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Immigrazione e sinistra: arma di distrazione di massa o disorientamento di un ceto in sfacelo?

di Matteo Luca Andriola - 18/08/2014

Fonte: L'interferenza

La notizia dell’ingresso della sinistra radicale nel Parlamento europeo – subito spappolatasi in mere lotte di potere e di posti, – è stata “oscurata” dall’affermazione del Carroccio di Matteo Salvini, l’uomo giusto al momento giusto capace di salvare un partito in pieno sfacelo, facendo dimenticare all’elettorato il “cerchio magico”, il Trota, i diamanti, i lingotti d’oro e tanto di quel malaffare che avevano reso la Lega Nord funzionale al sistema e al bipolarismo. Il tutto senza bisogno di decreti “Salva Lega”. La Lega Nord–Basta Euro! (così, intelligentemente, si è presentata agli italiani di tutta la Penisola, dal Nord al Sud fino alle Isole, facendo dimenticare all’elettore centro-meridionale le sparate antimeridionaliste della vecchia Lega secessionista, con Borghezio che sbraitava «Noi siamo Celti e Longobardi..! Noi non siamo merdaccia levantina o mediterranea! Noi siamo padani!», e via delirando) ha battuto sui temi utilizzati dalla destra populista, ottenendo risultati eccellenti. Uno dei temi è stato quello dell’immigrazione. Ogni qual volta la destra affronta una tematica, la sinistra, come reazione, deve rispondere esattamente al contrario: se la destra è anti-euro, la sinistra italiana è pro-euro; se la destra propone la sovranità monetaria, la sinistra attaccherà chiunque dalle sue parti si azzardi a dire che non è un’eresia mettere in discussione l’eurozona con l’epiteto infamante di «fascista», «reazionario», ecc. Infine, se la destra becera e xenofoba è a favore di misure securitarie liberticide per bloccare l’ingresso di immigrati nel paese («mettiamo l’esercito alle frontiere!», «pattugliamo le coste!», «spariamo sui gommoni!»), la sinistra politically correct è in difficoltà. Alcuni arrivano a dire che l’immigrazione è «naturale» e chi la critica è razzista. Ed ecco perché l’elettorato tradizionalmente di sinistra, il ceto salariato per intenderci, che non frequenta i salotti chic e i vip, di fronte agli squilibri creati dalla mondializzazione liberista e in assenza referenti culturali, non riconoscendosi più né nella “sinistra liberale” asservita agli interessi finanziari né in quella radicale, vota il populista di turno: Alemanno ha vinto nei quartieri popolari della capitale, non ai Parioli dove l’ha spuntata il Pd; nel Nord la classe operaia vota da più di dieci anni Lega.

 1. Immigrazione e globalizzazione: risorsa o squilibrio neoliberista?

 L’insorgere di odiosi episodi di xenofobia dagli anni ’80, che in alcuni casi hanno purtroppo due chiari colori politici, il nero del neofascismo più estremo e il verde leghista che invoca ronde securitarie e pattugliamenti per ottenere la legge e l’ordine, le leggi sul reato d’immigrazione, il dibattito televisivo da Bruno Vespa fra l’uscente Veltroni e l’avversario Alemanno o le politiche del sindaco-sceriffo Cofferati (niente paragoni con Tex Willer! Lui viveva nelle riserve coi navajo, non le sgomberava come Cofferati/Custer coi campi nomadi), piegandosi a fare la gara col destrorso a chi ne espelle di più! Ma non viene spiegato – in quest’epoca ultratecnologica in cui si è perso il senso della storia e dove tutto succede in tempo reale, una deficienza che non lascia il tempo di fare analisi serie – che l’immigrazione non è naturale, ma è uno squilibrio creato da un capitalismo che non può, per sua stessa natura, rimanere recluso all’interno dei confini nazionali e che si nutre, nella sua odierna forma di “capitalismo finanziario”, della libera circolazione di merci, capitali e “risorse umane”, ora a dottrina dell’Unione europea e del sistema occidentale. Marx, nel 1848, scrisse:

 «Per riassumere: nello stato attuale della società, che cos’è dunque il libero scambio? E’ la libertà del capitale. Quando avrete lasciato cadere quei pochi ostacoli nazionali che raffrenano ancora la marcia del capitale, non avrete fatto altro che dare via libera alla sua attività. [...] Il risultato sarà che l’opposizione fra le due classi [capitalista e proletaria. Ndr] si delineerà più nettamente ancora. Signori, non vi lasciate suggestionare dalla parola libertà. Libertà di chi? Non è la libertà di un singolo individuo di fronte a un altro individuo. E’ la libertà del capitale di schiacciare il lavoratore».[1]

 Il liberoscambismo, conclude Marx, «dissolve le antiche nazionalità e spinge all’estremo l’antagonismo fra la borghesia e il proletariato». Le multinazionali occidentali infatti – come ieri le potenze imperialiste europee, Italia «proletaria» compresa – sfruttano le risorse dei paesi in via di sviluppo, impoverendoli e provocando disagi e squilibri. Alla di base di tutto vi è la politica sviluppista promossa nel 1949 da Henry Truman per il rilancio dell’economia mondiale, un proseguimento del vecchio colonialismo sotto altri nomi, che permise agli Stati Uniti di impadronirsi dei mercati degli ex imperi coloniali, mantenendo lo status quo della neopotenza atlantica e impedendo così ai nuovi Stati indipendenti di cadere nell’orbita sovietica. Henry Kissinger, molto cinicamente, arrivò a sostenere che «La mondializzazione non è che il nuovo nome della politica egemonica americana». Viva la sincerità! Quindi, l’interventismo “umanitario” occidentale attraverso i prestiti animati dal Wto, dalla Banca mondiale o dal Fmi e dalle normative stipulate per la libera circolazione di capitali, non è mai fine a se stesso, e le dinamiche politiche del Piano Marshall nel dopoguerra (vedi le elezioni politiche del 1948) lo dimostrano: quando l’occidente fa “riforme” in qualunque paese per «svilupparlo», l’obiettivo è sempre quello di indebitarlo – come avviene col rapporto debito pubblico/banche, dato che i prestiti vanno poi restituiti – al fine di legarlo indissolubilmente all’economia occidentale, il tutto senza servirsi per forza della violenza militare: a che serve se prometti all’extra-europeo che un giorno sarà ricco come la middle class statunitense descritta nei telefilm e nei videoclip di Mtv! «Lo sviluppo si presenta come un notevole strumento di neocolonialismo grazie alla sua dimensione di pedagogia che presuppone aiuto e assistenza».[2] Ecco come il “neo-colonialismo”, accennando al caso africano, viene descritto da Marco Zupi, vicedirettore del Centro Studi di Politica Internazionale di Roma: 

 «Nei Paesi africani l’indebitamento estero fu […] il risultato di una politica di espropriazione del surplus da parte delle potenze coloniali, che così accumulavano maggior capitale al loro interno, che portò a un progressivo impoverimento e stagnazione del continente africano. […] Nella fase post- o neo-coloniale degli anni sessanta, il meccanismo perverso dell’indebitamento estero crebbe, in presenza soprattutto di una borghesia locale ridottissima e di recente costituzione nelle capitali del Paesi africani, sprovvista di una missione storica da compiere e confinata in un ruolo di sostegno ai governi, subordinata agli interessi del capitalismo occidentale (o dell’imperialismo sovietico) e con una dipendenza dalla tecnologia e dai prodotti esteri che portava a un ulteriore aggravamento del saldo delle partite correnti».[3]

 Nel decennio successivo, gli anni ’70, caratterizzati da una crisi economica determinata dal rincaro del petrolio (guerra dello Yom Kippur, 1973) e l’avvio di nuovi scenari della cosiddetta “globalizzazione”,

 «la tradizionale piramide gerarchica fra centro e periferia dell’economia mondiale si trasforma in una divisione sociale, più che geografica, tra ricchezza e povertà, che crea esclusione al Nord e al Sud del mondo. Non è più un modello di capitalismo organizzato territorialmente che mira a espandersi progressivamente (come era capitato sin dalle sue origini mercantili del XV e XVI secolo, durante la fase coloniale del XIX secolo e in quella imperialista del XX secolo), ma un capitalismo globale che implode, intensificando le relazioni economiche, finanziarie, culturali e sociali (l’emblema principale ne è la liberalizzazione di movimenti di capitale) ed emargina selettivamente quel che è fuori (anzitutto, buona parte dell’Africa subsahariana)».[4]

 Alcuni, nella loro ignoranza e nella loro opulenta, vigliacca e liberale sensazione di superiorità occidentale, potrebbero chiedersi come mai, dopo tutti i soldi che diamo all’Africa, essa rimane perpetuamente povera. Sono forse “inferiori”? Stavano meglio sotto il dominio coloniale? No caro lettore, dato che la povertà è frutto del nuovo sfruttamento: l’indebitamento estero. In Africa esso è ormai «indebitamento strutturale», dato

 «che ancora nei primi anni del duemila, paesi come Camerun, Etiopia, Gambia, Guinea, Madagascar, Malawi, Mauritania, Senegal, Uganda e Zambia spendono più per il servizio del debito che per l’istruzione o la sanità. Oxfam International ha calcolato che l’Uganda ha speso, in media, negli ultimi anni 17 dollari pro capite all’anno per il servizio del debito estero, ma solo 3 dollari per le spese in campo sanitario. Sempre in Uganda, il servizio del debito è arrivato tra gli anni ottanta e novanta a superare annualmente la soglia dell’80 per cento dei proventi totali derivanti dalle esportazioni».[5]

 È inevitabile che con l’«indebitamento strutturale» e con tale classe dirigente, assoggettata a quelle occidentali e alle loro politiche neocoloniali, si crei l’immigrazione, un processo che indebolisce ulteriormente quei paesi, dato che le loro “risorse umane” finiscono da noi. Inoltre, il citato dissolvimento delle «antiche nazionalità» descritto all’inizio da Marx è anch’esso frutto della globalizzazione neoliberista in corso, una forma più subdola di imperialismo capace di usare al contempo il bastone dei bombardamenti in Iraq e Afghanistan e la carota dei “diritti umani” – destabilizzando aree come il Medio Oriente e il Nord Africa o l’Europa dell’Est –, spingendo così all’estremo lo scontro Capitale/Lavoro – e qui Marx aveva totalmente ragione – accentuando le contraddizioni già viste. Una di queste, nell’800, era l’immigrazione, sempre gestito nel puro interesse capitalistico. Marx se ne occupò attorno al 1870, studiando i flussi interni al continente che partivano dall’Irlanda, colonia britannica, e che arrivavano in Inghilterra. «All’epoca, l’opinione corrente era che, se le comunicazioni con l’Irlanda fossero state potenziate quanto quelle all’interno dell’Inghilterra, si sarebbe imposta un’equiparazione delle condizioni dei lavoratori dei due paesi».[6] Non fu così. Secondo Marx le conseguenze più gravi di questi processi non erano di carattere “materiale”, ma consistevano nella divisione che la borghesia cercava di creare fra la classe operaia, fomentando tra i lavoratori inglesi sentimenti di paura, ostilità e di razzismo contro i lavoratori immigrati. Tali sentimenti trovavano un’eccellente terreno di cultura nella competizione al ribasso che si trovavano involontariamente a esercitare i lavoratori irlandesi, i quali, d’altra parte, vedevano in quelli inglesi i complici dell’odioso dominio colonialista sul proprio paese. L’operaio inglese,

 «rispetto all’operaio irlandese, si sente membro della nazione dominante e si trasforma così in un suo strumento che gli aristocratici e i capitalisti del suo paese usano contro l’Irlanda, rafforzando in questo modo il dominio nei suoi stessi confronti. Egli si culla nei pregiudizi religiosi, sociali e nazionali contro il lavoratore irlandese. Il suo atteggiamento è molto simile a quello dei bianchi poveri nei confronti dei negri nei vecchi stati schiavistici degli Stati Uniti. L’irlandese gli rende la pariglia. Egli vede infatti nel lavoratore inglese sia il complice che lo strumento stupido del dominio inglese in Irlanda. Questo antagonismo è artificialmente mantenuto dalla stampa, dai pulpiti e dalle caricature; in breve da tutti gli strumenti di cui dispongono le classi dominanti. Questo antagonismo è il segreto dell’impotenza della classe operaia inglese malgrado la sua organizzazione. E’ il segreto che permette ai capitalisti di mantenere il potere. E questi ultimi lo sanno molto bene».[7]

 Divide et impera: ecco l’arma usata dal grande capitale per dominare sui lavoratori, creando in tal caso i ben noti disagi tipici dell’immigrazione e soffiando simultaneamente sullo sciovinismo. Nel Capitale, Marx notava il legame intrinseco fra il progresso industriale e il crollo del fabbisogno di manodopera operaia:

 «Il progresso industriale che segue la marcia dell’accumulazione, non soltanto riduce sempre più il numero degli operai necessari per mettere in moto una massa crescente di mezzi di produzione, aumenta nello stesso tempo la quantità di lavoro che l’operaio individuale deve fornire. Nella misura in cui esso sviluppa le potenzialità produttive del lavoro e fa dunque ottenere più prodotti da meno lavoro, il sistema capitalista sviluppa anche i mezzi per ottenere più lavoro dal salariato, sia prolungando la giornata lavorativa, sia aumentando l’intensità del suo lavoro, o ancora aumentando in apparenza il numero dei lavoratori impiegati rimpiazzando una forza superiore e più cara con più forze inferiori e meno care, l’uomo con la donna, l’adulto con l’adolescente e il bambino, un americano con tre cinesi. Ecco diversi metodi per diminuire la domanda di lavoro e rendere l’offerta sovrabbondante, in una parola per fabbricare una sovrappopolazione. […] L’eccesso di lavoro imposto alla frazione della classe salariata che si trova in servizio attivo ingrossa i ranghi della riserva aumentandone la pressione che quest’ultima esercita sulla prima, forzandola a subire più docilmente il comando del capitale».[8]

 Lenin nota dinamiche del tutto simili agli albori del ‘900, in un’epoca in cui il capitalismo fa quel salto di qualità e diventa imperialismo: «La borghesia aizza gli operai di una nazione contro gli operai di un’altra, cercando di dividerli. Gli operai coscienti, comprendendo l’inevitabilità e il carattere progressivo della distruzione di tutte le barriere nazionali operata dal capitalismo, cercano di aiutare a illuminare e a organizzare i loro compagni dei paesi arretrati».[9]

La xenofobia agitata dalla destra radicale e da movimenti populisti come Lega Nord o il Front national, è un’arma di distrazione di massa utile per spostare l’attenzione dei lavoratori dalla loro condizione di vittime delle dinamiche liberoscambiste e della sua precarietà animata dal grande capitale in combutta coi governi liberali, su questioni meno importanti e politicamente corrette. La soluzione – al fianco di una lotta di classe contro le dinamiche liberiste – è porre fine all’imperialismo tout court, quello militare (dall’Irak all’Afghanistan fino alle basi Nato in Europa) e quello economico-finanziario dell’Unione europea e degli scellerati trattati liberoscambisti come il Gatt, Gats, Trips, Trims e Ttip, atti a creare un mercato comune euroamericano che sfrutti i paesi in via di sviluppo, ponendo delle regole serie ed eque per governare il fenomeno – ricordo al lettore che “l’anarchia legislativa” non è sintomo di progresso, ma è laissez-faire, un principio base del liberismo economico, favorevole al non intervento dello Stato –.

I gruppi reazionari che elogiano l’avanzata della Le Pen per il suo desiderio di far saltare l’Unione europea fanno propria la preferenza nazionale, ideata nel 1985 dal Club de l’Horloge di Yvan Blot, un think tank legato (almeno fino al 1979-1980) al Grece di Alain de Benoist e alla Nuova Destra, ponte fra neofascismo, frontismo e destra gollista, nato col presupposto di dare alla destra strategie e un cervello pensante. La preferenza nazionale divenne la base del frontismo e, successivamente, dei neopopulismi europei, Lega Nord compresa. Di che si tratta? Il Club de l’Horloge a differenza del Grece che predicava il “socialismo identitario” – una “destra sociale” radicale e comunitarista –, ideò una formula che si coniugava perfettamente col clima thatcheriano dell’Europa degli anni ’80, cioè il liberalismo identitario, che permette la legittimità sulle privatizzazioni, ma non al 100% come nel mondo anglo-sassone, ideando un modello misto, la sussidiarietà, cavallo di battaglia della “destra sociale” e di Comunione e liberazione, dove si stabilisce che «Lo Stato non fornisca più direttamente i servizi di sua competenza, come il welfare, ma aiuti economicamente gli enti locali a sostenerli, nel caso questi ultimi non siano in grado di farvi fronte autonomamente».[10] Il tutto, ovviamente, limita le risorse del welfare state, in parte devolute a enti privati, e lo Stato, vista la privatizzazione, è “obbligato” a porre paletti a sfondo etnocomunitario per l’accesso ai servizi sociali, cioè la preferenza nazionale.[11] Ecco spiegate le campagne delle destre populiste per limitare l’accesso degli immigrati alle graduatorie alle scuole pubbliche, alle case popolari, al welfare, ecc., e non perchè le risorse non ci sono, ma che queste vengono volutamente privatizzate, mentre lo Stato – che non è mai un’entità “neutrale”, ma al servizio della classe egemone – anima una “guerra fra poveri” utile al mantenimento dello status quo. Grazie alla propaganda dei neopopulisti di turno, sovranisti a parole ma vicini agli interessi del grande capitale nei fatti, la classe lavoratrice – indebolita dalla precarietà lavorativa che atomizza i rapporti di classe ponendo il lavoratore solo dinnanzi al padrone… ecco cosa comporta la fine del contratto unico nazionale – viene così distratta dalla lotta di classe dato che la conflittualità – in un perfetto gioco dei ruoli che reintroduce dinamiche neocorporative di collaborazione interclassista – non è più verticale – cioè Capitale/Lavoro – ma di tipo orizzontale – Capitale Autoctono e Lavoro Autoctono coalizzati contro il Lavoro Allogeno che però, ed ecco l’ipocrisia del sistema vigente, serve comunque – magari sottobanco, che se muore il Lavoratore Autoctono in cantiere devi pagarlo per nuovo, ma se in cantiere muore l’immigrato non in regola fingi che non è mai esistito! – perché è manodopera a basso prezzo che costa meno di quella locale. E via col neoschiavismo e le delocalizzazioni! Tanto poi – visto che siamo padani o abbiamo “il cuore nero” – aizziamo i cittadini contro i rom che poi votano il populista di turno!

Ecco perché, con una sinistra impotente, il frontismo miete vittime in una classe salariata ormai stremata e senza più referenti. Sei contro l’euro? Guadagni punti! Sbraiti contro gli immigrati! Più punti! Tanto a chi importa se la Le Pen risulta legata a gruppi atlantisti e filoisraeliani, gli stessi ai vertici del sistema Nato e dell’Unione europea! L’importante è distrarre i lavoratori dalle vere cause della crisi, cioè il liberoscambismo predominante e, per il mantenimento di un sistema che distrae le masse col terrore dell’immigrazionismo e col culto dei “diritti civili” (vedi i “progressisti” di Sel in Italia e Hollande in Francia con la legge Taubira, con discorsi ovviamente enucleati da ogni riferimento classista e strutturale), puntare tutti i riflettori su altre “emergenze” (i privilegi della casta, la mignottocrazia di Berlusconi, la questione morale – come se esistesse il “capitalismo etico” deberlusconizzato, come esposto dai vari Di Pietro, Travaglio e Grillo o da la Repubblica, l’Espresso e il Fatto Quotidiano –, il bullismo a scuola, i bamboccioni, gli stupri, il femminicidio, il genderismo, i diritti civili, genitore 1, 2, 3, 4 e 5, il senso di colpa del maschio perché possiede il pene, ecc).

 2. “Buonismo” e “politically correct” per sfruttare l’immigrato: quando il Capitale è “di sinistra”

 L’oppressione ai danni della popolazione immigrata (o di origine immigrata, data la crescente presenza di giovani nati in Italia che vengono ghettizzati dal reazionario di turno), va ben oltre il supersfruttamento economico, e tocca casi nel concreto. Ad esempio i lavoratori immigrati impiegati in piccole e piccolissime imprese, spesso senza contratto né protezione sindacale, hanno pagato un prezzo durissimo per la vigente crisi e sono stati tra i primi ad essere buttati in mezzo alla strada. Poiché la Bossi-Fini lega il permesso di soggiorno ad un contratto di lavoro e ad un reddito minimo, per gli immigrati povertà e disoccupazione significano anche il rischio di arresto e, letteralmente, di deportazione. Discriminazioni razziste si incontrano ad ogni angolo della strada, con sindaci e governatori bipartisan che fanno a gara per vietare phone center, moschee e chioschi di kebab, ma a senso unico. Perché l’extracomunitario, sempre e comunque debole, proviene dal Terzo mondo e non è mai statunitense, che per questi “difensori della sovranità nazionale” possono fare come se fossero a casa propria. E così i leghisti, che vogliono fare gli “identitari” difendono la polenta dal “barbaro” kebab, spariscono dinnanzi all’americanizzazione globale del colosso MacDonald’s, i cui punti vendita, fatti con lo stampino, fioccano in tutti i comuni e le città d’Italia e dell’Occidente liberale. Ma il nemico – per citare Magdi Allam, Oriana Fallaci, Marcello Pera e Giuliano Ferrara – è solo l’Islam!

Caso significativo della sinistra liberale politicamente corretta che diventa a sua volta funzionale al capitale transazionale lo si ha nelle associazioni “antirazziste” (e ora il lettore capirà perché ho messo le virgolette) di area riformista (e vicine ai partiti socialisti, come in Francia SOS Racisme) è l’Associazione Primo Marzo, che ha fra come portavoce l’ex ministro Cécile Kyenge, volgarmente attaccata – è il caso di dirlo – dai soliti leghisti/fascisti del circondario per il colore della pelle. Qual’è il problema di queste associazioni che nascono con l’obiettivo nobile di battersi per i diritti dei migranti? Il classico “buonismo” che le porta, in assenza di lucide analisi socio-economiche, ad alimentare quella guerra fra poveri che le classi dominanti fomentano, come già visto, da sempre. Le citate associazioni fomentano alla pari della propaganda xenofoba dell’estrema destra populista l’odio razziale, favorendo la diffusione di una cultura dell’indifferenza ai danni dei migranti. Analizziamo la più importante iniziativa promossa dall’“Associazione primo marzo”, una coalizione di società collaterali al Partito democratico, Sel e il Prc (per le europee diversi suoi aderenti hanno sostenuto Renzi e all’Altra Europa per Tsipras),[12] che comprende l’Arci e molti settori della Chiesa cattolica, hanno indetto per quel giorno la “giornata senza immigrati” (nome orrendo, che potrebbe senz’altro piacere alla Lega Nord), il cui obiettivo, nelle intenzioni degli organizzatori era «una grande manifestazione non violenta per far comprendere all’opinione pubblica quanto sia determinante l’immigrazione per la nostra società e quanto la difesa dei diritti sia centrale per la tenuta della democrazia».[13] Il messaggio che gli organizzatori dell’evento volevano mandare all’opinione pubblica per bene è il seguente: la nostra economia (che è neoliberale) ha bisogno della manodopera immigrata. Se volete continuare a sfruttarla vantaggiosamente, senza provocare esplosioni sociali, bisogna che facciate qualche concessione. La borghesia è divisa in relazione alla politica da adottare sull’immigrazione. Da un lato ci sono gli ideologi razzisti che invocano segregazione, apartheid, White Christmas, rastrellamenti e deportazioni. Dall’altro c’è uno spettro politico che va dalla sinistra radical chic al Partito democratico, fino alla Chiesa cattolica, consapevoli del fatto che interi settori industriali dipendono dalla presenza di manodopera immigrata a basso costo e che sono disponibili ad una limitata estensione dei suoi diritti (ad esempio ad una gestione più razionale dei permessi di soggiorno o alla concessione del voto amministrativo agli immigrati “regolari”) e che vorrebbe tenere a freno gli eccessi razzisti. E’ a questo settore della borghesia e non alla classe lavoratrice che si rivolge la “giornata senza immigrati” sostenuta dal Pd, Rifondazione, Sel ecc, che hanno usato come al solito la favola dell’antirazzismo in vista delle scadenze elettorali di fine marzo. Lo dimostra il fatto che tra le prime e più prominenti adesioni ci sia stata nel 2010 quella di Livia Turco, l’autrice della legge che ha creato i Centri di permanenza temporanea, i famosi lager che hanno sancito decine di migliaia di deportazioni. Un caso? Non credo!

Le pratiche politiche e il programma promossi dagli organizzatori della “giornata senza immigrati”, sono antitetiche ad una mobilitazione di classe in difesa degli immigrati, e sono destinate a perpetuarne comunque l’oppressione perché non mettono in discussione né il modello di sviluppo né i rapporti neocoloniali col Terzo mondo. La mobilitazione, però, raccolse l’adesione di vasti settori dell’immigrazione, che percepiscono di avere un peso sociale e non vogliono esser vittime di un assalto razzista perpetrato da certa destra becera. Ma invece di dare forma organizzata di classe alla rabbia e alla volontà dei lavoratori immigrati, alleandosi coi lavoratori autoctoni, anch’essi vessati, le burocrazie della triplice sindacale (se si eccettua il sindacalismo “di base”), si sono opposte ad indire uno sciopero, fosse pure per dare copertura alla “giornata senza immigrati”. Il responsabile degli immigrati della Cgil, Pietro Soldini, ha rifiutato di dichiarare sciopero sostenendo che potrebbe trasformarsi in “un boomerang” e proponendo invece di ricorrere «a uno sciopero dei consumi, a segni di riconoscimento da indossare, a una iniziativa da fare di sabato, quando la maggior parte della gente già non lavora».[14]

Senza una seria mobilitazione dei sindacati uno “sciopero degli immigrati” non può che essere una prova di debolezza e un imbroglio, perché molti lavoratori immigrati si vedrebbero costretti a lavorare in ogni caso e quelli con abbastanza coscienza di classe da scioperare rischierebbero di venir licenziati. E anche se avesse l’appoggio dei sindacati, uno sciopero che si limiti ai lavoratori immigrati non sarebbe che un riflesso capovolto della mentalità xenofoba leghista, secondo cui i lavoratori “italiani” non si mobiliterebbero mai in difesa degli immigrati, e gli unici disposti a farlo sarebbero gli immigrati stessi più qualche filantropo radical chic presente nelle redazioni dei giornali “per bene” e “de sinistra”, nell’associazionismo e nelle parrocchie. Insomma, divide et impera è il motto di costoro.


[1] K. Marx, Discorso sulla questione del libero scambio, pronunciato il 9 gennaio 1848 all’Associazione democratica di Bruxelles.

[2] B. Hours, L’Idéologie humanitaire ou lo spectacle de l’alterité perdue, Paris, L’Harmattan, 1998, p. 66.

[3] M. Zupi, La globalizzazione indebita. Sviluppo economico e debito estero in Africa, Torino, SEI, 2007, p. 141.

[4] Ibidem, pp. 143, 144.

[5] Ibidem, p. 156.

[6] Collinson Black R.D., Economic Thought and the Irish Question, 1976.

[7] Lettera di Karl Marx a Sigfrid Meyer e August Vogt del 9 aprile 1870, cit. in L. Pradella, L’attualità del ‘Capitale’. Accumulazione e impoverimento nel capitalismo globale, Padova, Il Poligrafo, 2010.

[8] K. Marx, Il Capitale, Libro I, 7, 25

[9] V. I. Lenin, Il capitalismo e l’immigrazione operaia, 1913.

[10] G. Cracco, Il welfare ai tempi della sussidiarietà neoliberista: privato e clericale, in Paginauno, a. VI, n. 30, dicembre 2012 – gennaio 2013, p. 15. 

[11] Cfr. J.-Y. Le Gallou, La Préference nationale: réponse à l’immigration, Paris, A. Michel, 1985.

[13] primomarzo2010.it, 10 gennaio 2010