nel mosaico dell’Impero austro-ungarico e, in misura minore, in quello germanico e in quello russo. Ora, però, mano a mano che procedeva implacabile il rullo compressore della “globalizzazione” (anche se nessuno, ancora, negli ultimi decenni del Novecento, adoperava questo termine, e pochi avevano intuito la portata del fenomeno stesso), una nazione di poco più di due milioni d’anime, come la slovena, o di circa cinque, come la croata, o anche di dieci milioni scarsi, come la magiara, non poteva che risultare piccola cosa rispetto ai grandi numeri dell’economia e della politica delle multinazionali e dei grandi Stati che dominavano, e sempre più dominano, il mondo. Infatti, cosa possono rappresentare dieci milioni di persone che parlano la lingua ungherese, a fronte di 110 milioni di persone che parlano il tedesco, 120 milioni che parlano il francese, 160 milioni che parlano il russo, circa 350 che parlano l’inglese (come lingua madre), 360 che parlano il portoghese, 450 che parlano lo spagnolo; per non parlare dell’arabo, del giapponese, del cinese? Che cosa rappresentano le 320.000 persone che parlano la lingua islandese; i poco più di cinque milioni che parlano il danese; i ventiquattro che parlano rumeno? E che cosa rappresentano le tradizioni, gli usi, i valori, che quelle lingue esprimo? Che cosa, le visioni del mondo che sono maturate, nel corso dei secoli e dei millenni, servendosi di quelle parlate?

La stessa lingua italiana, parlata da poco più di sessanta milioni di persone (sempre come lingua madre), la gran maggioranza delle quali vivono entro i confini della Repubblica italiana, che prospettive, che speranze ha di sopravvivere, di conservarsi, di tramandarsi; e, con essa, che speranza di sopravvivenza hanno le tradizioni, gli usi, i valori e la visione del mondo, propria del popolo italiano? Negli anni Sessanta e Settanta del Novecento in pochi lo avevano compreso, perché pochi – incredibile a dirsi – avevano compreso la reale portata del fenomeno della globalizzazione, e meno che meno lo aveva intuito la cultura egemone, quella marxista, in tutt’altre speculazioni affaccendata: ma il fatto è che la stessa lingua italiana, la lingua della «Divina commedia» e de «I promessi sposi», era, ed è, minacciata di estinzione. Corrosa dall’interno, mediante l’infiltrazione rapidissima di parole e costrutti stranieri, e schiacciata dall’esterno, dalla pressione dei mercati e dalla tecnologia, che richiedono una buona padronanza dell’inglese - mentre a nessuno, tranne ai vecchi professori, interessa più che si parli e si scriva in buon italiano -, anch’essa sta diventando una “piccola lingua”, e anche l’Italia sta per entrare nel novero della “piccole patrie”; pur se, in apparenza, l’Italia resta pur sempre uno dei maggiori Stati europei. Ma l’Europa tutta è diventata piccola, sempre più piccola: si è raggrinzita, disastrosamente, nel 1919; di nuovo, nel 1945; ora è diventata l’ombra di se stessa, e il continuo ampliamento dell’Unione Europea non la sta facendo diventare più grande, semmai la sta indebolendo e snaturando; processo che giungerà al culmine quando entreranno a farvi parte la Turchia e perfino Israele.

Gyula Illyés è stato uno dei non molti scrittori europei i quali, dopo la seconda guerra mondiale, si sono interrogati sul destino delle piccole patrie, considerandolo giustamente come legato in maniera indissolubile al destino dell’Europa stessa, al senso della civiltà europea, alle sue possibilità di sopravvivenza, di poter dare ancora un contributo alla civiltà mondiale; così come lo ha dato, prodigiosamente – e non è stato solo un cumulo di crimini e vergogne da cancellare e da dimenticare, tutt’altro! – lungo l’intero corso della sua storia, da quando essa è nata, lentamente e faticosamente, sulle ceneri dell’Impero romano, dall’incontro della civiltà latina e cristiana con i popoli germanici e, in seguito, slavi, che migravano incessantemente da Oriente a Occidente e da Settentrione a Mezzogiorno, nei secoli dell’Alto Medioevo.

Gli ultimi a migrare, e a stabilirsi nel cuore dell’Europa, furono gli Ungheresi, che non erano né di ceppo germanico, né di ceppo slavo, ma asiatici, di ceppo linguistico ugrico (della grande famiglia uralo-altaica), i quali, partendo dalle loro sedi originarie nella zona dei Monti Urali, finirono per irrompere nella pianura del Danubio e del Tibisco nell’896, sotto la guida del loro re Árpad, condottiero di sette tribù. Per più di mezzo secolo gli Ungari furono il terrore dell’Europa e seminarono rovine fumanti ovunque scorrazzavano coi loro cavalli, distruggendo città e fiorenti monasteri (tanto che le regioni da loro attraversate, nel Veneto e nel Friuli, presero il none di “Vastata Hungarorum”); poi, sconfitti nella battaglia di Lechfeld da Ottone il Grande, nel 955, divennero sedentari e si convertirono al cristianesimo grazie agli sforzi del papa Silvestro II, al principio del secondo millennio, diventando a loro volta, come già altri popoli nomadi prima di loro, strenui difensori di quel continente che avevano invaso e di quella civiltà che erano sembrati sul punto di mettere seriamente in pericolo.

La lingua magiara è una lingua aspra, forte, aggressiva: secondo Émile Cioran, una lingua fatta per il ruggito e per la battaglia; in quella lingua Illyés, scrittore di estrazione contadina, ben presto conquistato al marxismo (aveva partecipato, giovanissimo, alla breve e drammatica stagione della rivoluzione di Béla Kún e dovette poi rifugiarsi a Parigi per diversi anni), ha saputo modulare un canto vigoroso, servendosi della metrica moderna, mostrando una eccezionale padronanza stilistica e rifacendosi, nei contenuti, alla grande tradizione di Petöfi e di Arany, pur imprimendo alla sua poetica una marcata valenza sociale. Ma il marxismo di Illyés, come vedremo, non fu ottusa e pedissequa introiezione di schemi preconfezionati, se è vero che molti dei suoi connazionali continuarono a vedere in lui una guida e un riferimento civile e morale di prim’ordine, anche dopo la tragica repressione, da parte dall’Armata Rossa, dell’insurrezione del 1956, vera data spartiacque nella storia ungherese del XX secolo.

Nel suo percorso letterario è soprattutto la prima stagione poetica, quella in cui appare più esplicito il suo europeismo: indirizzo quasi obbligato, vista l’influenza che ebbero, nella sua formazione, i simbolisti francesi, specialmente Verlaine e Rimbaud, e vista la sua giovanile collaborazione, dopo il ritorno dalla Francia, nel 1926, a quella rivista «Nyugat» («Occidente»), il cui nome era tutto un programma. A partire dal 1935 egli divenne il principale esponente della corrente populista, cosa che è stata interpretata dai critici come un “ripiegamento” su una sorta di tormentato nazionalismo contadino, rispetto alle aperture europee della giovinezza. Eppure si tratta, probabilmente, di una lettura assai riduttiva della sua ricerca e della sua riflessione, che si articolano in una mole notevole non solo di raccolte poetiche, come «Tutte le poesie» (1940), «Poesie nuove» (1961) e «La vela inclinata» (1965), ma anche di saggi, come «Petöfi» (1936), e romanzi, fra i quali ricordiamo almeno «I Magiari» (1936), «Unni a Parigi» (1944) e «Pranzo al castello» (1962).

Il pericolo è sempre lo stesso, per Pasolini come per Illyés, per Pound come per Hamsun: quello di voler leggere e interpretare l’itinerario verso la verità di scrittori che, pur con posizioni fra loro diversissime, hanno cercato di reagire al grande ricatto dello “scontro di civiltà” fra Europa e mondo, fra tradizione e modernità, fra progresso e tradizione, andando alla ricerca di nuove certezze, tentando di fondare nuovi valori o, almeno, nuove maniere di vivere e di testimoniare i valori preesistenti, senza adagiarsi nel comodo solco del conformismo culturale, di destra o di sinistra. Ed è un pericolo dal quale non vanno esenti che pochi critici e pochi storici della letteratura, dato che anche molti di essi portano i paraocchi ideologici della cultura dominante e, quel che è peggio, nella gran maggioranza dei casi non lo sanno e neppure lo sospettano, credendosi anzi, in virtù di non si sa quale specialissimo privilegio, del tutto immuni dalle deformazioni e dalle errate interpretazioni cui sono soggetti, invece, i comuni mortali e gli stessi scrittori che essi passano al vaglio della loro ineffabile perizia filologica.

Gyula Illyés, dunque, sentiva con forza le tematiche legate all’identità europea e all’anima dell’Europa. E le sentiva in maniera scevra da qualunque retorica: le sentiva come necessità di una riflessione sul destino di quella identità, che è poi, anche, il destino di quella civiltà. Come potrebbe darsi ancora una civiltà europea, in una Europa ridotta a un deserto anonimo, caratterizzato da una cultura omologante e sterilizzata?

Questo tratto della sua personalità poetica è stato considerato da un altro notevole scrittore magiaro contemporaneo, Miklós Hubay, noto in Italia soprattutto come drammaturgo, nel suo saggio «Sullo scrittore dei “puri”» (nella prefazione a: Gyula Illyés, «Europa», traduzione dall’ungherese di Sauro Albisani, Venezia, Marsilio Editori, 1986, pp. 12-14):

 

«Nella poesia di Illyés, soprattutto l’ultima, domina il pensiero della salvaguardia delle culture autoctone, minacciate dall’estinzione. Se è vero che questa preoccupazione trova sempre più eco nel linguaggio politico e giornalistico, potrà destare grande interesse la sua espressione poetica.  Ha ragione Sant’Ambrogio: la verità troppo spesso ripetuta si corrompe, e il cibo più nutriente diventa veleno. E dunque, ove siano poeti sinceri, a loro dobbiamo rivolgerci, alle loro immagini attingere, poiché in esse la verità si mantiene intatta. Monito metaforico a seguire le bussole avute in sorte dalla natura, come tale possiamo leggere, ad esempio, la poesia intitolata Diario di carovana ritrovato. Simili reliquie sbucano a volte nelle sabbie del deserto  fra ossa di cammelli e resti umani: la poesia allude ad un’umanità traviata dal suo egoismo suicida:

“Un tempo antico di secoli / sta agonizzando qui. // Non può dire più niente. // E il grido è soltanto del vento. // Tra le palpebre sabbia, tra le dita sudate sabbia. // Sabbia se i denti si rinserrano. // Abbiamo ucciso il cammello che sapeva la strada, / divorato l’ultimo pasto.” (trad. di U. Albini)

Torna in mente, per contrasto, l’immagine di un’altra carovana di cui si narra in una poesia qui raccolta: “Árpad”. Il poeta descrive l’ingresso dei Magiari in Europa dal varco dei Carpazi. Se il paesaggio è, viceversa, roccioso e invernale, la morte s’annida anche qui nei calcagni dei marciatori. L’ora della decisione: avanti o indietro. Nell’un caso, il rischio di perdere la libertà; nell’altro, quello di perdere l’identità. La genesi di un’idea sovrana, l’idea della libertà, in un cuore, prima ancora che in un cervello, non europeo: ed ecco la scelta cadere sull’Europa, per i prossimi due-tremila anni.

“Pensare, era il suo compito: al futuro! / Che cosa mai vedeva se d’un tratto / lui socchiudeva i suoi occhi di gatto / selvaggio, cosa! Del tempo venturo? / Se stiamo qui, pensa, furente, quelli / che vogliono tornare fin laggiù / torneranno, in eterna schiavitù, / ché tremendo è servire i tuoi fratelli. // Se proseguiamo il cammino adesso, / che sarà questa razza senza nome /tra sconosciuti? Una generazione / che si sente estranea anche a se stessa?/ […] Almeno – ma non parla! –in prigione / non saremo – codesto gli balena / in fondo al cuore all’improvviso prima / che nella mente […]”.

Un’ora fatidica anteriore di 1.100 anni. Perché così viva nella memoria di Ilyés, ovunque egli vada in Europa? Europa-Eros? Uno stuolo di uomini sbandati attraversa le montagne: a loro la terra europea promette anche donne. Un Illyés, dunque, che guarda l’Europa con occhi virili o, secondo la mitologia mediterranea, con gli occhi di Zeus. Ciò, del resto, è detto esplicitamente in un’altra poesia, intitolata proprio “Ode all’Europa”: “Spirito maschio che vagabondando / seducesti nazioni vergini”. Europa non è soltanto la vergine conquistata, ma anche il toro: ovvero, la nostra cultura l’amore di entrambi.

Oggi il poeta scopre nel cervello di questo “spirito maschio” vene sclerotiche (cfr. “Come sangue nelle vene”). Europa che deve essere salvata!”Anche la mente, già paralizzata? / Potessi io, atomo, sorvolare / con i sogni potenti il suo cervello!”. La poesia sembra inserirsi nella tradizione della lirica patriottica ungherese: sennonché per Illyés adesso la patria è l’Europa. Si riconosce l’energia poetica elle odi oraziane: “Su, calde membra, corpo conosciuto! / Per un gesto che sfidi il cielo, in piedi, / civiltà bianca!”. È il leit-motiv della pietra che consente a Illyés di esprimere il concetto di Europa come patria edenica: la pietra si erge sempre come limite che costringe ad una effrazione oltre la quale è il premio, quello che attende Árpad dietro i Carpazi, e Michelangelo dietro il blocco di marmo.

Paul Valéry, nel suo saggio classico, dà uno sguardo all’Europa dalla terrazza di Elsinore, con Amleto. Altrettanto legittimamente possiamo evocare, all’opposto, la figura auto-distruttrice del re Lear: cosa si vede dalla sua palude, nella tempesta? La sua schizofrenia è molto “europea”. “La sventura della nostra epoca – dice Shakespeare – è che il matto guida il cieco”. Di fronte a questa minaccia, Illyés sente il bisogno di testimoniare i diritti delle culture in via d’estinzione. Pasolini, nel suo “Diario linguistico” (1965) considera il problema dei dialetti e delle piccole lingue nazionali, anche quelle dell’Europa centrale, in un contesto socialista “come problemi nuovi, non come problemi vecchi”. Dopo il 1945, Illyés si rivolge a questi problemi nuovi. In “Ultima dimora”, egli racconta un suo ritorno onirico in un paesino basco, come se si trattasse del ritorno alla sua terra natia: il poeta scrive simili messaggi, cifrati o aperti, ai catalani, ai baschi, quando le loro lingue sotto il regime di Franco erano perseguitate. Forse è nel suo dramma “I Puri” che Illyés si è lasciato più che mai risucchiare nell’imo della Storia dal vortice provocato dalla sparizione di un popolo: egli ha indagato proprio la sparizione d una comunità che portò nel nome stesso il segno di quell’aspirazione alla purezza che oggi si manifesta nell’umanità posta davanti alla fine del millennio.»

 

Come si vede, sono riflessioni più che mai attuali: oggi ancora più di quanto non lo fossero negli anni in cui Gyula Illyés svolgeva le sue riflessioni e alzava la sua voce poetica per mettere in guardia contro il mortale pericolo dell’appiattimento, della uniformità incolore, della sterilizzazione delle lingue, delle tradizioni, dei valori dei popoli europei.

L’idea dell’Europa è quella di una grande fucina, ma anche di un arazzo intessuto per mezzo di innumerevoli fili, ciascuno dei quali è importante, ciascuno dei quali contribuisce a donare varietà, ricchezza e bellezza a tutto l’insieme.

È questa, al contrario, l’Europa che non vorremmo mai vedere, ma che, purtroppo, sta avanzando a grandi passi: una Europa dimentica delle proprie radici, delle proprie identità, delle proprie diversità; un’Europa castrata, inaridita, lobotomizzata in nome del nuovo, grande ricatto inventato dal XXI secolo: che non si può essere aperti al futuro se non si rinnega il passato, se non lo si maledice, se non si abiura la tradizione in nome di un progresso senz’anima, che discende, in ultima analisi, direttamente dalle logiche del mercato e del profitto.