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Israele è smarrito: il suo premier deve confrontarsi con la nuova realtà di Gaza

di Ramzy Baroud - 15/09/2014

Fonte: Infopal



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L’offensiva contro Gaza, vero e proprio genocidio, è stata controproducente per Netanyahu: la sua strategia ha contribuito alla rinascita di Hamas, il movimento che aveva disperatamente cercato di distruggere.

Oltre ad essere una débâcle dal punto di vista militare, l’offensiva israeliana su Gaza ha anche destabilizzato  la linea politica del primo ministro Benjamin Netanyahu come mai prima d’ora. Dopo l’annuncio della tregua, il 26 agosto, il premier ha rilasciato solo dichiarazioni sporadiche e incerte, e questo è davvero un esito inaspettato della guerra contro Gaza.

Sin dal suo primo mandato da premier (1996-99), Netanyahu è stato abile a creare una retorica in cui le azioni politiche e militari ricalcassero fedelmente gli obiettivi dichiarati. Ha inventato minacce imminenti completamente infondate, come quella relativa alle inesistenti armi di distruzione di massa irachene.  Poi, ha affrontato apertamente l’Iraq.

Ha posto troppe condizioni e creato numerosi ostacoli per fare in modo che non si raggiungesse mai un accordo di pace. L’ormai defunto leader palestinese Yasser Arafat ha tentato per anni di rispettare le condizioni imposte da Israele, ma ha fallito. Abbas ha intrapreso la stessa, inutile, strada. Proprio perché le condizioni di Netanyahu sono pensate appositamente per essere irrealizzabili.

Ad esempio, Netanyahu insiste nel sostenere che la leadership palestinese dovrebbe accettare il diritto di Israele ad esistere come stato ebraico, incurante del fatto che su quel territorio vivono anche Palestinesi di religione musulmana e Cristiani, da sempre presenti nei confini della Palestina storica. Disconoscere i diritti di chi non professa la religione ebraica non è solo antidemocratico: equivale sostanzialmente a spianare la strada per una nuova campagna di pulizia etnica dei Palestinesi.

Ma fondamentalmente, non è questo che interessa a Netanyahu. Per lui, il protrarsi dei “colloqui di pace” è solo una copertura per mascherare il progetto di costruzione di insediamenti illegali, che ora assume dimensioni senza precedenti. Continua impunemente a sottrarre terra palestinese nei territori occupati, insistendo nel sostenere che le intenzioni di Israele sono e restano pacifiche.

Sopravvivenza politica

Da quasi un ventennio, Netanyahu ha fondato la propria sopravvivenza politica su questa strategia, con grande accortezza, giocando scorrettamente su paure esistenti o architettando possibili minacce alla sicurezza. Dal suo punto di vista, Hamas, Hezbollah, lo Stato Islamico, al-Qaeda, i Fratelli Musulmani, l’Iran, la Siria e così via, sono essenzialmente la stessa cosa.

Chiaramente non è vero, e lui lo sa benissimo.

Ripercorrendo i suoi discorsi o le interviste rilasciate ai media, questa assurda retorica è palese. Tra le varie minacce paventate, la più ricorrente e mendace è quella relativa a Hamas. Quando la retorica sull’Iran sembra troppo ridondante e poco convincente, o quando Hezbollah diventa irrilevante, (soprattutto negli ultimi tre anni) è sempre pronto a far tornare in gioco Hamas.

Quasi tutti i mezzi di informazione, volutamente o solo per mera ignoranza, fanno il gioco di Netanyahu, presentando il movimento politico palestinese, dotato di un’ala militare, come una minaccia reale,  che ha “giurato” di distruggere Israele.

La demonizzazione dei palestinesi è stata una componente essenziale della strategia militare israeliana nel corso degli anni, applicata ai Fedayiin, ai socialisti, all’OLP e così via; perché rendeva la guerra un’opzione possibile sul piano politico e per Israele la guerra è un pilastro fondamentale nelle linee guida da seguire nella regione, per sottrarre nuova terra, rimettere al loro posto i nemici e “impartire una lezione”, quando necessario.

Per Israele, la guerra è anche uno strumento per distogliere l’opinione pubblica dai problemi interni, economici o meno. Negli ultimi anni, le offensive di Netanyahu e di Israele contro Gaza hanno spesso avuto questo ruolo di distrazione dalle fallimentari politiche adottate. Bombardare Gaza ha costituito una strategia comoda e a basso costo per aumentare la credibilità dei politici israeliani. Ariel Sharon è stato un maestro in questo, ma anche altri prima di lui, come Ehud Barak, Ehud Olmert, Tzipi Livni, e ovviamente, lo stesso Netanyahu.

Probabilmente, però, la recente offensiva israeliana su Gaza, iniziata il 7 luglio con il nome in codice di Operazione Margine Protettivo, sarebbe stata lanciata anche se il primo ministro non fosse stato Netanyahu. Molti segnali lasciavano presagire un’imminente azione militare di Israele.

Le fazioni rivali in Palestina, Hamas e Fatah, avevano raggiunto un accordo, nonostante la contrarietà di Israele. Già solo questo poteva costituire una ragione sufficiente affinché Israele sentisse il bisogno di distruggere Hamas e porre fine a questa tendenza unitaria.

Ma il fattore più importante era il clima diverso che si respirava in Cisgiordania: a giugno ci sono state numerose proteste e manifestazioni, nonostante Israele abbia tentato di reprimerle, con l’aiuto degli scagnozzi addestrati e pagati dagli Stati Uniti, che lavorano per conto dell’ANP.

Questo fattore era ancora più rilevante dell’accordo unitario. I Palestinesi si stavano mobilitando a prescindere dallo scenario politico frammentato che per anni è stato dominato dalla contrapposizione tra Hamas e Fatah. Spostare l’attenzione su Gaza, in cui Netanyahu stava portando avanti una presunta lotta al terrorismo e agli arci-nemici di Israele che avevano “giurato di distruggere lo stato ebraico”, sembrava, in una logica machiavellica, un’idea eccellente.

In effetti, Netanyahu è riuscito, almeno temporaneamente, a distogliere l’attenzione dal clima di tensione che si respirava in Cisgiordania. Ma nelle sue intenzioni, il conflitto doveva risolversi in fretta. Hamas e gli altri gruppi della resistenza erano verosimilmente fiaccati dall’avvento delle cosiddette Primavere Arabe. Per certi versi, erano stati abbandonati dalla Siria, impegnata nella sua guerra civile. Inoltre, la deposizione dei Fratelli Musulmani in Egitto aveva lasciato Hamas particolarmente fragile e vulnerabile.

È stata proprio questa vulnerabilità a spingere Hamas a trovare un accordo con Mahmoud Abbas, che continuava a mantenere un ruolo dominante rispetto alle altre fazioni palestinesi, anche sullo stesso Hamas. A giugno, subito prima della guerra, secondo un sondaggio realizzato dal Palestinian Center for Policy and Survey Research (PCPSR), il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas riscuoteva il 53% dei consensi tra i Palestinesi, mentre Ismail Haniyah, leader di Hamas a Gaza, era fermo al 41%.

Guerra disastrosa

Per Netanyahu la guerra è stata un tentativo di capitalizzare il presunto declino di Hamas. Ma il conflitto si è rivelato un disastro, una sconfitta su tutta la linea. Ha causato oltre 2.150 vittime e più di 11.000 feriti palestinesi.

L’esercito israeliano è stato messo in difficoltà da un fronte di resistenza unitario. Ha subito 64 perdite e centinaia di soldati sono rimasti feriti. L’economia israeliana ha registrato perdite milionarie. La guerra per stroncare Hamas ha dato invece vita al più grande fronte di resistenza palestinese della storia.

Quando l’offensiva è finita, il 26 agosto, Netanyahu, il politico sempre pronto a intervenire su ogni guerra e su ogni questione politica di rilievo, è semplicemente scomparso. Due giorni dopo, ha tenuto una conferenza stampa in cui ha sancito la “vittoria” di Israele.

Ma nessuno concorda, né tra gli israeliani né tra i palestinesi. Secondo un sondaggio effettuato subito dopo la tregua e pubblicato dal Jerusalem Post, il 54% degli Israeliani crede di aver perso la guerra.

Sull’altro versante, anche tra i Palestinesi le cose sono cambiate drasticamente. Secondo il PCPSR, il 61% oggi voterebbe per Haniyeh, che ha guadagnato moltissimi punti in poche settimane; il 94% si dice soddisfatto dell’organizzazione militare della resistenza; ma il dato più sorprendente è che il 79% crede che la resistenza palestinese abbia “vinto” la guerra. 

L’offensiva contro Gaza, vero e proprio genocidio, è stata controproducente per Netanyahu, oltre ogni aspettativa. Ha contribuito alla rinascita di quel movimento che lui stava provando a distruggere. E ora il premier tenta disperatamente di riannodare i fili della sua consueta retorica, accusando Hamas di terrorismo, e addirittura descrivendo Israele come una vittima, quando i Palestinesi hanno appena sepolto migliaia di martiri.

Ma stavolta, solo in pochi sembrano disposti a credergli.

Ramzy Baroud è un editorialista di fama internazionale, scrittore e fondatore del PalestineChronicle.com. Il suo ultimo libro è My Father Was a Freedom Fighter: Gaza’s Untold Story.

Traduzione di Romana Rubeo