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La realtà di ciascun fatto è circoscritta, ma la sua verità invade l’infinito

di Francesco Lamendola - 22/09/2014

Fonte: Arianna editrice




 

«La realtà di ciascun fatto è circoscritta, ma la sua verità invade l’infinito»: così scriveva nelle sue «Divagazioni filosofiche» un pensatore decisamente ignorato dalla cultura ufficiale, il sacerdote Giuseppe Petich (1869-53), che in odore di modernismo (ma probabilmente a torto), venne relegato dalle autorità ecclesiastiche, per lunghi anni, a svolgere il modestissimo incarico di cappellano del cimitero di Treviso.

In questa singolare, interessantissima figura di filosofo isolato e solitario, in dialogo ideale con il pensiero moderno e tutto proteso a costruire una metafisica evoluzionista - contraddizione in termini, forse; ma, comunque, cosa ben diversa da una pura e semplice variante sul tema del modernismo cattolico del primo Novecento - avevamo già avuto a suo tempo occasione di imbatterci (cfr. l’articolo «Lo spirito non s’identifica con l’io, ma è un ente sostanzialmente diverso da esso», apparso sul sito di Arianna Editrice in data 09/10/2009).

A noi sembra che l’approccio di Petich al problema gnoseologico sia particolarmente valido e fecondo, proprio per il modo, chiaro e costruttivo, con il quale egli affronta i due nodi fondamentali della conoscenza: quello della realtà e quello della verità. Che cosa si può definire come reale, e che cosa merita il giudizio di veritiero? Laddove, come si vede bene, il confine tra problema gnoseologico, o della conoscenza, e problema ontologico, o dell’essere, sono inevitabilmente incerti e destinati a sfumare l’uno nell’altro.

Punto primo: che cosa si può definire come reale. Diciamo “reale” ciò che afferisce alla realtà; e definiamo “realtà” l’insieme delle cose che constatiamo, o che supponiamo, esistenti, cioè dotate di una propria consistenza effettiva, di uno statuto o di una condizione tali, per cui le riteniamo tali quali ci appaiono o quali ci si rivelano concettualmente, secondo la nostra percezione sensibile e secondo la nostra comprensione intellettuale.

Naturalmente, “reale” non è solo ciò che si vede, che si tocca, che si misura e che si può quantificare e/o sperimentare: questa è la rozza credenza del positivismo. Così come “reale” non è solo ciò che si può dimostrare o verificare razionalmente: se così fosse, dovremmo negare il diritto di cittadinanza a tutto ciò che la nostra ragione non è in grado di afferrare con i suoi soli strumenti concettuali; vale a dire che dovremmo escludere dal nostro orizzonte la porzione più ampia e più profonda della realtà in cui siamo immersi e alla quale partecipiamo.

Sia l’empirismo che il razionalismo, pertanto, si precludono con le loro stesse mani la possibilità, non diciamo di comprendere, ma anche soltanto di riconoscere ciò che è reale: tale è la miseria della filosofia di Locke, per il quale non si dà conoscenza se non mediante la sensazione, e di Kant, per il quale non si dà conoscenza se non nell’io penso (o appercezione trascendentale): una vera e propria auto-castrazione, deliberata e intenzionale, del pensiero moderno. A maggior ragione non meriterebbero neppure la qualifica di filosofiche le teorie gnoseologiche dell’utilitarismo e dell’idealismo: la prima, perché riduce le cose a strumenti dell’interesse soggettivo e quindi le degrada a semplici funzioni strumentali dell’io; la seconda, perché, invertendo il giusto ordine di rapporti fra essere e pensiero, e sostenendo che non l’essere crea il pensiero, ma il pensiero crea l’essere, la conoscenza diventa il delirio soggettivo dell’io.

Il reale, viceversa, deve essere immaginato come un immenso palazzo, della cui vastità noi non abbiamo neppure un’idea e del quale possiamo bensì conoscere alcune stanze, o inferire l’esistenza di altre, mediante i sensi e mediante la ragione; tuttavia commetteremmo un errore gravissimo se dichiarassimo inesistenti quelle stanze di cui non possediamo la chiave o di cui non possiamo avere un’idea inferendola, col ragionamento, in base alle poche stanze che già conosciamo (o crediamo di conoscere). Il problema, infatti, è che noi non possiamo conoscere se non con gli strumenti della nostra mente – come bene aveva mostrato Berkeley -, ma non abbiamo alcun diritto di dedurne che solo ciò che è contenuto nella nostra mente merita la qualifica di reale.

“Irreale”, pertanto, è un termine ambiguo: a rigore, niente è “irreale”, nel senso di inesistente; qualsiasi cosa, per quanto fantastica, per il solo fatto di essere pensata, possiede già un certo grado di realtà. Questo ci porta a una importante conclusione: non esistono cose “reali” e cose “irreali”, ma solo cose aventi un differente grado di realtà oggettiva. Le cose immaginate da un pazzo sono reali, ma soggettivamente; e lo stesso vale per le cose sognate da un poeta. Bisogna andare molto cauti, peraltro, nel designare ciò che è reale in modo oggettivo: il concetto di oggettività si rivela molto più sfaccettato e ed elusivo di quanto non si tenderebbe a credere. Solo la conoscenza matematica è capace di qualificare come “oggettiva” una data realtà; ma bisogna precisare subito che solo una porzione della realtà può essere descritta in termini matematici e che perfino all’interno della matematica esistono diverse maniere di descrivere ciò che è reale: nelle geometrie non euclidee, per esempio, la somma degli angoli interni di un triangolo può superare o essere inferiore a centottanta gradi, cioè a un angolo piatto.

In definitiva noi andiamo alla ricerca di qualcosa che non conosciamo, perché, se lo conoscessimo già, non ne andremmo in cerca; e tuttavia che non ignoriamo del tutto, perché, se così fosse, non potremmo neppure sentirne l’esigenza: situazione paradossale, ma potenzialmente feconda, che già aveva messo in evidenza Socrate, andando al cuore del problema della conoscenza. Il nostro statuto ontologico di creature pensanti, dunque, è una via di mezzo fra sapienza e ignoranza: sappiamo perché cerchiamo, e il nostro cercare ne è la prova; ma, proprio perché cerchiamo, sappiamo anche di non sapere, di ignorare.

Il reale, dunque, è ciò che vorremmo sapere, ciò di cui andiamo alla ricerca: da ciò deriva anche la nostra caratteristica di viandante, “homo viator”: appartiene alla condizione umana l’essere in cammino, il non accontentarsi di ciò che già si possiede (o si crede di possedere), dunque il fatto di sentire il morso dell’inquietudine. Solo chi è inquieto si mette in cammino e solo chi si mette in cammino non sa dove arriverà, ma sa anche di non poter farne a meno: e questo caratterizza la condizione umana. Chi non cerca, chi non si mette in gioco, chi non si pone in cammino, è morto: non è umano, ma lo sembra soltanto, ne ha l’apparenza esteriore.

Una roccia, una pianta, un animale, sono quello che appaiono: il loro essere coincide con il loro apparire. Una roccia dà sempre e soltanto roccia; una pianta, sempre e soltanto pianta; un animale, sempre e soltanto animale. L’uomo, invece, è colui che deve andare oltre se stesso, e dunque superarsi continuamente, svelando – prima di tutto a se medesimo – altri aspetti di sé, prima ignorati. Per l’uomo il mondo è fonte di continua meraviglia, perché, viandante curioso e assetato di conoscenza, ogni cosa è per lui una rivelazione; per l’uomo, ad esempio, un albero può essere sia una creatura vivente, sia un oggetto di utilizzo economico, sia una fonte d’ispirazione estetica, sia una rivelazione mistica del mistero dell’essere. Le cose, per l’uomo, non sono univoche, ma multilaterali; e le loro possibili interpretazioni sono vastissime, pressoché inesauribili. All’uomo, dunque, appartiene il privilegio di poter leggere le cose in cento maniere differenti, ciascuna delle quali legittima nel suo ambito; e di poter fare la medesima cosa anche nei confronti di se stesso: ma, in questo caso, assumendosi la responsabilità di ciò che vuol essere, perché si diventa quello che si riconosce come vero.

E qui passiamo al secondo punto: che cosa merita il giudizio di veritiero. Diciamo “vera” una cosa che è come deve essere, che si accorda con il proprio essere e con l’essere in generale; “falsa”, o non vera, una cosa in cui tale accordo manca. Dunque la verità non è una qualità inerente alle cose, ma un giudizio che noi esprimiamo su di esse: diciamo, di volta in volta, che la tale cosa è vera o falsa, intendendo che l’abbiamo trovata conforme o non conforme a come deve essere. Questo, a sua volta, presuppone un ordine complessivo nella realtà, e anche una gerarchia di rapporti: per essere vera, una cosa deve uniformarsi a tale ordine e a tale gerarchia.

Si potrebbe, a buon diritto, domandare se TUTTA la verità di una cosa si esaurisca nel giudizio che viene dato su di essa; se le cose non siano portatrici, in se stesse  e per se stesse, di una loro intima, essenziale verità, non soggetta al giudizio esterno; se il vero conoscere non sia, per l’appunto, il passaggio dal giudizio sulle cose alla loro comprensione integrale, alla loro intuizione esaustiva, mediante un atto di apertura coscienziale e di illuminazione, che non sia solo un atto del Logos, ma un movimento dell’essere che ponga in gioco tutte le potenzialità gnoseologiche insiste nel rapporto fra soggetto conoscente e oggetto conosciuto.

È evidente che tale dualismo viene a cadere allorché, eliminando il relativo e il contingente, di riduzione in riduzione, si avanza verso il cuore della realtà, cioè verso l’Assoluto: a quel punto non vi è più una distinzione fra colui che vuol conoscere e ciò che deve essere conosciuto, ma una fusione e una pacificazione suprema, accogliente, luminosa, nella quale la domanda trova la sua risposta prima ancora di essere formulata in quanto tale; perché, quando la domanda è solo una domanda, l’io che la formula si pone sempre come una cosa distinta e separata dall’oggetto verso cui si protende, per cui la risposta integrale tenderà sempre a sottrarsi, a sfuggire.

In parole più semplici: una formula matematica, per esempio, può essere vera, anche se io, erroneamente, la giudico falsa; allo stesso modo, la verità di cui le cose sono portatrici non sempre viene riconosciuta come tale, può anzi essere gravemente misconosciuta, respinta, rinnegata: ciò non la abolisce, non la mette in forse, non la incrina neppure. Il difetto non sta nelle cose, ma nel modo in cui le giudichiamo: perché ogni giudizio non è solo un atto della conoscenza, ma anche un atto morale; le due cose sono inseparabili. Diciamo, infatti, che è “bene” una conoscenza conforme a verità, “male” una conoscenza da essa difforme.

Un importante corollario di quanto detto è che ogni conoscenza delle singole cose corrisponde a una conoscenza che, per quanto veritiera possa essere a livello parziale, sarà sempre incompleta, e dunque fuorviante e “falsa”, se assolutizzata. In altre parole: il conoscere le cose non corrisponde al conoscere in quanto tale: perché il conoscere, senza ulteriori determinazioni, è conoscenza del Tutto e non delle singole parti; mentre noi, spesso, scambiamo quest’ultima come la forma più esatta e veritiera di conoscenza, mettendoci fuori strada da noi stessi.

E ora torniamo alla folgorante intuizione di Giuseppe Petich, secondo cui «la realtà di ciascun fatto è circoscritta, ma la sua verità invade l’infinito». Che cosa vuol dire? Che le cose sono limitate e circoscritte, per definizione (altrimenti non sarebbero tali, sarebbero l’assoluto) ma che, nello stesso tempo, la verità di cui sono portatrici – e che non sempre o non necessariamente coincide con l’esattezza del nostro giudizio – non si esaurisce in esse, ma è un frammento della verità universale. Dunque, ogni verità che non sia universale equivale, senza mezze misure, a una menzogna: una cosa non può essere parzialmente vera; o meglio: può esserlo, se la sua conoscenza parziale è esplicitata e tenuta sempre presente. In tal senso, si tratta di una verità provvisorio, bisognevole di ulteriore espansione e, per così dire, di perfezionamento. Ma se qualcuno pretende di spacciare una verità parziale per una verità in quanto tale, cioè per LA verità, “sic et simpliciter”, allora ci troviamo in presenza di una falsificazione della conoscenza.

Ripetiamo: le cose non sono vere (o false) se non in quanto si uniformano alla verità del tutto; e la verità del tutto coincide con la totalità del Reale. Ora, soltanto l’Essere contiene in sé tutte le determinazioni possibili del reale, dunque soltanto l’Essere è, in senso stretto, reale: tutto il resto possiede una realtà parziale e quindi anche una verità transitoria. Le cose non sono vere, ma diventano vere, per noi, qualora la nostra conoscenza divenga capace di porle nella giusta prospettiva, che è la prospettiva dell’assoluto e dell’eterno; se no, noi non facciamo altro che falsificare la realtà, magari inorgogliendoci perché crediamo di aver fatto chissà quali progressi. Dunque: solo dell’Assoluto si ha conoscenza; del relativo, opinione.

La conclusione è che non si dà conoscenza vera, al di fuori dell’Essere; e che tutta la filosofia moderna, da Cartesio e Kant in poi, si è messa sulla strada di una falsa conoscenza, perché, negando la metafisica, ha negato in partenza qualunque possibilità di approccio veritiero alla realtà.

Heidegger parlava di “sentieri interrotti”; in questo caso va detto: sentieri sbagliati. Se si vuole ristabilire un rapporto veritiero - e non schizofrenico - con la realtà, si deve riconoscere l’errore…