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Fukuyama, Hungtinton, Sharp: i sacerdoti del mondo unipolare

di Tancredi Sforzin - 08/09/2014

Fonte: L'intellettuale dissidente


Ma che cosa sta accadendo nell'attuale congiuntura internazionale? E' evidente che la fase iniziata con le trattazioni di Fukuyama, Hungtinton e Sharp stia volgendo al termine e che, nonostante la recente ripresa del dibattito sullo scontro di civiltà, potremmo aspettarci novità libresche ed evoluzioni politiche

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Oggi facciamo un’attività particolare”, disse il Colonnello al termine dell’adunata del mattino. Chiamò immediatamente da parte alcuni soldati sospetti di attività illecite e fece prontamente entrare i cani antidroga a setacciare l’intera caserma. Settembre è il momento ideale per fare il punto della situazione, il mese di agosto ci ha consegnato una realtà mediatica completamente diversa da quella che conoscevamo, carica di tensione ed isteria. Abbiamo seguito passo per passo l’evoluzione del clima italiano ed internazionale, abbiamo scosso il velo di Maya ma sembra non essere stato sufficiente a squarciarlo. Perciò anche noi, oggi, faremo un’attività particolare. Chiameremo da parte Francis Fukuyama, Samuel Hungtinton e Gene Sharp, soldati dell’unilateralismo statunitense. Faremo il punto della situazione, inquadreremo le problematiche in una visione d’insieme, scioglieremo i cani.

L’origine di quanto vediamo oggi, è antica. Nei primi anni Novanta del secolo scorso cadeva l’Impero del Male, il blocco sovietico e gli Stati Uniti, unica superpotenza mondiale rimasta, si trovarono nella condizione di doversi interrogare in relazione al proprio ruolo e al proprio destino. Il dibattito si svolse immediatamente nel corso degli anni Novanta ed è in quel contesto che Francis Fukuyama scrisse “The End of History and the Last Man” (1992). In quel testo, il politologo neocon interpretò la storia dell’uomo nei termini di una progressione che vedeva nel XX secolo l’ultimo traguardo, coincidente con il trionfo dei valori liberali e democratici sui totalitarismi fascista e comunista. Leggi di mercato, sostenute alla base dalla responsabilizzazione determinata dall’assetto politico democratico, secondo Fukuyama, rappresentavano l’ultima e definitiva tappa dell’evoluzione umana, consegnando alla storia le pretese utopiche delle ideologie progressive totalitarie, comunismo in primis. Si apriva, dunque, il nuovo scenario di un mondo definitivamente pacificato, la fine della storia e l’ultimo uomo.

Samuel Hungtinton, anch’egli neocon, rispose a Fukuyama l’anno successivo, con un articolo pubblicato su Foreign Affairs. Tre anni dopo, nel 1996, espose organicamente la propria teoria nel testo epocale “The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order”. Questo testo non deve essere letto in contrapposizione a quello di Fukuyama, esiste una sostanziale continuità tra i due. Se il contesto sorto dalla caduta dei blocchi segnava per Fukuyama il punto terminale di ogni attesa politica e l’alba di un nuovo ordine mondiale, lo stesso ordine per Hungtinton si dava ancora in via di formazione; per lui, nuovi conflitti sarebbero nuovamente sorti, ma non sarebbero più stati di ordine politico, bensì culturale e religioso. Operò, dunque, una semplificazione, rimaneggiando le vecchie categorie della Guerra Fredda ed applicandole ad un mondo completamente diverso, che in realtà volgeva – lo vediamo oggi- al multipolarismo: un Occidente civile da un lato, contrapposto al Rest, il mondo residuale ad esso, il cui contenuto consisteva nell’esatto opposto di liberalismo e democrazia. In definitiva, venuto a mancare il nemicus comunista, termine di paragone in base al quale l’id occidentale si strutturava, si inserì l’Islam nell’area magmatica del Rest, consegnandolo al ruolo di nuovo Male Assoluto.

In Fukuyama ed Hungtinton, ci sembra di poter rilevare aspetti profetici ma in realtà, analisi, profezia e strategia, nei testi dei due politologi si confondono. Effettivamente, alle teorizzazioni di Hungtinton seguirono gli eventi dell’11 settembre 2001 e il clima culturale che si diffuse ne fu consequenziale, senz’altro fino al 4 giugno 2009, data dello storico discorso di Barack Obama al Cairo, nel quale si preannunciò un nuovo inizio nei rapporti tra mondo musulmano e Stati Uniti. In seguito a quella data, esplose la Primavera Araba che, considerata la presenza sistematica del format rivoluzionario Otpor!, già applicato al mondo ex sovietico per promuovere l’allargamento NATO, può essere considerata come un sottoinsieme delle Rivoluzioni Colorate. E’ importante, a questo punto, comprendere quali teorizzazioni sottostiano a questa tipologia di rivoluzioni e agli agenti che le innescano; ci riferiremo, perciò, al principale testo del politologo statunitense Gene Sharp, “From dictatorship to democracy- A conceptual framework for liberation”, edito nel 2002. In quel manuale (e in altri sia precedenti e successivi), furono elaborate metodologie non violente e di disobbedienza civile, utilizzate scientificamente al fine di minare le dittature con un margine di errore limitato. Non si tratta di teorie di tipo pacifista ma di vere e proprie tecniche; in quei testi, è pressoché assente la colorazione politica, tanto da distanziare questo tipo di rivoluzioni da analoghi moti e teorie novecenteschi. Non solo, è totale l’assenza di aspetti progressivi che diremo “escatologici”, sorti dalla secolarizzazione delle tensioni religiose (dall’Illuminismo alla caduta del Comunismo) e leggendo in filigrana Fukuyama, possiamo percepire queste rivoluzioni artificiali come uno strumento per procedere all’omologazione e all’integrazione degli Stati in un sistema internazionale basato sui principi del libero mercato e della democrazia liberale. Non è casuale, infatti, che i movimenti rivoluzionari come Otpor! puntino alla creazione di un assetto liberal-democratico ed è significativo che rivendichino per se stessi la novità strategica dell’uso del marketing commerciale (corporate branding) in politica. La conseguenza non è affatto secondaria perché per la prima volta si inseriscono elementi cooptati dall’economia di mercato nella fase dello stato nascente. Il paradigma rivoluzionario classico, con relativo portato di risorse simboliche, ideali e strategie otto-novecentesche, viene consegnato definitivamente alla storia dalle Rivoluzioni Colorate; persiste solamente, senz’altro in parte, la regolarità a livello verticale, per la quale la rivoluzione viene realizzata da “un gruppo più o meno omogeneo, che conta molto nella società ma che è tenuto un gradino sotto dalle istituzioni” (Cardini 2013). Una sostituzione di élite, più che un rimpasto o un riequilibrio nei rapporti di forza.

Ma che cosa sta accadendo nell’attuale congiuntura internazionale? E’ evidente che la fase iniziata con le trattazioni di Fukuyama, Hungtinton e Sharp stia volgendo al termine e che, nonostante la recente ripresa del dibattito sullo scontro di civiltà, potremmo aspettarci novità libresche ed evoluzioni politiche. Allo stato attuale, le rivoluzioni colorate, spinte oltre il cordone sanitario creato intorno alla Russia, sono andate in corto circuito, senz’altro per la presenza di minoranze russe e russofone con relativi interessi. Questo è il caso dell’Ucraina e forse in futuro, di Moldavia e Transnistria, stati di frontiera, difficilmente ascrivibili al contesto europeo, a differenza di altri paesi un tempo sottoposti all’influenza russa, come i baltici, quelli dell’area mitteleuropea, la Polonia. In Medio Oriente e nel Nord Africa, invece, il format delle rivoluzioni colorate ha evidenziato il proprio fallimento nel momento in cui si è inserita, non senza responsabilità equivoche ed ambiguità, la variabile islamista. Nuovi agenti esterni, target superiori e maggiore complessità dei tessuti sociali, in un contesto di interdipendenze e multipolarismo effettivo, hanno protratto in ogni paese la fase di rottura rivoluzionaria, mutandola in guerra civile od instabilità permanente. Secondo alcuni commentatori questo tipo di sviluppo, iniziato con la pur fallita Rivoluzione Verde iraniana del 2009, andrebbe letto nei termini di una vera e propria “geopolitica del caos”, che appare però oggi ingestibile ed inarrestabile, come lo possono essere i danni che fanno seguito ad un disastro nucleare. Siria ed Ucraina, insieme alla Libia, appaiono, in questo senso, realtà sintomatiche di una vera e propria Černobyl’ politica internazionale.