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La polemica sulla stazione di Santa Maria Novella apre una ferita tra le due anime del fascismo

di Francesco Lamendola - 14/10/2014

Fonte: Arianna editrice


 


 

La vicenda del progetto per la nuova stazione ferroviaria di Santa Maria Novella, a Firenze, è estremamente interessante sia dal punto di vista artistico e intellettuale, sia dal punto di vista politico-culturale, perché mise allo scoperto dei nodi irrisolti e dei contrasti latenti non solo nell’ambito del fascismo, ma, più in generale, della società italiana e degli intellettuali, politicizzati e no, al principio degli anni ’30 del Novecento.

Visto a grandi linee, si trattò di uno scontro tra funzionalisti e monumentalisti: i primi si ispiravano a movimenti internazionali come De Stijl, fondato in Olanda nel 1917, e Bauhaus, scuola di architettura, arte e design attiva a Weimar dal 1925 e, qualche anno dopo, a Dessau e a Berlino, ove approdò nel 1932; i secondi guardavano anch’essi, oltre che alla tradizione romana, a movimenti stranieri quali il neobarocco, stile architettonico ufficiale dell’Unione Sovietica di Stalin, e al neoclassicismo semplificato, che in Italia divenne uno stile “nazionale” e il cui massimo esponente fu Marcello Piacentini, che ha legato il suo nome soprattutto alla progettazione e al coordinamento urbanistico-architettonico della Città Universitaria di Roma.

Vista in prospettiva, la dialettica fondamentale di quegli anni ci appare sempre più – e non solo in campo architettonico, né solo in campo artistico o letterario – come uno scontro fra la modernità, intesa come espressione delle avanguardie, che esaltava la civiltà della fabbrica, dell’automobile e dell’aereo, e la nostalgia del passato pre-moderno, che, specialmente nei Paesi a sistema totalitario, si esprimeva nella grandiosità ufficiale, ma che, per certi versi, poteva anche – specialmente in quei Paesi, come l’Italia, in cui un vero totalitarismo non si è mai realizzato – trovare un terreno d’intesa con il revival ruralista e con le mitologie di un ritorno all’antico, in qualunque forma riuscissero a esprimersi, magari come “provincialismo” consapevole e programmatico.

I due campi non erano così chiaramente distinguibili come si potrebbe pensare. Per esempio, fra i più ardenti sostenitori del nuovo progetto dell’architetto Giovanni Michelucci per la stazione di Santa Maria Novella, di impostazione dichiaratamente funzionalista, militavano scrittori come Vasco Pratolini e pittori come Ottone Rosai, i quali, l’uno e l’altro, hanno costruito la propria carriera sul  filo conduttore della nostalgia per un passato in qualche modo pre-moderno e borghigiano, per una dimensione “ingenua” e quasi crepuscolare della vita, e per un amore nei confronti di Firenze fatto di toni sfumati, popolareschi, bonariamente e un po’ malinconicamente intimistici, quasi rassegnati. Fra i contrari, non meno inaspettatamente, troviamo personalità come Ardengo Soffici e Alberto Savinio: due intellettuali che, nel loro percorso espressivo, non si può certo dire si siano passivamente baloccati nel gusto della tradizione.

La vicenda era nata allorché il ministro delle Poste e comunicazioni, Costanzo Ciano (padre di Galeazzo, genero del Duce dal 1930) aveva incaricato l’architetto Angelo Mazzoni, nel 1931, di studiare il potenziamento dello scalo fiorentino, ormai divenuto inadeguato alle necessità del traffico; ma il progetto non era piaciuto e così il Comune di Firenze, l’anno dopo, aveva bandito un concorso per la costruzione di una nuova stazione ferroviaria. Il concorso era stato vinto dal cosiddetto Gruppo Toscano, facente capo all’architetto Michelucci (ma che comprendeva anche Berardi, Baroni, Gamberini, Guarnieri, Lusanna), esponente di punta del razionalismo italiano, una corrente che si riallacciava al Movimento Moderno internazionale.

Non è nostra intenzione approfondire l’aspetto squisitamente estetico della controversia che il progetto innescò, sulle pagine dei giornali e delle riviste, non appena venne portato a conoscenza del pubblico, e prima che ottenesse il definitivo benestare di Mussolini, tirato in causa direttamente nella controversia; ci limiteremo a osservare che, qualunque giudizio si voglia dare sull’opera, essa bene esprime l’essenza del razionalismo italiano, che, attraverso i numerosi punti di contatto col Movimento Moderno, di fatto non è antitetico, ma semmai complementare, a quel monumentalismo che era stato adottato, in pratica, come stile architettonico “ufficiale” del regime. Più interessanti, in termini generali, ci sembrano le implicazioni di natura culturale e, in, ultima analisi, “politica”, nel senso più ampio del termine, di quella controversia, che, se da un lato può apparire datata, dall’altro ci richiama a un momento storico della società italiana in cui gli intellettuali e il pubblico si appassionavano ancora, fino ad accalorarsi, per i grandi temi relativi allo spazio pubblico, all’urbanistica, al volto che si voleva imprimere alle nostre città, mentre oggi sembra che l’opinione pubblica si sia definitivamente estraniata da tali questioni e gli intellettuali, dal canto loro, di solito altro non fanno che parteggiare episodicamente al dibattito, senza un progetto e senza una filosofia complessiva, lasciando urbanisti e amministratori pressoché liberi di fare e disfare a loro piacimento, disponendo degli spazi pubblici come se fossero cosa loro.

Sarebbe semplicistico, comunque, ridurre la dialettica sorta intorno al progetto di Michelucci a una semplice e schematica contrapposizione tra “funzionalisti” e “monumentalisti”: perché, se è vero che i fautori di un’architettura monumentale, e perciò “eroica” e fascista, erano offesi dalla spoglia, disadorna, prosaica funzionalità della stazione immaginata da Michelucci, non è vero che tutti i fascisti erano inclini a un’arte monumentale, né tutti coloro che trovavano inestetico e inadeguato quel progetto, erano fascisti.

Il funzionalismo, senza dubbio, è una espressione artistica tipicamente moderna: nella sua esaltazione della “funzione” di un oggetto o di un edificio, scava per forza una contrapposizione fra sé e quanti non amano il progresso aggressivo e la società industriale, cioè per quanti, per dirla con Ezra Pound, non pensano che le cose più belle prodotte dalla civiltà europea abbiano avuto a fondamento un criterio di praticità, di utilità materiale o di vantaggio economico.

D’altra parte, esiste una “vexata quaestio”, probabilmente irrisolvibile, sul rapporto intercorrente tra fascismo e modernità. Le combinazioni possibili sono parecchie: primo, che il fascismo – come movimento politico e anche, di riflesso, come inclinazione estetica – sia stato, né più né meno, una risposta polemica contro la modernità, contro il livellamento della società industriale e contro l’anonimato della produzione in serie; secondo, che il fascismo sia stato un tentativo, contraddittorio e incompleto quanto si vuole, per impadronirsi della modernità e avviare la modernizzazione dell’Italia, introducendo quest’ultima nel giuoco delle forze nuove a livello mondiale; terzo, che il fascismo abbia cercato un compromesso fra istanze di modernizzazione, almeno per ciò che era funzionale alle sue logiche, e difesa della tradizione, in ciò che essa aveva di specificamente, irriducibilmente patriottico; quarto, che il fascismo non abbia un rapporto diretto con la questione della modernità, né pro né contro, e che Mussolini e i suoi seguaci si siano limitati a gestire le singole situazioni alla spicciolata, con pragmatismo, senza fare una opzione di fondo, senza teorizzare né in un senso, né nell’altro.

Per esempio, se la modernizzazione implicava il riferimento alle megalopoli statunitensi, al materialismo dell’uomo-massa americano, al degrado e alla criminalità di una società fondata esclusivamente sul denaro, gli intellettuali fascisti – come il federale di Firenze, Alessandro Pavolini – non esitavamo ad assumere toni di forte critica; ma non è detto che fossero altrettanto severi quando si evocavano le masse sovietiche inquadrate nei grandiosi piani staliniani, volti a trasformare la vecchia Russia in una grande e temibile potenza moderna e a creare un nuovo tipo umano, interamente devoto alla causa del nuovo regime; si può dire, anzi, che lasciassero trasparire una certa qual simpatia. Naturalmente, qui venivano al pettine le due anime del fascismo: perché i fascisti conservatori, o di “destra”, consideravano il bolscevismo come il primo, vero, irriducibile nemico del mondo “nuovo” che essi immaginavano; mentre quelli di “sinistra”, i socializzatori, nutrivano una malcelata ammirazione per le realizzazioni sovietiche e concentravano la loro animosità verso l’Occidente egoista, plutocratico e corrotto – e, in seguito, contro l’internazionale giudaico-massonica, parassita dei lavoratori e dei piccoli risparmiatori.

Questa duplicità, questa ambivalenza, si ritrovano anche nei confronti della modernità: vi furono intellettuali fascisti, o vicini al fascismo, che interpretarono il loro ruolo come difensori della tradizione, del mondo rurale, della civiltà pre-moderna, sana, semplice, sobria; e ve ne furono altri che, eredi dei furori futuristi, sognarono un avvenire sempre più tecnologico e meccanizzato, purché, si capisce, offrisse spazio alle prestazioni eroiche individuali, come le celebri trasvolate atlantiche di De Pinedo. Insomma, “Strapaese” e “Stracittà” come i due volti antitetici, eppure complementari, di quella complessa e a volte confusa, ma non così provinciale e non così gretta come la si è voluta poi dipingere, stagione culturale.

Come sempre accade, comunque, il fronte dei contrari era più variegato e disomogeneo di quello dei favorevoli: perché le ragioni per dire di “no” a una cosa sono sempre più vaste e complesse di quelle per dire di “sì”. E questo, probabilmente, è un aspetto che riguarda certe costanti antropologico-culturali del popolo italiano, indipendentemente dalla stagione politica e culturale degli anni ’30: costanti che si fanno sentire tuttora e che condizionano, per il bene e per il male, l’uso (e l’abuso) degli spazi pubblici, delle città d’arte, delle bellezze naturali, che rendono il nostro Paese unico al mondo.

La vicenda della stazione di Santa Maria Novella è stata velocemente, ma efficacemente, tratteggiata da Arrigo Petacco, nella sua biografia di Pavolini (da: A. Petacco, «Alessandro Pavolini. L’ultima raffica di Salò», Milano, Mondadori, 1982, pp. 48-50):

 

«Naturalmente non trascura lo sport [il soggetto è Pavolini e le iniziative precedentemente ricordate sono, a Firenze, quelle di ordine culturale, diverse delle quali ancora esistenti, come il Maggio Musicale]: il circuito automobilistico del Mugello, che ancora si disputa, è una sua creatura. Bandisce anche un concorso per  la costruzione dello stadio comunale al Campo di Marte.  Lo vincerà un giovane e oscuro architetto destinato a diventare famoso: Pier Luigi Nervi. Il complesso sportivo, dedicato al “martire” Giovanni Berta, è inaugurato nel 1932, anno del ”Decennale”, e viene presentato come “il primo esempio di architettura fascista”. Successivamente, il federale si ritrova al centro di un’infuocata polemica  seguita al concorso per il progetto della nuova stazione di Firenze vinto dall’architetto Giovanni Michelucci. Una polemica che, per la verità,  era stata prevista da Pavolini. “Non sarà facile”, aveva detto, “costruire del nuovo davanti a Santa Maria Novella. Ma bisognerà pur farlo”.

Il progetto moderno e razionale del Michelucci finisce infatti per spaccare in due  il mondo degli intellettuali. Con motivazioni diverse, e spesso facendo confusione  fra modernismo, razionalismo e fascismo, i due gruppi si affrontano con foga. Fra i nemici del progetto figurano  in prima fila Leo Longanesi e Mino Maccari.  In un numero unico del “Selvaggio” dal significativo titolo: “Bandiera gialla: razionale a bordo”, Longanesi definisce il razionalismo come “lo stile di un’epoca scettica  che cerca un’estetica nel ‘bidet’, solo perché il ‘bidet’ è comodo”.Mentre Maccari se la prende con gli intellettuali “genìa disturbatrice per eccellenza” e definisce assurdo “chiedere un’arte fascista prima ancora che si sia formato  e definito il gusto dell’epoca”.

Avversi al progetto sono anche Ardengo Soffici (che paragona la nuova stazione a una “cassa da imballaggio”), Ugo Ojetti, Piero Bargellini e Alberto Savinio. Favorevoli sono invece i giovani come Vasco Pratolini, Elio Vittorini, Pier Luigi Nervi e ancora Aldo Palazzeschi e Ottone Rosai.

Pratolini, per esempio, interviene nella polemica accusando i “serpi passatisti” che sputano veleno sul moderno, di essere “dei miopi occhialuti ai quali è danno guardare avanti a sé ed incontrare il sole”. Mentre Vittorini, certo della superiorità del progetto Michelucci, sfida i ‘passatisti’  a mettere in esecuzione un altro progetto con la promessa che, se ciò accadesse, “in piazza Santa Maria Novella scoppieranno bombe nient’affatto anarchiche”.

Il federale Pavolini, che orchestra l’infuocata polemica sulle pagine del suo giornale [vale a dire “Il Bargello”], è anche lui favorevole al progetto Michelucci. Il suo istinto politico, più che le sue concezioni artistiche, lo avverte che fra le motivazioni sbandierate dai cosiddetti “passatisti” o “monumentali usti”del fronte del rifiuto, si cela un inespresso antimodernismo poco in linea con le direttive del partito. Ma non si sbilancia troppo e si limita sa scrivere che la stazione ferroviaria deve essere semplice e razionale “perché fra tutti gli edifici è uno dei più nudamente utilitari”.  Prenderà una posizione precisa solo quando gli giungeranno precisi segnali da Roma,.

La polemica della stazione finisce infatti per arrivare sul tavolo di Mussolini il quale opta definitivamente per il progetto Michelucci. A proposito di questo assenso supremo, pare che il concetto di arte fascista  c’entri ben poco. A convincere Mussolini sarebbe stata Margherita Sarfatti, sua ex amante e sua biografa, la quale ha scoperto che la nuova stazione, vista dall’alto, “assomiglierà a un fascio littorio”. Il che è vero, anche se, in seguito, l’autore addebiterà al caso la curiosa somiglianza.

Comunque siano andate le cose, la decisione del Capo del governo placa la polemica. Tutti si mettono in riga e la stazione può essere inaugurata nel 1935 alla presenza di Vittorio Emanuele III.

Oltre queste realizzazioni dettate da esigenze di prestigio,  il federale fiorentino non trascura altre iniziative di grande utilità.  Sviluppa l’edilizia popolare (circa 4.000 nuovi vani l’anno) e realizza la “Firenze-Mare”, una delle prime autostrade d’Italia, destinata a valorizzare turisticamente Montecatini e Viareggio…»

 

Oggi non c’è un Mussolini di turno che dirima le questioni architettoniche e urbanistiche, anche perché non c’è più una cultura che se ne interessi seriamente, né una opinione pubblica che le avverta come cosa che riguarda tutti: la questione dello spazio da vivere si è terribilmente contratta e privatizzata, come se la mentalità individualista del cittadino-massa avesse deciso, una volta per tutte, la irrilevanza di ciò che accade fuori della porta di casa propria.

Da questo punto di vista, funzionalismo o no, modernità o no, ci sembra che non si sia registrato affatto un progresso nella coscienza civile della società contemporanea; fenomeno che non è solo italiano, ma mondiale, anche se in Italia, per una serie di ragioni storiche, di compromessi non sempre limpidi e di contraddizioni mai risolte, si direbbe che la cosa appaia con particolare e stridente evidenza.

Ma questo discorso, lo sappiamo bene, non piace: perché sembra suggerire che oggi, in piena democrazia e in piena filosofia del “benessere” (crisi finanziarie a parte), tutto sommato vi siano meno sensibilità,  meno consapevolezza e meno partecipazione alla gestione degli spazi collettivi, di quanta ve ne fosse al tempo di un regime francamente antidemocratico: constatazione che, anche se non vuol essere, in alcun modo, rivalutativa di quel regime, non può non suonare alquanto malinconica nei confronti di quelle “magnifiche sorti e progressive” di cui noi, cittadini del terzo millennio, siamo così inclini a riempirci la bocca…