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Sulla felicità

di Stefano D’Andrea - 15/09/2014

Fonte: Appelloalpopolo

 


 

Si va diffondendo la consapevolezza che non è possibile curare la psiche di uno o altro soggetto se il malato muove da idee errate, insensate e, diciamolo pure chiaramente, immorali. Accolte determinate idee, magari inconsapevolmente, per abitudine, adattamento, adesione ai costumi e alle prassi dominanti, non si potrà mai avere un equilibrio psichico. Una di queste idee errate, insensate e immorali è che lo scopo della vita sia di agire per raggiungere la felicità. Idea tanto più errata, insensata e immorale quanto più si aderisce al credo dominante che identifica la felicità con un alto livello di consumi. Ma anche chi non aderisca al credo dominante erra quando propone di sostituire il PIL con altri indici di misurazione della felicità e, seppure senza saperlo, finisce per non discostarsi di molto da quel credo che si propone di contrastare.

La vita non è un viaggio alla ricerca della felicità: è una missione. E questa asserzione non si pone, in prima istanza, sul piano morale; non deve essere intesa nel senso che la vita “deve essere” una missione. Che la vita sia una missione – magari svolta malissimo e con fallimenti in tutti o molti campi – è una verità che può essere constatata, svolgendo poche e indiscutibili osservazioni. Dunque, quando affermo che la vita è una missione intendo pormi sul piano del vero e del falso e non su quello, morale, del giusto e dell’ingiusto.

Con più precisione direi che la vita consiste nell’adempimento di un certo numero di importanti missioni, le quali sono talmente tante che finiscono per avvolgerla e contenerla quasi per intero.

Un primo gruppo di missioni deriva dal nostro stare in famiglia.

Si può scegliere di non avere figli. Ma una volta che i figli sono nati, voluti o meno, siamo chiamati ad adempiere la missione di padre e la missione di madre. La paternità e la maternità sono due missioni. Ogni missione si caratterizza per uno scopo e per i mezzi che lo realizzano. La pluralità delle concezioni su ciò che deve essere un uomo implica una certa relatività degli scopi. Ma si tratta di una relatività parziale, perché esiste un nucleo comune innegabile. Chi potrà negare che un genitore è chiamato ad impegnarsi perché suo figlio abbia un carattere forte e non debole? Perché sia paziente e tenace e non impaziente e velleitario? Perché comprenda l’importanza del sapere e del saper fare in uno o altro campo e non diventi un uomo senza arte né parte?

La condizione di figlio, a un certo punto della vita, diventa una missione. Giunti a una certa età, abbiamo genitori dei quali dobbiamo prenderci cura. O con i quali non dobbiamo più litigare, perché sono divenuti fragili, mentre noi siamo nel pieno della maturità e del vigore e dobbiamo saper comprendere e avere la capacità di controllarci.  Figuriamoci poi quando i rapporti sono sempre stati ottimi e il genitore si trova in difficoltà.

Siamo liberi di contrarre matrimonio e siamo liberi, secondo il diritto civile, di separarci e divorziare. Ma una volta contratto matrimonio, per la coscienza sociale così come per il diritto civile, assumiamo doveri (contraiamo vincoli) nei confronti del coniuge: fedeltà, mutuo aiuto morale e materiale, collaborazione e coabitazione. Si tratta di doveri che sovente e sempre più vengono infranti. Ma questi doveri esistono, sono oggettivi, previsti dalla legge e avvertiti dalla coscienza sociale. Anche la condizione di coniuge, dunque, ci impone una missione.

Noi siamo parte anche della società civile. Lo svolgimento del nostro mestiere è una missione. Svolgiamo il mestiere di insegnante, di medico, di avvocato, di artigiano, di pubblico funzionario. Dall’acquisizione di quelle qualifiche e dallo svolgimento di quei ruoli sorgono doveri di aggiornarci e di eseguire gli incarichi con scrupolo e onestà; doveri di non abusare della posizione di potere e di non tradire la fiducia di chi ci ha conferito un incarico. La qualifica di dipendente privato pone qualche problema, in tutti i casi in cui il datore di lavoro o il superiore gerarchico non rispettino i doveri e i vincoli che la legge, prima ancora che la coscienza sociale, impone, circoscrivendo l’ambito della subordinazione. Ma è certo che in un fisiologico svolgimento del rapporto, il lavoratore subordinato è titolare  di precisi doveri, di fedeltà e di correttezza, che caratterizzano la prestazione lavorativa in base ad una precisa disposizione normativa.

Nemmeno si dovrebbe dubitare che l’amicizia è una missione. Che ci vincoli ad aiutare l’amico in difficoltà, a stargli vicino nei momenti tristi della vita e prima ancora a coltivarla, a cercare l’amico, a trovare il tempo per andarlo a trovare, a liberarci dei pensieri per trascorrere con esso momenti di spensieratezza e dedicarci, assieme a lui, ai comuni vecchi vizi. Chi non coltiva l’amicizia sarà inevitabilmente senza amici. Ma anche rapporti meno caldi, come quelli di vicinato, implicano condotte che si attengano a doveri: salutare, essere gentili e disponibili. Essere un buon vicino di casa è dunque una missione. Una missione piccola e talvolta difficilissima; ma è una missione.

Anche la condizione di cittadino è una missione. Come cittadini abbiamo il dovere di votare i migliori tra i candidati che si presentano alle elezioni, amministrative o politiche, rifiutando il voto a parenti ed amici, se non sono i migliori; di non votare se reputiamo che la legge elettorale sia incostituzionale; di resistere all’oppressore, se dovessimo essere aggrediti da altri popoli; di combattere militarmente i secessionisti; di interessarci in uno o altro modo alla res pubblica; di pagare le imposte; di rispettare i mille piccoli doveri, giuridici e non solo (raccolta differenziata, pagamento del biglietto del tram, evitare, per quanto possibile, l’uso dell’automobile, ecc.) che servono a rendere più vivibile la nostra città.

Ma la missione più importante è coltivare la nostra anima, il nostro pensiero e il nostro carattere morale: coltivare il rapporto con noi stessi. Anche questa missione, come tutte le altre, si realizza attraverso l’adempimento di doveri. Il sommo dovere di accettarci; di essere contenti se scopriamo un nostro limite; di impegnarci per attenuarlo ed eventualmente il dovere di prendere atto serenamente che non siamo capaci. Il dovere di immergerci, quando possiamo, nella natura; di godere della solitudine, dei profumi e dei colori della terra, di bagnarci, anche in solitudine, nei mari limpidi, dei quali dobbiamo andare in cerca. Di nutrirci delle grandi opere di poesia e di pensiero, le quali sono in grado di influenzare in senso epico la nostra personalità.

Se consideriamo una giornata qualunque di un uomo adulto, constatiamo agevolmente che in gran parte quell’uomo compie azioni che sono adempimento di doveri: preparare i figli nel primo mattino;  accompagnarli a scuola; salutare il vicino incontrato sul pianerottolo; recarsi sul luogo di lavoro; lavorare; recarsi, dopo il lavoro, nella assemblea della associazione alla quale si è iscritti; acquistare ciò che è necessario per la cena; recarci all’appuntamento con l’amico per bere una birra; dopo cena mettere a letto i figli; concederci un momento di pace con la moglie o la compagna (o il marito o il compagno); leggere pagine del libro che ci si è ripromessi di finire entro la domenica.

Non dobbiamo pensare, tuttavia, che ciò implichi un’intrinseca e ineliminabile tristezza della vita. Sarebbe un pensare stolto e molto infantile. Perché le condotte che sono adempimento di doveri – giuridici, morali o nascenti dal costume – possono essere tenute spontaneamente e volontariamente, insomma senza pensare che l’azione che si compie è dovuta. Ciò vale per un bacio alla propria moglie, per una carezza al figlio, per un rientro a notte fonda che conclude una serata dedicata ad un amico in difficoltà, pur sapendo che dopo un paio d’ore sarà necessario alzarci; per lo studio approfondito di un caso che un cliente ci ha affidato e per mille altre azioni, le quali, essendo dovute, è bene che siano sempre volute. In certo senso, quando un’azione è voluta, essa perde, nella coscienza di chi la compie, il carattere di doverosità.

Ecco che cosa è, dunque, la felicità. Un giudizio complessivo che diamo su noi stessi, sul modo in cui stiamo realizzando le nostre missioni e quindi adempiendo i nostri doveri. Giudizio complessivo, perché le missioni sono talmente tante che è quasi naturale che in una o più di esse si stia fallendo o, addirittura, che una di esse sia certamente fallita. Il giudizio complessivo sarà tanto più positivo quanto più penseremo di aver adempiuto, in linea di principio, le nostre missioni. E le avremo adempiute quando, in linea di principio, avremo voluto tenere le condotte che dovevamo tenere.

La felicità, dunque, non è l’obiettivo della vita ma un risultato, che si consegue adempiendo volontariamente doveri.

La felicità è compatibilissima con lunghi periodi di stress e anzi, forse, non può aversi senza di essi, perché le missioni sono difficili.

La felicità non implica nemmeno un’abituale serenità, perché le missioni richiedono tensione, sacrificio e scelte sovente spiacevoli.

Tanto meno la felicità implica un alto livello dei consumi.  Non solo è falso che chi consuma è felice – chi consuma di volta in volta si sta divertendo o si sta appagando -; è vero piuttosto che chi è infelice tende a consumare.

La causa maggiore dei consumi è la mancata comprensione del senso della vita dovuta al fatto che non si vuol (e oggi non si viene nemmeno sollecitati a) prendere atto dei mille doveri che dobbiamo adempiere. L’angoscia provocata dalla perdita di senso dovuta al disconoscimento dei doveri e quella che sorge dal timore di non saperli adempiere, timore sovente paralizzante – si tratta delle due principali cause dell’infelicità -  spingono verso l’eccesso dei consumi. In verità, quando per la prima volta a fine mese si constata che si è riusciti a vivere spendendo meno di quanto abbiamo incassato siamo felici: abbiamo adempiuto il dovere di essere previdenti e parsimoniosi, ossia di fare il nostro bene.

L’ideologia consumista è tanto diffusa e pervasiva da oscurare la verità. Ciò accade perché il becero materialismo del quale è portatrice eclissa la dimensione spirituale della nostra vita e rimuove riflessioni come quelle condotte in queste note, che nel fondo sono banali – la verità è spesso banale. Tuttavia, alla resa dei conti, la dimensione spirituale della nostra vita è tutta la nostra vita. Come dimostra il fatto che depressione, anoressia, esaurimenti nervosi, suicidi, gravi tossicodipendenze o videodipendenze, bilanci negativi della propria vita condotti in età matura non sono più frequenti tra coloro che nella vita hanno consumato meno, rispetto a coloro che nella vita hanno consumato più e soprattutto tra coloro che nella vita hanno dato poca importanza al consumo delle merci rispetto a coloro che hanno consumato in modo compulsivo. [...]

La politica ha poco a che vedere con la felicità dei singoli cittadini.

Certamente la politica concorre a creare quelle condizioni minime senza le quali il singolo, immerso totalmente nell’impegno volto alla soddisfazione dei bisogni primari, è completamente costretto alla lotta per la sopravvivenza e non ha tempo e forza per vivere, ossia per adempiere le sue missioni.

Gli altri obiettivi della politica, anche i più nobili che è dato ipotizzare – perseguire la bellezza delle città e delle campagne; predisporre un apparato volto alla formazione (educazione) di uomini valorosi, che mantengano la parola data, coraggiosi, pazienti, colti e operosi (la politica è in primo luogo pedagogia, magari cattiva pedagogia ma è pedagogia); realizzare la giustizia, per esempio, impedendo al capitale non investito ma messo a rendita di valorizzarsi; promuovere e agevolare lo sviluppo di una cultura e di una tradizione originali ma aperte alle culture e alle tradizioni straniere;  organizzare la sicurezza dei confini e la difesa militare dell’ordinamento da ingerenze esterne e da secessioni – poco o nulla hanno a che vedere con la felicità dei singoli cittadini. Come tutti gli obiettivi politici, ossia pubblici e relativi ad interessi “generali”, essi possono essere realizzati soltanto ponendo vincoli, divieti e comandi.

La politica si risolve in legislazione e quest’ultima è imposizione di vincoli, divieti e comandi. La politica è l’arte e l’attività volta ad organizzare e orientare la vita di popoli: rafforzarli e fornire durata alla vita dei medesimi; fornire i popoli di una storia e delle condizioni per avere un futuro. La politica si interessa poco ai singoli cittadini, e molto al Popolo, ossia a quell’entità mutevole (ma non astratta, bensì sempre concretissima) che c’era quando noi non eravamo nati e ci sarà quando noi non ci saremo. Ben può accadere, in certe circostanze storiche, ed è spesso accaduto, che intere generazioni debbano sacrificare la giovinezza e finanche la vita, perché le future generazioni siano libere, prospere, autonome e indipendenti. A rigore, in questi momenti, che sono i più tragici ma talvolta i più alti che la storia tramandi, sembrerebbe che la politica sia piuttosto fonte di sventure che non di felicità per i singoli. Eppure ancora una volta, tutto dipende dalla volontà. Dalla volontà di adempiere i doveri e le missioni, compresa, se è necessaria, la disponibilità all’estremo sacrificio.

Se la felicità non è un obiettivo ed è il risultato dell’adempimento dei doveri mediante i quali realizziamo le nostre missioni, a maggior ragione non può essere il contenuto di un diritto. Non è forse un caso che il tempo dell’impero statunitense è coinciso con il tempo della diffusione planetaria dell’ideologia consumistica, se è vero che lo sfortunato popolo statunitense ha inserito nella Costituzione il diritto alla felicità. Così come non è forse un caso che il popolo statunitense sia quello maggiormente colpito dalla malattia della depressione.

Che a nessuno venga in mente di sostenere che anche in Italia dobbiamo inserire nell’ordinamento il diritto alla felicità o che esso possa essere in qualche modo indotto da una o altra norma e affermato come già vigente nell’ordinamento giuridico italiano. Chi la pensa in questo modo è pregato di andarsene negli Stati Uniti. Già sono troppi i danni che l’ordinamento giuridico italiano (lo Stato italiano) - e quindi il popolo italiano - ha subito per l’immissione in esso di innumerevoli istituti alieni. Meglio un “cervello” in fuga in più che mettere in cattedra un altro adoratore della società statunitense. Ne abbiamo avuti fin troppi.