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Ripensare il capitalismo: Jeremy Rifkin

di Giorgio Losi - 14/10/2014

Fonte: L'intellettuale dissidente


A questo proposito Rifkin proclama l’inizio di una nuova economia: il capitalismo distributivo. Questa nuovo modello mette in discussione la capacità di autoregolamentazione del mercato, la mano invisibile della domanda e dell’offerta promuovendo nuovi valori come quello della collaborazione e la presenza fondamentale dello Stato che ha l’obbligo di vigilare sull’economia. La nuova infrastruttura riconfigurerebbe l’orientamento spaziale e temporale della società imponendo nuovi modi di organizzazione e gestione delle attività produttive e degli stili di vita. Ma questi cambiamenti, energetico ed economico, non potranno avvenire se non cominceremo a pensare in maniera diversa anche alla politica, mettendo da parte la nostra visione dicotomica del mondo, se non cominceremo a pensare oltre la destra e la sinistra.

Con  la “Terza Rivoluzione Industriale” più che un saggio Jeremy Rifkin ha redatto un manifesto. Un manifesto che vuole testimoniare l’assoluta unicità della nostra posizione storica e che vuole farsi mediatore di una transizione epocale, quella verso un futuro verde e sostenibile, in cui il potere laterale e il comportamento collaborativo uniti a energie rinnovabili e una rete distributiva, siano i nuovi mezzi e i nuovi valori di un mondo diverso da come lo conosciamo oggi. L’autore analizza la drammaticità della società odierna in tutti i suoi vari aspetti, dal caos dell’economia e della finanza, alle relazioni politiche, alla crisi energetica, all’arretratezza del sistema scolastico, ed attraverso il suo racconto cerca di farci intravedere la prospettiva di un futuro alternativo ancora possibile.

Il  saggio trae le sue radici da una premessa, l’individuazione di una causa primaria: tutte le attività economiche della nostra economia globale sono dipendenti dal petrolio e dagli altri combustibili fossili, e su questi abbiamo costruito un’intera civiltà. Tanto che, se come noi oggi, guardando al passato definiamo l’Era del Ferro e del del Bronzo, in futuro i nostri nipoti potranno guardare alla nostra come l’Era del Carbonio . Questa premessa è fondamentale per capire che la crisi finanziaria e l’indebitamento pubblico non siano il risultato di un fallimento di una supervisione dei mercati deregolamentati, ma la naturale conseguenza di un sistema economico basato su risorse finite ed elitarie. Il problema quindi non è momentaneo ma è sistemico, intrinseco del sistema stesso, perché un sistema basato sulla scarsità delle risorse non potrà mai portare ad una democratizzazione della società, ma al contrario all’enfatizzazione della già ormai illimitata sproporzione della distribuzione delle risorse, ed al crescente indebitamento degli Stati più poveri verso organismi privati sovranazionali come banche e multinazionali.

Ma  oltre ai debiti pubblici c’è un altro debito ancora più importante e ancor più difficile da saldare che ci portiamo dietro, quello con il nostro pianeta Terra: il debito ecologico.  È un debito che si acquista parallelamente alla produzione di beni e servizi ma la sua valuta di rimborso si paga in termini di entropia. Si parla di entropia quando si crea una differenza tra ciò che viene creato e ciò che viene distrutto; ad esempio sfruttando delle risorse, la Terra non riesce ad ammortizzarle nel tempo necessario al mantenimento del suo equilibrio omeostatico. E la conseguenza visibile di un entropia negativa è la deforestazione, la tossicità delle acque, lo scioglimento dei ghiacciai, il cambiamento climatico; un cambiamento climatico che ha portato con l’aumento delle temperature già all’estinzione molte specie animali e vegetali e che minaccia ora anche la nostra. A questo punto una cosa è chiara e non più travisabile nemmeno dalla più cieca omertà : l’era del petrolio sta e deve finire e la risposta non è il nucleare radioattivo, che porterebbe con sé gli stessi problemi di scarsità delle materie e inquinamento del petrolio, sotto solamente una diversa veste.

Da  queste premesse nascono i presupposti per cominciare a pensare a una nuova narrazione: la Terza Rivoluzione Industriale. Questa nasce dal connubio tra le nuove tecnologie di comunicazione come Internet e le energie rinnovabili, e propone attraverso la condivisione una produzione e redistribuzione intelligente dell’energia. Essa si basa su cinque pilastri:

-  il cambiamento energetico, quindi l’abbandono dei combustibili fossili in favore delle energie rinnovabili;

-  la ristrutturazione del patrimonio immobiliare in micro-impianti di generazione per produrre l’energia in loco;

-  l’installazione di tecnologie accumulative a idrogeno per conservare l’energia intermittente;

-   usare le tecnologie di comunicazione per convertire la rete elettrica in una rete intelligente per la condivisione dell’energia;

-  trasformare ogni veicolo di trasporto in veicoli elettrici plug-in che possano fornire energia invece che consumarla solamente.

Promosso  il cambiamento energetico l’autore si concentra sull’economia contemporanea e su come quest’ultima influenzi e permei ormai tutta la società, suggerendo come mezzo del cambiamento della struttura della società il Potere Laterale. Partendo dal contesto storiografico della Prima e della Seconda Rivoluzione Industriale Rifkin ci dimostra come l’economia capitalista abbia formato a sua volta una società e una burocrazia con eguali valori. Una burocrazia razionale, a struttura piramidale, dove l’autorità regna sovrana e indiscussa, dove tutte le operazioni sono programmate e prestabilite, dove il singolo non ha nessuna importanza se non quella di una macchina seppur organica. Le azioni sono elementari, veloci, ripetitive, non criticabili, scandite dal tempo e dalla sola volontà del burocrate: la parola d’ordine diventa centralizzazione. La razionalizzazione della produzione ebbe come conseguenza la razionalizzazione della forza lavoro, trasformando i lavoratori in macchine viventi il cui unico  scopo era quello di ottimizzarne le prestazioni: veloce, più veloce, ancora più veloce! Sfortunatamente, ma non senza sorpresa questi nuovi principi vennero applicati anche nel settore educativo scolastico, a tal punto che il ruolo delle scuole diventò quello di sfornare lavoratori, uomini-macchina sempre più produttivi. Le scuole si trasformarono in fabbriche di persone, gli studenti impararono a non mettere mai in discussione l’autorità, gli esami vennero standardizzati e il rendimento valutato sulla capacità della mera ripetizione della lezione impartita. E tutto questo permane, seppur in forme più articolate, ancora oggi.

Al  contrario, una rivoluzione industriale più distributiva e collaborativa porterà inevitabilmente a una distribuzione della ricchezza generata più condivisibile, dove l’interesse particolare del Singolo diventa interesse generale dell’Uomo, dove l’informazione riservata diverrà trasparenza e fiducia collettiva. Le piattaforme open-source come Linux e Wikipedia infatti, già oggi mettono in discussione le attività economiche basate sulla proprietà esclusiva e sul lavoro inteso come mera forma di remunerazione. E in un mondo in cui la condivisione è elemento fondamentale bisogna ridimensionare anche il concetto stesso di proprietà privata, le metodologie di acquisto (o meglio di usufrutto) e soprattuto l’ipotesi, sbagliata, che è alla base di tutto il sistema capitalistico: che l’interesse individuale nel mercato sia l’unica forma in grado di favorire la crescita e lo sviluppo.

A  questo proposito Rifkin proclama l’inizio di una nuova economia: il capitalismo distributivo. Questo nuovo modello mette in discussione la capacità di autoregolamentazione del mercato, la mano invisibile della domanda e dell’offerta promuovendo nuovi valori come quello della collaborazione e la presenza fondamentale dello Stato che ha l’obbligo di vigilare sull’economia. La nuova infrastruttura riconfigurerebbe l’orientamento spaziale e temporale della società imponendo nuovi modi di organizzazione e gestione delle attività produttive e degli stili di vita. Ma questi cambiamenti, energetico ed economico, non potranno avvenire se non cominceremo a pensare in maniera diversa anche alla politica, mettendo da parte la nostra visione dicotomica del mondo, se non cominceremo a pensare oltre la destra e la sinistra. L’autore ci suggerisce la condizione superficiale e banale di questa classificazione affermando che la discussione non si basa su colori politici ma su regimi centralizzati e autoritari e regimi distributivi e collaborativi.

Un’ultima  riforma invece deve avvenire nella concezione dello spazio. Oggi sentiamo spesso parlare di globalizzazione ma ciò che propone Rifkin è invece la continentalizzazione, attraverso la promozione di unioni continentali che non abbiano scopi solamente economici. Degli esempi ne sono l’Asean, l’Unione Africana, l’Unione Sudamericana. Quest’ultime infatti vorrebbero farsi promotori di una transizione radicale: passare dalla geopolitica alla politica della Biosfera affinché questa possa finalmente far capire che la sopravvivenza è una questione non di competizione ma di cooperazione.

Rifkin, in sostanza ci propone un cambiamento di paradigma, e per farlo si serve della demolizione della teoria capitalistica formulata da Adam Smith. Ci spiega innanzitutto che l’economia non è una scienza ma che nasce e trae le sue origine dalla fisica termodinamica teorizzata da Newton, e che si propone, in modo del tutto discutibile, di trasferire quelle che sono leggi matematiche in un contesto invece probabilistico. Questo trasferimento non solo è sbagliato poiché fa riferimento a due contesti e sistemi completamente diversi, ma non tiene neanche conto di tutte le variabili, ad esempio quello dell’entropia. Un dimostrazione di questa tesi si riscontra ad esempio nel consumo di carne animale: infatti l’energia disponibile da una bistecca è solo una minuscola frazione di tutta quella consumata nel processo di produzione di quest’ultima: la creazione della bistecca fornisce quindi un’energia molto minore (11%) di quella che la bistecca stessa possa renderci una volta consumata. Ridimensionando l’economia capitalistica, il concetto di possesso lascerà spazio in  favore dell’uso e dell’accesso, i beni ai servizi.

Oltre tutto ciò la Terza Rivoluzione Industriale modificherà il senso di relazione e della responsabilità verso i nostri simili, favorendo la visione di un coscienza biosferica, farà nascere una distinzione tra quantità e qualità della crescita, e si instaureranno fattori diversi dal PIL per misurare il benessere e la felicità di una società. Nella nuova era i nostri orizzonti spazio-temporali si estenderanno al di là degli arbitrari confini politici fino ad abbracciare la Terra stessa. E dovrà essere così “perché solamente quando cominceremo a pensarci come un’estesa famiglia globale, che non include solo la nostra specie ma anche tutti i nostri compagni nel cammino evolutivo della Terra saremo in grado di salvare la nostra comune biosfera e rinnovare il pianeta per le future generazioni”.