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Emilio Salgari è modernista o antimoderno, colonialista o anticolonialista?

di Francesco Lamendola - 22/09/2014

Fonte: Arianna editrice


 


 

Salgari era colonialista o anticolonialista? In altre parole: è possibile leggere in controluce i romanzi dello scrittore veronese come espressione di una mentalità avversa al colonialismo, oppure, al contrario, essi rispecchiano un modo di sentire e di pensare che non esce dai confini ideologici della piccola borghesia di allora, istintivamente favorevole (Adua permettendo) alle imprese coloniali e non certo turbata dal quesito morale sulla loro legittimità di fondo?

Ci eravamo già occupati della cosa, in maniera incidentale, in un precedente articolo (cfr:: «India 1857: come gli Inglesi raccontano, a modo loro, la propria storia coloniale», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 27/10/2011), ma ci sembra che la questione meriti di tornarvi sopra, in maniera più esplicita e articolata.

Perché le generazioni di giovani – e meno giovani – che hanno sognato l’Avventura, con la “a” maiuscola, davanti alle imprese di Sandokan e Tremal Naik, di Yanez de Gomera e di Kammamuri, in India e nelle isole al largo della Malesia del XIX secolo (ma anche davanti a quelle del Corsaro Nero e dei suoi fratelli, negli arcipelaghi dei Caraibi del XVII secolo) hanno spesso identificato il “nemico” per antonomasia nei vari James Brooke (e nei vari Van Guld), ossia in personaggi che incarnano lo spirito imperialista e colonialista europeo (quello inglese nel primo caso, lo spagnolo nel secondo), mentre, viceversa, i lettori si sono identificati con gli uomini che lottano contro gli Europei per la difesa della loro patria minacciata o che, addirittura, rinnegano la loro appartenenza al mondo dei “bianchi” per fare una decisa scelta di campo a favore degli indigeni (come il portoghese Yanez, appunto).

Questo, almeno, è quanto sembra emergere dalla lettura dei romanzi più famosi della sterminata produzione salgariana, quelli che son rimasti impressi, complice anche qualche riduzione cinematografica o televisiva, nella memoria dell’Italiano medio di una certa età: in buona sostanza, i romanzi del ciclo “malese” (che sarebbe più esatto distinguere in due sotto-cicli: “indiano” e “malese” propriamente detto) e quelli del ciclo “americano” o, per capirci meglio, “caraibico”, ruotanti attorno ai pirati della Tortuga.

Se non che, le cose si fanno più  complesse e ingarbugliate quando si passa dai romanzi più noti di Salgari a quelli meno conosciuti, che solo un pubblico di tenaci ammiratori ha avuto la costanza di andarsi a leggere. Ne «La capitana del Yucatan», per esempio, l’eroina di turno è una coraggiosa ragazza spagnola che si batte, sulle coste di Cuba, contro gli Statunitensi nella guerra ispano-americana del 1898. Ora, in quella guerra i patrioti Cubani erano insorti contro il dominio spagnolo e gli Statunitensi, benché animati, a loro volta, da segrete mire imperialistiche (ma neanche troppo segrete, in effetti), avendo preso a pretesto per l’intervento proprio le “atrocità” spagnole nell’isola, si trovarono ad operare come alleati di un popolo coloniale in lotta per l’indipendenza e pertanto, nel complesso, furono percepiti come liberatori o almeno come “amici” della giusta causa (cliché di cui si è impossessato ben presto anche il cinema hollywoodiano). Se Salgari avesse voluto mandare un messaggio anticolonialista, avrebbe dovuto scegliere come protagonista una balda ragazza yankee e far violare a lei il blocco spagnolo dell’isola, non il contrario.

Nel romanzo «Le stragi delle Filippine», ambientato (di nuovo) al crepuscolo dell’impero coloniale spagnolo, questa volta nelle isole Filippine, i Moros sono presentati come dei pazzi fanatici assetati di morte, anche della propria, insomma in maniera moto simile a dei terroristi suicidi “ante litteram”: e questo fin dalle primissime righe, per cui il lettore non può fare a meno di chiedersi se dei selvaggi così obbrobriosi siano veramente degni dell’autogoverno. Ancora una volta, sembrerebbe (come nel caso dei Thugs, combattuti all’ultimo sangue dalle autorità britanniche in India, e di cui Salgari parla nei romanzi «I misteri della jungla nera», «I pirati della Malesia» e «Le due tigri»), che il colonialismo europeo svolga un ruolo, se non proprio encomiabile, certo necessario, non tanto per la difesa della “civiltà”, quanto della pura e semplice sopravvivenza, specialmente dei soggetti più deboli e indifesi. E allora?

Ancora. Nel romanzo «Sulle frontiere del Far West» la protagonista, Yalla, è una capo-tribù feroce e sanguinaria, che, alla fine, non solo viene sconfitta e uccisa, ma anche scotennata dall’agente indiano John; eppure ella aveva avuto le sue buone ragioni per odiare personalmente i bianchi: come si spiega, dunque, una simile impostazione del suo personaggio e, soprattutto, una simile conclusione? Ma non è finita. Nel successivo romanzo «La scotennatrice» troviamo la figlia di Yalla (e di Nuvola Rossa, capo dei Sioux), Minnehaha, che, bieca e sanguinaria come la madre, si impone il sacro dovere di vendicarla: ed effettivamente riesce a impadronirsi di John e a scotennarlo, ma non a ucciderlo. Nell’ultimo romanzo della trilogia, «Le selve ardenti», anche Minnehaha finisce per soccombere: crivellata di proiettili, lascia cadere lo scudo e il tomawhak e crolla a terra emettendo un ruggito di belva ferita a morte.

Resta dunque l’interrogativo: da che parte della barricata si colloca Salgari, fra i colonialisti o fra gli anti-colonialisti?

Così riassumeva la questione l’illustre orientalista Paolo Beonio Brocchieri, grande conoscitore del Giappone, docente di Storia e istituzioni dei Paesi asiatici presso l’Università di Pavia, oltre che collaboratore del «Corriere della Sera», in un articolo intitolato «In viaggio con Salgari» (su«Qui Touring», settimanale del Touring Club Italiano, Milano, n. 23-24, luglio 1984, pp. 62-64):

 

«È noto che i lettori di Salgari si dividono in due schiere contrapposte come gli appassionati di opposte squadre sportive: ci sono quelli fedeli ai corsari dei Caraibi e quelli che preferiscono di gran lunga pirati e strangolatori dei paesi esotici. Iscritto da sempre alla prima schiera, forse anche per le improvvide decisioni natalizie di qualche congiunto, mi sono trovato in serio imbarazzo quando ho cominciato a occuparmi dell’Asia e a viaggiare per l’Asia. E tuttavia, quando sono arrivato per la prima volta a Delhi, l’India era per me quella fissata da Salgari, da Kipling e da un libro di “Novelle indiane”. […]

Ma la storia? Quale storia aveva nella testa Salgari quando scriveva le sue saghe? E soprattutto quella sterminata che ha in Tremal Naik e in Sandokan i due protagonisti, nella giungla bengalese e nei mari della Sonda i due scenari sconfinati. Una attenta lettura della infinita letteratura salgariana consentirebbe interessanti conclusioni sul come il nostro autore percepiva e viveva la storia del suo tempo; Omar Calabrese in un libro di qualche tempo fa ha sottolineato la dimensione implicitamente garibaldina della letteratura salgariana.

Ma ora vorrei inquadrare in un’altra prospettiva la nostra attenzione al “ciclo asiatico”: su di esso scrivo volentieri qualcosa, quasi a riscattare l’antica referenza per il “ciclo americano”. E comincerò per dire che il “ciclo asiatico” ha un rilievo del tutto particolare nella vita di Emilio Salgari: “I misteri della giungla nera” appaiono per la prima volta sul “Telegrafo” appena quattro anni dopo il debutto letterario dell’autore; “La rivincita di Yanez” esce postumo nel 1913 con la complicità di Omar, figlio di Emilio.

Questo ciclo (che poi, bisogna ammetterlo, si compone in pratica di due cicli distinti, quello indiano e quello malese connessi soltanto dall’amicizia un po’ bizzarra di Sandokan e di Tremal Naik) si ambienta attorno alla metà del secolo scorso ed evoca indirettamente due precise pagine storiche: la lotta anti-inglese degli indiani al tempo della guerra dei sepoys e la lotta contro i pirati malesi condotta da Sir James Brooke, il raja bianco del Sarawak. Se pensiamo che quest’ultimo è visto da Salgari come il cattivissimo della storia, degno ma nefando avversario del grande Sandokan, verrebbe voglia di assegnare al romanziere della nostra infanzia una schietta benemerenza anticolonialista: e Sandokan è senza dubbio un po’ Garibaldi.

Ma nel ciclo indiano, anche se i protagonisti sono indiani (da Tremal Naik, solitario abitatore della giungla bengalese, a Kammamuri, il prode maratto) agli inglesi spetta un ruolo tutto sommato positivo, anche se questo è dovuto soprattutto ai meriti della divina Ada (che consentirebbe con qualche sforzo di recuperare altri valori modernizzanti del nostro: sottolineando il contributo al superamento delle barriere razziali nel campo dell’amore). Ma, insomma, i grandi cattivi sono in questo caso i Tughs, che si battono contro gli inglesi e va quindi a farsi benedire tutta la mistica delle lotte di liberazione.

In conclusione possiamo dire che riecheggiano in Salgari i motivi della sua epoca, magari in modo confuso e contraddittorio, ma non senza immediatezza. Gli echi risorgimentali gli ispirano simpatia per i ribelli dell’Asia; ma poi si ricorda che l’Inghilterra è un fatto di civiltà; i riti delle religioni indiane sono tutto sommato diabolici e insensati, ma una umanità comune viene riaffermata al di là di ogni particolarismo di tempo e di spazio.»

 

Prima di giungere a una conclusione, bisogna tener conto del fatto che, tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, quando apparvero i romanzi di Emilio Salgari, non solo la sensibilità morale, ma anche l’ideologia politica dell’Italiano medio, erano ben diverse da quelle che si sono andate formando, in seguito, attraverso la drammatica esperienza delle due guerre mondiali, della crisi del sistema liberale, del fascismo, del secondo dopoguerra e delle vicende internazionali che, passando per la Guerra Fredda, hanno visto la decolonizzazione e il ritorno dei nazionalismi, i quali, si direbbe, non hanno imparato nulla dalla lezione della storia (si veda, a titolo di esempio, il comportamento dei Cinesi nei confronti dei Tibetani, o quello degli Indonesiani nei confronti degli abitanti di Timor Est).

Quando i libri di Salgari apparvero, per la prima volta, nelle vetrine delle librerie, molti educatori e critici letterari storsero il naso, in parte per la carica di violenza in essi contenuta, specialmente sotto la forma del desiderio di vendetta (la molla potente che muove sia Sandokan, sia il Corsaro Nero, sia quasi tutti gli eroi e le eroine, tanto positivi che negativi), in parte per il sottinteso “anarchico” o comunque “libertario” che porta l’Autore non solo a capovolgere molti stereotipi razzisti ed etnocentrici allora diffusi (il famigerato ”fardello dell’uomo bianco” di Rudyard Kipling!), ma addirittura a solidarizzare con coloro i quali, fino a quel momento, erano stati presentati, nel migliore dei casi, come dei “selvaggi” bisognosi di essere guidati sulle vie del vivere civile.

Il dubbio sui reali sentimenti “politici” di Salgari, secondo noi, è legittimo, e destinato a rimanere; almeno fino a quando non la smetteremo di pretendere di applicare la nostra sensibilità e i nostri criteri di giudizio ideologico e morale a scrittori di un secolo fa, i quali, oltretutto, non miravano affatto a lanciare dei “manifesti” di liberazione, ma semplicemente - e scusate se è poco - ad avvincere ragazzi e adolescenti (e non solo: il Fanciullino di Pascoli sonnecchia in fondo a ogni adulto) costruendo delle storie d’avventura assolutamente libere e fantasiose. E un dubbio altrettanto forte permane rispetto all’atteggiamento di Salgari nei confronti della modernità: non è possibile scioglierlo in maniera univoca, perché, se talora egli si abbandona a celebrare il progresso tecnologico nel più puro stile positivista e perfino con lampeggiamenti avveniristici e quasi fantascientifici (come nel romanzo «Le meraviglie del Duemila»), più spesso il mondo che esalta è fatto di uomini e donne istintivi, di passioni primordiali, di ritmi antichi, di tradizioni da difendere contro l’avanzare minaccioso della “civiltà” (Giovanni Verga, quasi negli stessi anni, aveva parlato - e non in bene -  della “fiumana del progresso”).

Ecco perché non ci sentiamo di condividere del tutto la classica lettura anti-colonialista che ne fanno alcuni scrittori contemporanei, come lo spagnolo Paco Ignacio Taibo II, e anche alcuni storici della letteratura, come illustra il giudizio che riportiamo qui di seguito (da: Baldi-Giusso-Zaretti-Zaccaria, «Dal testo alla storia, dalla storia al testo. Letteratura italiana con pagine di scrittori stranieri», Torino, Paravia, 1993, vol. III, tomo I, p. 1047):

 

«...Ma sulle giovani generazioni questi romanzi [di Salgari] hanno agito in direzione esattamente opposta rispetto a “Cuore” e a “Pinocchio”: se il messaggio di quei libri educativi era conformistico, invitava all’integrazione del ragazzo nel sistema delle norme correnti, quello di Salgari è essenzialmente anticonformistico: i suoi personaggi più famosi e amati sono eroici e nobili fuorilegge, in lotta contro la società e i valori costituiti, secondo un modulo romantico: Sandokan e il Corsaro Nero sono infatti le derivazioni, adattate al livello della narrativa popolare, di una figura centrale della letteratura romantica “alta”, il sublime fuorilegge byroniano. Non solo, ma in un’età di imperialismo colonialista, in cui si alimentava il mito della superiorità dell’uomo bianco e il disprezzo per i popoli delle altre razze, ritenuti barbari e ben meritevoli di essere colonizzati, gli eroi di Salgari sono spesso uomini di colore, malesi, indiani, filippini, pellirosse, che lottano generosamente contro l’oppressione coloniale. Nell’elementare schematismo etico di questi romanzi, che, come è proprio del romanzo popolare, si fondano sulla contrapposizione netta di “buoni” e “cattivi”, i “buoni” sono gli indigeni che lottano per la loro indipendenza, i “cattivi” sono i bianchi che li vogliono dominare:si pensi appunto a Sandokan e al suo acerrimo avversario, Lord James Broke. In questo senso, Salgari lancia un messaggio opposto a quello di un altro fortunato autore di romanzi esotico-avventurosi per ragazzi, Rudyard Kipling (1856-1936), che è il celebratore del colonialismo inglese.»

 

Con tutto rispetto, a noi sembra che Salgari non abbia voluto “lanciare”  proprio nessun messaggio politico ai suoi lettori, nemmeno inconscio, nemmeno involontario: ché, se ci si prende la briga di passare al vaglio, uno per uno, i suoi 80 romanzi e 120 racconti, ci si accorgerà che le sue simpatie, se così le vogliamo chiamare, vanno, di volta in volta, là dove il suo istinto di scrittore d’avventura lo porta: vale a dire dove l’avventura è più promettente, indipendentemente dal colore politico, dalla divisa, dalla razza e così via. Non vogliamo affatto dire, con ciò, che Salgari fosse uno scrittore qualunquista (almeno, non nel senso peggiorativo e denigratorio del termine), né, a maggior ragione, che fosse un opportunista, deciso a navigare col vento in poppa del sentimento comune: abbiamo visto, ed è vero, che la sua narrativa si contrappone, per molti aspetti, ai canoni morali e pedagogici del suo tempo. Ma attenzione: guai a farne una bandiera delle lotte anticoloniali; ne tradiremmo lo spirito autentico, che è spirito libero di narratore d’avventura, affrancato da qualsiasi schema ideologico precostituito.

Certo, Lady Marianna volta le spalle al suo mondo, il mondo dei bianchi, per seguire il cuore, che la porta irresistibilmente verso il nemico, la “Tigre” della Malesia: Sandokan; ma in questo non c’è, né in lei, né in Salgari, alcun intento anti-inglese, nemmeno anti-coloniale: c’è solo la scelta istintiva, felice perché libera e consapevole, di seguire il proprio sentimento. Salgari è un romantico e i suoi eroi - in questo gli Autori sopra citati hanno pienamente ragione – sono altrettanti ribelli romantici: come i Masnadieri di Schiller e come il Robin Hood di Dumas; è il cuore che essi sono disposti a seguire, se necessario contro tutto e contro tutti, non la ragione.

In questo sta il loro maggior pregio, e anche- se ce lo si consente – il loro limite più evidente.

Ma prendiamolo così, Salgari, per quello che è e per quello che vuol essere: non imprestiamogli etichette che non gli appartengono; non rimpiccioliamolo, con la pretesa di farlo politicamente più “consapevole” e, magari, più illuminato e “progressista”, di quanto in realtà non fosse e non volesse...