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L’«uomo dei lupi»: una ignobile mistificazione della lobby freudiana

di Francesco Lamendola - 14/10/2014

Fonte: Arianna editrice


 

 


 

Quello dell’uomo dei lupi è, senza dubbio, il più famoso caso clinico affrontato da Freud con il suo metodo psicanalitico, quello al quale è consegnata gran parte della sua fama come medico capace di curare e di guarire i suoi pazienti, e quello che maggiormente colpisce i lettori delle sue opere, avendogli dedicato una relazione clinica, nel 1918, con il titolo, apparentemente modesto, «Storia di una nevrosi infantile».

Il caso era questo: un uomo ancor giovane, di buona famiglia straniera, si era presentato da Freud perché afflitto da una serie di angosce e da una nevrosi che lo inibivano completamente all’esercizio di una vita normale, e che erano iniziate allorché, da bambino, era stato afferrato dal terrore che la finestra della sua camera da letto si aprisse ed egli vedesse, appollaiati sui rami di un albero, una quantità di grossi cani minacciosi simili a dei lupi.

Freud, dopo aver portato i ricordi del paziente verso la consueta zona infantile, si spinse ancora più indietro di dove potesse giungere qualsiasi ricordo e arrivò alla conclusione che, all’età di diciotto mesi, il bambino aveva subito un gravissimo trauma: aveva assistito, cioè, a un coito fra i suoi genitori, come se non bastasse ripetuto tre volte, e secondo la modalità del congiungimento a tergo. Non solo aveva visto il sesso di entrambi i genitori, restando ovviamente sconvolto dall’assenza di pene della madre e attribuendola a una mutilazione che doveva esserle  stata inferta, ma aveva avuto anche la fulminea intuizione di che cosa significasse quell’amplesso, e di quale natura fosse effettivamente.

Questo è un tipico esempio della ciarlataneria con cui gli psicanalisti freudiani sono soliti procedere nella ricerca della ferita originaria che ha indotto la nevrosi nei loro pazienti (ammesso che quella di Pankeiev fosse una nevrosi e non un altro tipo di disturbo psichico, come pure è lecito ipotizzare): si fissa un evento traumatico così antico, che nessuna persona sarebbe capace di ricordarlo; poi si afferma che la mancanza del ricordo non è dovuta ad altre ragioni che al tentativo inconscio di proteggersi dalla sofferenza che il ricordo stesso provocherebbe, se divenisse cosciente: in altre parole, si ipotizza qualcosa di indimostrabile e di non verificabile, per poter dimostrare la giustezza della propria diagnosi e, su di essa, fondare le prospettive di guarigione del paziente. Questi non deve pretendere di capire tutto e di verificare tutto: deve fidarsi dell’analista; lui sa che cosa è avvenuto, quando il paziente aveva solo pochi mesi, o un anno, o due anni di vita; lui sa che cosa ha visto, quando, come, e perché ne sia rimasto tanto traumatizzato; lui, e non il paziente, possiede la chiave per risalire alla verità e per intraprendere un percorso di guarigione: perché ricordare è cominciare a guarire, e, se il paziente non ricorda, perché nessuno può ricordare fatti accaduti quando era in così tenera età, non fa niente, perché si tratta di una subdola strategia dell’inconscio mirante a impedire o ritardare la guarigione.

La terapia freudiana ebbe luogo durante un arco di ben quattro anni, fra il 1910 e il 1914, e si concluse, a detta dello psicanalista, con il pieno successo, tanto che il paziente – il cui nome, come poi si seppe, era Sergej Konstantinovic Pankeiev – poté fare ritorno nella sua patria, la Russia. Subito dopo, però, scoppiò la prima guerra mondiale e, nel corso di questa, la presa del potere da parte dei bolscevichi: e l’”uomo dei lupi”, di famiglia assai ricca, perse tutti i suoi beni e dovette fuggire all’estero, stabilendosi di nuovo a Vienna. Qui ritrovò Freud e si sottopose a una seconda terapia, questa volta gratuita: particolare, questo, che i seguaci dello psicanalista vogliono far passare per un atto di generosità del “maestro”, mentre era dovuto all’intenzione di tenere nascosto il fatto che il paziente non era affatto guarito nel corso della precedente terapia. Sempre a Vienna l’”uomo dei lupi” ottenne una sovvenzione regolare da parte della Società Psicoanalitica: anche questa volta, il sussidio venne presentato come una sorta di riconoscimento per l’importanza che il caso aveva avuto nello sviluppo della psicanalisi freudiana, mentre si trattava, a tutti gli effetti, di uno stipendio, il cui scopo era tenere legato il paziente e impedirgli di divulgare la spiacevole verità: che nemmeno adesso aveva ottenuto il benché minino miglioramento delle proprie condizioni. E ciò è talmente vero, che Pankeiev, dal 1925, cominciò a rivolgersi a diversi altri psicanalisti, sempre nel disperato tentativo di esorcizzare i suoi fantasmi interiori e di placare i suoi disturbi; ma sempre senza successo. Alla fine, del tutto rovinato finanziariamente, pensò di emigrare negli Stati Uniti e lì cercare di rifarsi una vita: ma gli zelanti discepoli di Freud, venuti a conoscenza del progetto, riuscirono a dissuaderlo, assicurandogli un vitalizio, purché rimanesse a Vienna e venisse così scongiurata la disgraziata eventualità che qualche giornalista venisse a sapere del clamoroso fallimento della terapia intrapresa dal loro maestro e che questi aveva detto essersi conclusa con successo fin dal 1914.

Dopo essere stato così minuzioso nel ricostruire i dettagli del coito dei genitori di Pankeiev, affermando che esso si era ripetuto per tre volte di seguito, sotto gli occhi del bambino sgomento, con caratteristica disinvoltura poi Freud aveva prospettato un’altra possibilità, assai diversa, e cioè che il bambino avesse assistito ad un accoppiamento fra due animali e ne fosse rimasto scioccato. Niente trauma per aver constatato l’assenza del pene da parte della madre, dunque, ma non importa; in fondo, questi particolari non sono così importanti (strano, perché prima sembrava che lo fossero), quel che conta è l’idea generale, cioè la conferma dei tratti d’insieme della psicanalisi freudiana: trauma sessuale infantile; insorgere della nevrosi fra l’infanzia e l’età adulta; necessità del ricordo “terapeutico”, guidato dallo psicanalista, per poter guarire. Magari non si guarirà proprio all’istante, come la donna affetta da paralisi isterica mostrata nell’apologetico e stucchevole film «Passioni segrete» di John Huston, del 1962: ma insomma la guarigione è assicurata, specialmente dopo quattro anni di spossante – e costosissima, aggiungiamo noi – terapia psicanalitica. Peccato che una giornalista austriaca, nel 1982, abbia pubblicato un libro dopo avere rintracciato e intervistato l’ormai anziano “uomo dei lupi”, in cui rivelava la verità sull’intera faccenda: cosa che la cultura “ufficiale”, in larga misura dominata dal ricatto delle lobbies psicanalitiche freudiane (il cui giro d’affari in tutto il mondo è dell’ordine dei miliardi, per non parlare delle cattedre universitarie, delle riviste e dell’industria editoriale ad esse collegate), ha fatto di tutto per mettere a tacere o per screditare.

L’intera questione è stata così riepilogata da Federico Di Trocchio nel suo libro «Le bugie della scienza» (Milano, Mondadori, 1993, pp. 217-20):

 

«Il paziente, che Freud indica con le iniziali S. P., era “un giovane la cui salute subì un tracollo all’età di diciotto anni, dopo un’infezione blenorragia, e che quando iniziò il trattamento psicoanalitico, parecchi anni dopo, era assolutamente incapace di badare a se stesso, per cui era costretto a dipendere in tutto e per tutto dagli altri”. Freud si occupò soltanto di quella che, a suo avviso, era stata la prima origine dei disturbi del paziente, “una grave affezione nevrotica, che si era instaurata sotto forma d’isteria d’angoscia poco prima che compisse i quattro anni e si era poi trasformata in una nevrosi ossessiva a contenuto religioso che perdurò, con i suoi strascichi, fino all’ottavo anno”. Lascia capire però chiaramente che l’analisi investì anche i problemi manifestatisi nel paziente da adulto e di essere riuscito a guarirli. Scrive infatti: “Sebbene il paziente me l’abbia scritto direttamente, mi sono astenuto dallo scrivere una storia completa della malattia, della terapia e della guarigione”. Fu certamente una buona idea dal momento che il paziente non guarì affatto.

Nei primi anni Settanta infatti la giornalista austriaca Karin Obholzer riuscì a rintracciare a Vienna l’uomo dei lupi, il cui vero nome era Sergej Pankejeff, e si fece raccontare la sua storia che ha poi narrato nel libro “The wolf-man sixty years later”. La prima cosa che emerse è che in realtà Pankejeff non era mai guarito. Dopo essere stato in cura da Freud fu analizzato due volte da Ruth Mack Brunswick e, dopo la seconda guerra mondiale, da numerosi altri psicanalisti fino alla sua morte avvenuta nel 1978. I suoi problemi psicologici erano rimasti gli stessi di quando si era presentato per la prima volta da Freud e a guarirlo non erano bastati non solo i quattro anni di analisi con lui ma neppure i molti altri che avevamo visto all’opera  i suoi allievi e seguaci. “La mia analisi” spiegò Pankejeff alla Obholzer, “è stata una catastrofe. Sto ancora esattamente come stavo quando cominciai”. “Ma nelle sue memorie” obietta la Obholzer”, lei ha scritto esattamente il contrario”. Nel 1971 infatti era stato pubblicato in America, a cura di Muriel Gardiner, “The wolf-man: by the wolf-man”, un libro nel quale veniva accreditata definitivamente  l’idea, già espressa dallo stesso Freud, che Pankejeff fosse stato guarito al cento per cento. “è tutto falso”, replicò l’ormai ottantenne paziente, “fu Gardiner ad insistere perché io scrivessi quelle memorie per dimostrare al mondo come Freud fosse riuscito a curare una persona gravemente malata”.

Ma venne fuori di peggio. L’uomo dei lupi rivelò che essendosi rovinato e ridotto quasi sul lastrico (da ricco che era) gli psicanalisti non solo avevano cominciato a curarlo gratuitamente ma lo mantenevano con l’invio regolare di assegni provenienti dal conto della Fondazione Sigmund Freud. Il suo “stipendio” aveva cominciato a decorrere da quando aveva espresso il desiderio di emigrare in America per tentare di sollevare le sue finanze. Il movimento psicanalitico si offrì immediatamente di sopperire alle sue necessità purché non abbandonasse Vienna, dove egli viveva in anonimato, e si trasferisse in America dove qualcuno avrebbe potuto scoprire che il più famoso dei pazienti di Freud era ancora e forse più malato di prima. Kurt Eissler e altri leader del movimento psicanalitico tentarono anche in ogni modo di impedire alla Obholzer di intervistare l’uomo dei lupi, il quale infatti alla fine accettò di parlare solo dopo formale promessa che quanto avrebbe rivelato sarebbe stato pubblicato dopo la sua morte. Insomma, non voleva rischiare di perdere lo stipendio.

Pankejeff rivelò in particolare che uno degli elementi più importanti della sua analisi, l’interpretazione data da Freud di un suo sogno, era completamente sballata e inverosimile. Si trattava di un sogno che egli aveva atto all’età di quattro anni: gli era sembrato che la finestra della sua stanza si aprisse e potesse vedere dei lupi bianchi seduti sui rami del grande noce che si trovava proprio davanti ad essa. Freud aveva dato un’interpretazione elaborata e complicatissima di questo sogno. Suppose che esso avesse a che fare con un’esperienza vissuta dal bambino all’età di un anno e mezzo, della quale però il bambino stesso non aveva conservato alcun ricordo. Si era trattato ovviamente di un’esperienza scabrosetta. Secondo Freud il bambino assistete ad un “coito a tergo ripetuto tre volte” tra i suoi genitori e “riuscì a vedere i genitali della madre e il membro del padre e comprese l’essenza della cosa e il suo significato”.

L’uomo dei lupi ha dichiarato che, per quanto riguarda il sogno, innanzitutto egli aveva ben spiegato a Freud che non si trattava di lupi ma di una speciale razza di cani dall’aspetto simile a quello dei lupi; per quanto riguarda invece la scena di un rapporto tra i genitori egli poi non poteva né confermare né negare, dal momento che nessuno può ricordare ciò che ha visto a un anno e mezzo. Sottolineava però che egli, come tutti i bambini della società russa dell’epoca, dormiva non in camera dei genitori bensì nella stessa stanza della sua governante.»

Ma questo non poteva costituire un problema per Freud il quale era giunto a promettere all’uomo dei lupi che un giorno sarebbe riuscito a ricordare tutti i dettagli di quell’increscioso avvenimento e che di conseguenza sarebbe guarito. In realtà Pankejeff non riuscì mai a ricordare quella sua precoce e traumatica esperienza di “voyeur” anche se Freud fu in grado, in virtù della sua sconfinata abilità di analista, di ricostruirla nei minimi dettagli. Riuscì ad esempio a stabilire che il fatto era accaduto nel corso di “una calda giornata estiva”, di pomeriggio, quando “i genitori si erano distesi, semivestiti, sul letto per la siesta” ed aveva spiegato anche la presenza del bambino in camera da letto in virtù di una malattia. La particolare posizione assunta dai genitori nel corso del rapporto era una induzione pressoché obbligata dal momento che solo essa consentiva al bambino di rendersi conto che la madre era priva di membro e dare così corpo alla sua successiva angoscia di castrazione per aver interpretato l’organo sessuale della madre come una ferita residua all’evirazione. Elementare. Ma perché il rapporto in quella posizione sarebbe stato ripetuto esattamente per tre volte? Freud non ebbe difficoltà a trovare la risposta: era stato lo stesso uomo dei lupi a dirglielo: “Un giorno egli affermò improvvisamente che ero stato io a scoprire questo particolare per mezzo dell’interpretazione. Non era vero: si trattava di un’associazione spontanea che non prestava il fianco a critiche. Come era solito fare,  l’aveva attribuita a me, cercando, con questa proiezione, di renderla più credibile”.

Se si presta fede a Freud insomma bisogna concludere che l’uomo dei lupi ricordava benissimo e nei minimi dettagli ciò che diceva di non ricordare. Il suo non ricordare dunque non era dovuto a debolezza di memoria, ma ad una tenace rimozione che tendeva a nascondere alla sua coscienza la “vera” causa delle sue angosce. La prova più evidentemente era il fatto che una volta recuperato quel ricordo e riavutosi dal trauma da esso provocato S. P. nel 1918 era guarito. Purtroppo il metodo di Freud non ottenne lo stesso risultato con Sergej Pankeieff il quale, nonostante i suoi sforzi, durati sessant’anni, non riuscì a ricordare l’angoscioso episodio dei tre rapporti “a tergo” dei suoi genitori. Peggio per lui perché così non guarì e si portò nella tomba tutti i suoi problemi.»

 

Il bello è che nessuno si era mai preso la briga di andare a verificare se “l’uomo dei lupi” fosse guarito davvero: tutti hanno dato per scontato, dal 1914 al 1982, cioè lungo un arco di oltre sessant’anni, che la parola di Sigmund Freud fosse da prendersi, né più né meno, come oro colato. Alla faccia della scienza e del metodo scientifico: sarebbe come se, nel campo della fisica, o della chimica, o della biologia, le affermazioni di un singolo ricercatore venissero accettate senza alcun beneficio d’inventario, senza la minima verifica, senza nemmeno l’ombra di un  ragionevole dubbio, e su di esse si consolidasse la fama d’infallibilità di quello studioso e la solidità inoppugnabile delle sue teorie scientifiche”. Risultato veramente sbalorditivo, se si pensa che proprio Freud – insieme a Marx e a Nietzsche – è considerato, nella cultura contemporanea, come il grande “maestro del sospetto”, cioè come cui che ha insegnato agli uomini a diffidare sempre e comunque, non solo degli altri, ma anche di se stessi; a non credere alle apparenze e a scartare l’evidenza, come cosa banale e quasi certamente ingannevole, per discendere nelle profondità abissali e insondabili di ciò che sta “dietro”, “oltre” o chissà dove, e in cui si anniderebbe la “verità vera”.

L’unica critica importante al “caso dell’uomo dei lupi”, nella cultura italiana, è venuto non da uno storico della scienza, né da uno psicologo, ma da uno storico del folklore, Carlo Ginzburg, il quale, rifacendosi al folklore slavo, ha ipotizzato che Pankeiev avesse introiettato una tipica credenza di quella cultura, secondo la quale chi nasce avvolto nel liquido amniotico nelle “notti sante” fra Natale e l’Epifania, sarà dotato di poteri mistici e anche della facoltà di trasformarsi in lupo mannaro. Secondo Ginzburg, la bambinaia potrebbe aver fatto simili racconti al bambino e avergli così provocato un sogno angoscioso, dai cui effetti traumatici egli non si è più liberato: se Freud fosse stato un conoscitore del folklore slavo, questa è la conclusione, sarebbe stato in grado di inquadrare meglio tutta la faccenda e di indirizzarla verso la “giusta” soluzione.

Insomma, i metodi antiscientifici di Freud vengono comunque presi per buoni: quel che gli si rimprovera non è l’assoluta gratuità delle sue ipotesi e l’inconcepibile leggerezza con cui procede alla ricostruzione dell’evento infantile che sarebbe alla base della nevrosi e, quindi, anche del delicato processo di guarigione, ma soltanto una incompetenza specifica nel settore della etno-psichiatria, disciplina – peraltro - allora inesistente.

Ma sul libro di Karin Obholzer, e, poi, su quello di Federico Di Trocchio, acqua in bocca, per carità. Non guastiamo la (lucrosa) festa dei discepoli e dei nipotini di Sigmund Freud, il padre della psicanalisi, santo patrono di tutti i nevrotici, nonché dei loro disinvolti terapeuti. Il re è veramente in mutande e la sua figura, da vicende come quella dell’”uomo dei lupi” (ma anche da numerose altre, che si potrebbero elencare a volontà, come quella del cosiddetto ”uomo dei topi”, alias Ernst Lanzer), ne esce veramente immeschinita, come quella di un uomo preoccupato innanzitutto di salvaguardare la sua reputazione di scienziato geniale e infallibile guaritore.  L’importante è che non si sappia, nel gran mare dell’ipocrisia e del conformismo culturale oggi dilaganti; l’importante è non disturbare il sonno di tanti sedicenti intellettuali: «però non mi svegliar, deh, parla basso…».