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La straordinaria vicenda di Robert Knox che ha ispirato a Defoe il suo Robinson Crusoe

di Francesco Lamendola - 07/10/2014

Fonte: Arianna editrice

 


 


Tutti sanno che Daniel Defoe, per creare il celeberrimo personaggio di Robinson Crusoe, si è ispirato alla figura, realmente esistita, del marinaio scozzese Alexander Selkirk, che visse in completa solitudine sull’isola di Mas a Tierra, nel Pacifico sud-orientale - oggi ribattezzata con il suo nome - fra l’ottobre del 1704 e il febbraio del 1709, anche se lo scrittore si prese la libertà  di collocare l’isola del naufragio davanti alla foce del fiume Orinoco, “spostandola” nell’Atlantico (cfr. il nostro articolo «Quando la realtà supera la fantasia: la storia del vero Robinson, naufrago dimenticato», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 24/117/2011).

A sua volta, Selkirk era stato “preceduto”, come abitante solitario dell’isola di Mas a Tierra, da un indiano di razza mosquite, chiamato Will, dal gennaio 1861 all’aprile 1864: abbandonato da una squadra di bucanieri, messi in allarme dal sopraggiungere di una flotta spagnola, era stato ripreso a bordo dal capitano William Dampier poco meno di tre anni dopo; e pare che, molti anni prima di costui, un altro marinaio ancora, del quale poco o nulla sappiamo, fosse stato costretto a soggiornare su quella medesima isola, per un periodo di ben cinque anni.

Ora, se ci spostiamo dall’Oceano Pacifico all’Oceano Indiano, troviamo un altro personaggio, assai conosciuto nell’ambito della cultura inglese, ma non al di fuori di essa, che, molto probabilmente, ha contribuito, anch’egli, alla creazione di Robinsn Crusoe da parte di Daniel Defoe: parliamo di Robert Knox, un marinaio inglese della Compagnia delle Indie Orientali, che nel 1659 naufragò sulle coste dello Sri Lanka con alcuni compagni e le cui avventure, realmente accadute e ben documentate, hanno dell’incredibile, tanto da superare l’immaginazione.

Defoe, al personaggio di Robert Knox, si ispirò soprattutto per quel che riguarda la dimensione psicologica: per quella sua ansia ammirevole di sapere, di indagare, per quel piglio di osservatore curioso d’ogni cosa, pur nella sua condizione di prigioniero, che ne fa quasi un Ulisse del XVII secolo, bramoso di «divenir del mondo esperto, e de li vizi umani e del valore», per il quale non esistono catene o sbarre abbastanza robuste da inibirne la sete di conoscenza.

Nulla sfugge alla curiosità onnivora di Knox, che tutto annota e tutto registra accuratamente, minuziosamente, con acribia, quasi con pignoleria: il paese, le piante, gli animali, gli uomini, le leggi, i costumi; a lui si deve, fra l’altro, la descrizione di una esecuzione capitale eseguita, per ordine del re, mediante lo schiacciamento del corpo del condannato sotto le zampe di un elefante ammaestrato (supplizio che, nel subcontinente indiano, esisteva da qualcosa come 4.000 anni); prima, però, il disgraziato era stato straziato dal pachiderma con le zanne.

Robert Knox, nato nel 1641 e morto nel 1720, era figlio di un capitano di mare che portava il suo stesso nome; si era imbarcato per il suo primo viaggio all’età di quattordici anni, nel 1655, e poi era salpato insieme al padre, allorché questi era passato al servizio della Compagnia Inglese delle Indie Orientali, cui Cromwell aveva concesso il monopolio del commercio con l’Oceano Indiano. Nel novembre del 1659, a causa di una tempesta che aveva ridotto la loro nave in cattive condizioni, disalberandola, i due Knox erano stati costretti a deviare dalla rotta stabilita e a cercare riparo in un porto dell’isola di Ceylon, e ciò aveva segnato l’inizio delle loro disavventure.

Non si sa esattamente come, ma pare che il vecchio Knox abbia irritato il re di Candy, Rajasinghe II, per una involontaria inosservanza dell’etichetta di corte; poiché in quel momento vi era una forte tensione fra il sovrano e le potenze europee interessate allo sfruttamento commerciale dell’Oriente, egli decise di sequestrare la nave e trattenere sedici marinai inglesi dell’equipaggio, fra i quali Robert Knox padre e figlio, in qualità di ostaggi. Non si trattò di una vera e propria prigionia e agli Europei venne permesso di procurarsi di che vivere praticando svariati mestieri (il giovane Knox fece, volta a volta, il contadino, l’usuraio e il venditore ambulante); però il clima li mise duramente alla prova e nel febbraio del 1661 il vecchio Knox morì di malaria.

Il soggiorno obbligato di Robert Knox il giovane si protrasse per ben diciannove anni e terminò solo quando, insieme al compagno Stephen Rutland, ebbe l’occasione di eludere i suoi sorveglianti e di fuggire, raggiungendo un forte olandese sulla costa opposta dell’isola; da lì gli Olandesi lo fecero salire a bordo di una nave diretta a Batavia, la loro base politica e commerciale nelle Indie Orientali, e poi, finalmente, ma questa volta a bordo di una nave inglese, egli poté lasciare l’Oceano Indiano e fare ritorno in Inghilterra, nel 1680. Le sue peripezie lo avevano tenuto lontano da casa per più di vent’anni: una assenza superiore perfino a quella di Marco Polo da Venezia, che era durata circa diciassette anni.

Dopo il suo ritorno in patria Robert Knox volle mettere per iscritto le sue avventure e le diede alle stampe nel 1681 con il lunghissimo titolo, come allora si usava (non si dimentichi che siamo in piena età barocca): «An historical relation of the island Ceylon, in the East Indies with an account of the detaining in captivity the author and divers other Englishmen now living there, and of the author's.» Il libro ebbe subito un notevole successo e diede al suo autore una fama internazionale (in seguito caduta), mediante la quale entrò in rapporti anche con l’illustre scienziato Robert Hooke (1635-1703), membro della Royal Society, cultore di fisica e chimica, o, come allora si diceva, di filosofia naturale, oltre che architetto ed erudito dagli interessi poliedrici.

Robert Knox, dunque, è una figura interessante e assai caratteristica nella cultura del XVII secolo: commerciante per mestiere e per tradizione familiare, avventuriero per vocazione, scrittore per caso, osservatore instancabile per istinto e anche per combattere la noia di quei diciannove anni di forzata permanenza in un’isola tropicale dal clima malsano, lontano dalla patria e dagli amici, in un’epoca in cui le distanze e le difficoltà tecniche dei viaggi per mare facevano sì che un soggiorno a Ceylon fosse, per un Europeo, l’equivalente di un odierno viaggio sulla Luna, o quasi.

Così ricorda questa singolare figura di uomo di mare lo scrittore anglo-singalese Michael Ondaatje nel suo libro di ricordi «Aria di famiglia» (titolo originale: «Running in the Family», 1982; traduzione dall’inglese di G. Pitino, Milano, Garzanti, 1997, pp. 64-66):

 

«Ceylon è a quaranta chilometri dal Paradiso”, recita una leggenda, “da lì se ne ode lo scroscio delle fontane”. Ma Robert Knox, tenuto prigioniero sull’isola nel XVII secolo, ricordava così quel tempo: “Tanto vissi Desolato, Affranto e Recluso, da non avere in terra altro conforto che quello di Colui che dal Cielo guarda e ascolta il lamento del prigioniero.

Difficile il salto da un’immagine all’altra. Non meno di quanto lo fosse per Desdemona comprendere il valore delle imprese militari del Moro. Possediamo la terra in cui cresciamo, altrove siamo alieni e invasori. Il talento di Otello era la manica decorata da cui lei era ammaliata. Quest’isola era un paradiso da saccheggiare.  Tutto il possibile veniva raccolto e trasportato in Europa: cardamomo, pepe, seta, zenzero, sandalo, olio di senape, radici di borasso, tamarindo, baptisia, corna di cervo, zanne di elefante, strutto di maiale, calamandra, corallo, sette varietà di cannella perle e cocciniglia. “Un mare profumato”.

Un paradiso, comunque, con i suoi aspetti inquietanti. Il mio avo, William Charles Ondaatje, conosceva almeno centocinquanta varietà di veleni a disposizione dei suoi compatrioti, dei quali nessuno, pare, fu mai utilizzato contro gli invasori. Diversi tipi di arsenico, succhi di centopiede, scorpione, rospo e lampiride, sciacallo e mangusta, granelli di opale nera frantumata – quest’ultima uccide un uomo nel giro di pochi minuti.  “I semi di croton vengono impiegati per favorire furti e altri propositi criminosi”, scriveva nei suoi appunti di biologia. Nel momento più lirico, nella nota in calce n. 28 della sua relazione sui Giardini Botanici Reali, William Charles si discosta dalla retorica scientifica, si allontana dal giardino latinizzato e, con la passione di una chiocciola  o di un uccello, ci dona il suo cuore.

“Qui crescono palme maestose dal fusto torreggiante e leggiadro fogliame, il fiore di scarpa, l’edule fior di passione. Qui la ninfea nuota nei fiumi con le sue foglie espanse - principessa delle piante acquatiche!  L’aga-muta-naet-wala, il “rampicante senza inizio né fine”, s’avviluppa agli alberi e pende a larghi festoni.., piante davvero curiose queste che non possiedono foglie né radici. Qui è l’alta thunbergia, la justicia dal muso largo, la Senape delle scritture, con le sue foglie succose e le minuscole bacche. L’attiva acacia, la cui dolce fragranza profuma le desolate lande mentre altre malinconiche piante senza nome profumano la notte con i boccioli che spargono nelle tenebre”.Gli appunti si deliziano degli incanti e dei veleni. Egli inventa “carta” fatta con piante indigene , sperimenta veleni e medicine locali su cani e topi. “A Jaffna, un uomo si è suicidato mangiando un bulbo di “neagala”… pare che un infuso di piombaggine provochi l’aborto”. Elenca senza un ordine preciso tutte le potenziali armi che gli stanno intorno. I karapothas [ossia gli stranieri, nota nostra] vi strisciavano sopra e ne ammiravano la bellezza.

L’isola celava la propria civiltà. Arti occulte e costumi e cerimonie religiose si ritiravano nell’entroterra, lontano dalle nuove città. Solo Robert Knox, prigioniero di un re kandyano per vent’anni, scrisse dell’isola accuratamente, imparandone le tradizioni. Il suo memoriale, “Una relazione storica”, fu utilizzato da Defoe come riferimento psicologico per il suo eternamente curioso Robinsion Crusoe. “Se si scruta nei tratti di Crusoe, si scoprirà un uomo che non era il disperato abitante di un’isola deserta, bensì un individuo su una terra aliena circondato da stranieri, strappato alla sua gente… che si batteva non solo per ritornare, ma anche per impiegare convenientemente l’unico talento che gli era stato concesso”.

A parte Knox e, più tardi, Leonard Woolf nel suo romanzo “Il villaggio nella giungla”, pochissimi altri stranieri ebbero piena cognizione di dove si trovavano.»

 

Ci sembra che Michael Ondaatje abbia colto il tratto più caratteristico di Robert Konox, quello che ne fa un archetipo universale e non solo un uomo del XVII secolo: la prodigiosa capacità di riappropriarsi della propria libertà interiore, che una forza esterna minacciava di strappargli insieme a quella esteriore, e la tenace, ostinata volontà di non lasciarsi andare, di non soccombere ai capricci del destino, ma di trasformare una situazione drammatica e quasi disperata, in cui egli non è più padrone di se stesso, in una straordinaria occasione per sgranare gli occhi su di un mondo così diverso dal suo e per saziarsi di cose nuove, che egli impara e che divora quasi con l’avidità di un cannibale felice e mai domato dall’abitudine.

In questa capacità di reinventare la sua vita e di farlo con gli strumenti di cui dispone, e cioè solo con la forza del suo coraggio e con la speranza nel domani, sta il tratto più sorprendente di questo oscuro marinaio inglese del 1600, il quale, partito alla ricerca di cannella, pepe e noci di betel, ha finito per divenire un esperto conoscitore di un’altra umanità, della quale gli Europei del tempo sapevano pochissimo, nonché una specie di argonauta moderno, cresciuto attraverso prove difficili che lo hanno restituito al suo vecchio mondo profondamente mutato.

In questo senso, si può leggere la prosa barocca della sua «Historical Relation» non solo come un libro di viaggi, di piante e animali esotici, di usi e costumi strani e affascinanti, insomma non solo come un libro di carattere geografico ed etnologico, ma anche e soprattutto come un classico “Bildungsroman”, un “romanzo di formazione”, in cui il vero protagonista è l’io dell’autore che si trasforma, lentamente ma ineluttabilmente, in qualcosa di profondamente diverso da ciò che era all’inizio della storia, e non solo per ragioni puramente anagrafiche - era partito diciottenne e ritornava a casa a quarant’anni compiuti, abbronzato e con le rughe della fatica sul volto, dopo aver seppellito suo padre in terra straniera, senza neppure il conforto d’un funerale cristiano.

Un romanzo di formazione ha sempre qualcosa di commovente, perché in esso, idealmente, qualunque lettore può, almeno in parte, rispecchiarsi; ma il romanzo di formazione di Robert Knox lo è ancora di più: sia perché non si tratta, in effetti, di un romanzo, ma d’una storia vera, per quanto ai limiti dell’incredibile; sia perché sentiamo che, nelle sue angosce e tribolazioni, sopportate virilmente e trasformate in una sorta d’interminabile escursione naturalistica e antropologica, egli ha finito per scoprire qualcosa di prezioso, che non a tutti è dato: la più intima verità su se stesso…