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Uomini e donne non si nasce, si diventa

di Francesco Lamendola - 01/08/2014

Fonte: Arianna editrice


 


 

La pianta e l’animale nascono già quello che sono: il castagno rimarrà sempre un castagno, il cane rimarrà sempre un cane; non possono diventare altro da quello che sono, dunque non possono mancare il loro destino, non possono tradire il suo compimento, perché il loro destino è inscritto, fin dall’inizio, nel loro preciso statuto ontologico.

L’uomo, invece, non nasce con una natura determinata, ma indeterminata: può diventare se stesso, realizzando il massimo della libertà esistente nella dimensione terrena; oppure, semplicemente, può mancare la propria vocazione, può rimanere al di sotto del proprio destino e del proprio statuto ontologico: una creatura irrisolta, mutila, fallimentare.

L’uomo possiede questa responsabilità e questo privilegio: lui solo può scegliere, lui solo può dire di sì al proprio compimento; e può dire di sì perché gli è data anche la facoltà di dire di no. Egli è libero: può fare di sé quello che vuole; può raggiungere le vette sublimi della spiritualità, oltrepassando la comune condizione umana, come può sprofondare e avvoltolarsi nel fango della propria istintualità primordiale, regredendo allo stato sub-umano. Creatura bifronte, l’uomo può spingersi o ritrarsi al di là o al di qua del suo dato iniziale e provvisorio: tiene il proprio destino nelle sue mani, può fare di se stesso quello che vuole.

Creatura in cammino, dunque viandante per eccellenza, l’uomo è spinto a percorre una strada, cercando di tracciarla con i propri passi, laddove le altre creature seguono la pista già battuta da altri, seguendo l’istinto; creatura più complessa, più delicata, più problematica, l’uomo deve cercare il proprio equilibrio, perché esso non gli viene dato già bello e pronto: deve fare di se stesso quello che sa e quello che può.

Lo strumento per realizzarsi pienamente, dando piena risposta alla sollecitazione dell’essere, è la parola: l’uomo è la creatura caratterizzata dalla parola. Anche le piante e gli animali possiedono delle forme di linguaggio, fatte di colori, odori, suoni, atteggiamenti, posizioni; ma la parola non è un linguaggio, è IL linguaggio. Solo con la parola si possono esprimere le più riposte sfumature di significato, solo con la parola si possono trasmettere pensieri ed emozioni anche a coloro che non conosceremo mai personalmente, rendendo possibile quell’accumulo di esperienza individuale che consente il progresso dell’intera specie.

Il silenzio, per l’uomo, è una libera scelta, un’altra maniera di comunicare: resa possibile, appunto, dall’esistenza della parola. Colui che può parlare, può scegliere di comunicare anche attraverso il silenzio, così come attraverso il silenzio può mettersi in ascolto, cogliendo le voci più intime della realtà. Il silenzio rappresenta una ulteriore e più sottile possibilità di parlare e di ascoltare, data dal fatto che la parola è l’espressione ordinaria dei pensieri e dei sentimenti. Per questo il silenzio è così pregnante fra due esseri umani: è una parola fatta di non-parola, di oltre-parola, di super-parola. Chi tace non ha più bisogno di parlare, a patto che il suo silenzio sia qualcosa di diverso dalla pura indifferenza; ed è grazie ad esso che la parola riceve tanta solennità, così come la luce riceve splendore dal buio. La prova di ciò è data dal fatto che l’uomo di poche parole, quando parla, soppesa quel che sta dicendo e induce gli altri ad ascoltarlo con viva attenzione.

L’uomo di parola, pertanto, è colui che prende la parola estremamente sul serio; colui mantiene fedeltà agli impegni presi, che rimane attaccato a quanto ha promesso. Noi sentiamo che dell’uomo di parola ci possiamo fidare, perché la sua parola è carica di significato: se ha detto una cosa, allora è quella; se ha garantito una certa azione, allora possiamo stare sicuri che la farà. Non ci fidiamo del chiacchierone, il quale butta le parole al vento e si riempie la bocca di vane promesse; ma siamo pronti a consegnarci interamente all’uomo di parola, perché sappiamo che la nostra fiducia non rimarrà tradita. La vita sociale è resa possibile da questa fedeltà alla parola: se non vi fossero uomini di parola, regnerebbero incontrastati la sfiducia e il disordine.

D’altra parte la parola, per il fatto stesso di essere espressione della libera volontà, e quindi attributo specifico dell’uomo, è un grande mistero: non sempre si rivela e si conferma per quello che sembrava; la parola può essere anche ingannevole, insidiosa, malefica. La parola veritiera, la parola buona, la parola che promuove la vita, deve farsi strada in mezzo alle sue contraffazioni, deve aprirsi un varco nel folto dei rovi e delle spine; a noi sta la capacità di saperla riconoscere e, soprattutto, di volerla accogliere.

Non basta riconoscere la parola veritiera, infatti; bisogna anche accoglierla: senza tale accoglienza, la parola di verità ci scivola addosso e passa oltre, lasciandoci indietro, uguali a ciò che eravamo prima; mentre, se essa viene accolta, opera una vera trasformazione. Colui che è stato toccato da una parola di verità non sarà mai più quello di prima, non potrà mai più fare finta di nulla e ritornare al suo vecchio Io.

Afferma in proposito il filosofo Pierpaolo Baini nel suo intervento «Ascolto, parola, fiducia. Diventare umani nel segno della “fede”» (in: A.A.V.V., «Ho creduto, perciò ho parlato. Atti  della 10a settimana nazionale di Formazione e spiritualità missionaria, Loreto, 26-31 agosto 2012», Roma, Missio, 2013, pp. 18-21):

 

«[…] UOMINI E DONNE SI DIVENTA. Uomini e donne NON SI NASCE.  Ed è chiaro che intendo qui non l’appartenenza ad un genere o alla specie umana, ma la sua realizzazione piena. L’appartenenza alla specie è qualcosa di cui godiamo in forza della genetica, del DNA che identifica la nostra specie e che definisce la compatibilità sessuale intraspecifica, quella compatibilità che è presupposto imprescindibile del nostro concepimento e della nostra nascita, a prescindere dal fatto che coloro che ci hanno concepiti si amassero o ci amassero (e potremmo discutere dell’atto sessuale come atto comunicativo  in cui sono in gioco PAROLE e FIDUCIA/AFFIDABILITÀ). Se siamo al mondo però, è perché c’è stata una parola accogliente, una decisione per la vita e non per la morte, una scommessa  sul futuro senza eludere il passato, a prescindere dal fatto che i genitori biologici abbiano deciso di garantire o meno la propria presenza al fianco del nascituro., accettando o rinunciando ad essere “affidabili”. Anche questo è un ambito in cui si vive di fiducia,  di fiducia reciproca: “atti di fede” quotidiana che altrettanto sistematicamente ignoriamo, che passano inosservato. Quanta fiducia è altresì in gioco nei rapporti genitori-figli.

Sin dalla nascita ciò che siamo e il fatto stesso che siamo, non dipendono da noi. Invece, DIVENTARE uomini, DIVENTARE donne, pro-vocala nostra responsabilità: come rispondiamo alla chiamata ad esistere, la prima VOCATIO di cui facciamo esperienza? L’esistenza ci chiama: come rispondiamo a questa chiamata che la vita rappresenta?  Ciascun maschio della nostra specie deve scegliere, decidere di diventare uomo e magari “uomo di parola”. Ciascuna femmina della nostra specie deve scegliere, decidere  di diventare donna e magari “donna di parola”. È forse così che inizia il dramma dell’esistere. Alla PROVOCATIO che l’esistenza ci rivolge dobbiamo cor-rispondere. Sull’impegno che questo diventare uomini e donne postula, c’è un’intera letteratura, , ma permettetemi di recuperare almeno una prospettiva filosofica, perché c’è qualcosa di profondamente divino nella DECISIONE di diventare uomini e donne, qualcosa di filosoficamente divino. Pico della Mirandola (1463-1494) raggiunge il vertice nella descrizione del processo di umanizzazione dell’uomo in quelle pagine tremendamente belle e irritanti per l’uomo d’oggi, consegnateci nel “Discorso sulla dignità dell’uomo”. Non accontentandosi della allora per lui già inflazionata e scarsamente convincente descrizione dell’uomo come MICROCOSMO e COPULA MUNDI (definizioni che di per sé farebbero impallidire la stragrande maggioranza degli esemplari della nostra specie), Pico della Mirandola fece un altro passo oltre l’idea dell’HOMO FABER FORTUNAE SUAE, dell’uomo artefice del proprio destino nella vita che gli è data da vivere. Pico non si accontentò di registrar che nel mutato contesto storico, sociale ed economico, l’uomo poteva rivendicare la propria soggettività nel decidere che cosa fare NELLA vita: ad esempio fare il mercante piuttosto che il contadino, sottraendosi così ai capricci del tempo atmosferico, quando poteva solo affidarsi ala preghiera per invocare un buon raccolto, supplicando Dio quale unico arbitro della propria sorte. Pico introduce la prospettiva dell’HOMO FABER SUI, dell’uomo artefice di se stesso. Artefice  su un piano che dovremmo definire ontologico o, forse – arrischiando la parola – deontologico, dove l’eco del dover essere è meglio percepibile (ma non in senso assiomatico). Per spiegare la dignità dell’uomo, Pico torna a leggere il racconto genesiaco in termini sorprendenti.  Dio, dopo aver portato a termine la creazione di tutte le specie, decise di creare l’uomo, ma ebbe un attimo di incertezza,  un’esitazione, perché non poteva più ispirarsi a nulla. Dio non aveva nulla a cui ispirarsi che non avesse già utilizzato per dar vita alle precedenti creature, nulla di originale e specifico. Dio decise allora di creare l’uomo “dandogli tutto ciò che singolarmente aveva assegnato agli altri” (ecco l’idea dell’uomo come microcosmo) e lo creò quindi “di natura indefinita”, spiegandogli la propria scelta con queste parole che Pico attribuisce a Dio: “Non ti ho dato Adamo, né un posto determinato, né un aspetto tuo proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quel posto, quell’aspetto, quelle prerogative che tu desidererai, tutto appunto,  secondo il tuo voto e il tuo consiglio, ottenga e conservi. La natura determinata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai, da nessuna barriera costretto, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. […] perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi  nella forma che tu avessi prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori,  che sono i bruti; tu potrai rigenerarti, secondo il tuo volere, nelle cose superiori,che sono divine.”

Ciascuno di noi, aperti gli occhi al mondo, deve scegliere COSA essere, CHI ESSERE nella propria vita, non semplicemente COSA FARE, avendo più o meno successo. E sono due sostanzialmente le possibilità, dice Pico, per bocca di Dio: scegliere, decidere di curarsi solo della propria sopravvivenza o della propria animalità, appiattendo la propria esistenza su quella dei bruti oppure preoccuparsi di sé, elevandosi oltre la mera sopravvivenza e l’animalità. Recuperando il significato etimologico del termine cultura (dal latino “colĕre”, cioè “coltivare”), potremmo dire che l’alternativa all’abbrutimento è scegliere di acculturarsi, coltivare se stessi, costruire se stessi come uomo, come donna e magari come “uomo, donna di parola”. Quindi diventare uomini e donne implica una scelta, una decisione. Diventare uomo, diventare donna  è un  processo di formazione, un lungo e faticoso processo di costruzione, di coltivazione di sé. Ecco perché è giusto sottolineare  che UOMINI E DONNE SI DIVENTA: la vita è un dono (in tedesco “Gabe”) e un compito (“Auf-gabe”), di fronte al quale  possiamo anche sbagliarci. Pico usa il termine “rigenerarsi”, ciò che noi in termini religiosi diciamo  convertirsi, decidere diversamente, tornare sulle proprie scelte. Quanto peso hanno le parole, quanto peso ha la lingua!”»

 

L’uomo, dunque - come insegna il grande maestro dell’esistenzialismo, Kierkegaard - è un essere che si trova sempre in una data situazione: non è un essere astratto, avulso dal contesto di spazio e tempo in cui vive; non lo sono nemmeno il santo più spirituale o il mistico più sublime: tutti dobbiamo pagare il nostro tributo alla situazione.

Certo, questo tributo è massimo nelle creature umane meno evolute, molto minore in quelle più evolute: perché queste ultime sono divenute ciò che dovevano essere, e, così facendo, si sono lasciate alle spalle il vecchio Io, fatto di miope attaccamento alle cose, affermando la loro autentica libertà; le prime, invece, si sono limitate a giocare al risparmio, lasciandosi guidare dalla brama e dalla paura che derivano dall’attaccamento alle cose.

L’uomo o la donna spiritualmente evoluti, pur conservando i limiti della materialità e della temporalità, sono già oltre la condizione del contingente e del finito: si è aperta in loro la seconda vista, e grazie ad essa intravvedono squarci d’infinito e di eterno. La loro parola è diventata sobria, densa, luminosa: talmente rarefatta che, alla fine, possono comunicare agevolmente per mezzo del silenzio attivo e compassionevole.

Essi hanno compreso fino in fondo, e non solo superficialmente, che cosa significa il fatto che la vita è un dono; e ne hanno tratto le conseguenze. Se è un dono, allora anche ciascuno di noi deve offrirla a sua volta, e offrirla generosamente. Non possiamo tenerla solo per noi stessi, limitandoci a saccheggiare le buone occasioni e rifiutando oneri e responsabilità. Se la vita è dono, allora va presa sul serio: e ciò richiede che si diventi uomini e donne di parola, cioè uomini e donne che non dicono di no, ma che dicono di sì alla vita e a tutto ciò che di buono, di vero e di bello essa porta con sé.