Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Geopolitica della guerra contro la Siria e di quella contro Daesh

Geopolitica della guerra contro la Siria e di quella contro Daesh

di Thierry Meyssan - 22/10/2014

Fonte: voltairenet

In questa analisi, nuova e originale, Thierry Meyssan espone le ragioni geopolitiche del fallimento della guerra contro la Siria e gli obiettivi reali della presunta guerra contro Daesh. Questo articolo è particolarmente importante per capire le attuali relazioni internazionali e la cristallizzazione dei conflitti nel Levante (Iraq, Siria e Libano).

JPEG - 39.6 Kb

Le tre crisi in seno alla coalizione

Stiamo assistendo alla terza crisi nel campo degli aggressori dall’inizio della guerra contro la Siria.

- Nel giugno 2012, in occasione della Conferenza di Ginevra 1, che doveva segnare il ritorno della pace e doveva organizzare una nuova spartizione in Medio Oriente tra gli Stati Uniti e la Russia, la Francia - che aveva appena eletto François Hollande - sancì un’interpretazione restrittiva della dichiarazione finale. Poi organizzò il rilancio della guerra, con l’aiuto di Israele e della Turchia e il sostegno del Segretario di Stato Hillary Clinton e del direttore della CIA David Petraeus.

- Dopo che Clinton e Petraeus erano stati eliminati dal presidente Obama, la Turchia organizzò nell’estate del 2013, con Israele e la Francia, il bombardamento chimico della Ghoutta presso Damasco facendolo attribuire alla Siria. Ma gli Stati Uniti rifiutarono di lasciarsi imbarcare in una guerra punitiva.

- A gennaio 2014, gli Stati Uniti fecero votare in una sessione segreta del Congresso il finanziamento e la fornitura d’armi a Daesh con la missione di invadere le aree sunnite dell’Iraq e la zona curda della Siria, al fine di dividere questi grandi Stati. La Francia e la Turchia armarono quindi Al-Qa’ida (il Fronte al-Nusra) affinché attaccasse Daesh e costringesse gli Stati Uniti a tornare al piano originale della Coalizione. Sebbene Al-Qa’ida e Daesh si siano riconciliati a maggio a seguito di un appello alla calma di Ayman al-Zawahiri, la Francia e la Turchia non partecipano ancora ai bombardamenti alleati.

In generale, la Coalizione deli Amici della Siria, che comprendeva nel luglio 2012 «un centinaio di Stati e organizzazioni internazionali», non ne comprende ora più di 11. La Coalizione contro Daesh raggruppa, da parte sua, «più di 60 Stati», ma hanno talmente poco in comune che il loro elenco resta segreto.

Interessi distinti

In realtà, la Coalizione è composta da numerosi Stati che perseguono ciascuno obiettivi specifici e non riescono ad accordarsi sul loro obiettivo comune. Si possono distinguere quattro forze:

- Gli Stati Uniti cercano di controllare gli idrocarburi della regione. Nel 2000, il National Energy Policy Development Group (NEPDG) presieduto da Dick Cheney aveva identificato - attraverso immagini satellitari e dati di trivellazione - le riserve mondiali di petrolio e aveva osservato le immense riserve del gas siriano. Durante il colpo di stato militare del 2001, Washington decise di attaccare in successione otto paesi (Afghanistan, Iraq, Libia, Libano e Siria, Sudan, Somalia, Iran) per impadronirsi delle loro risorse naturali. Il suo stato maggiore ha poi adottato il piano per rimodellare il «Medio Oriente allargato» (che prevede anche lo smantellamento della Turchia e dell’Arabia Saudita), mentre il Dipartimento di Stato ha creato l’anno successivo il suo dipartimento MENA per organizzare le "primavere arabe".

- Israele difende i suoi interessi nazionali: a breve termine, ha continuato passo a passo la sua espansione territoriale. Contemporaneamente e senza attendere di controllare l’intero spazio tra i due fiumi, il Nilo e l’Eufrate, intende controllare tutta l’attività economica della zona, tra cui beninteso gli idrocarburi. Per assicurarsi la sua protezione nell’era dei missili, intende da una parte prendere il controllo di una zona di sicurezza lungo la sua frontiera (oggi ha cacciato le forze di pace al confine del Golan e le ha sostituite con Al-Qa’ida) e dall’altra parte neutralizzare gli eserciti egiziano e siriano prendendoli alle spalle (dispiegamento di missili Patriot della NATO in Turchia, creazione di un Kurdistan in Iraq e del Sud Sudan).

- la Francia e la Turchia continuano il sogno di restaurare i loro imperi. La Francia spera di ottenere un mandato sulla Siria, o almeno su una parte del paese. Ha creato l’Esercito siriano libero e gli ha dato la bandiera verde, bianca, nera a tre stelle del mandato francese. La Turchia, dal canto suo, intende restaurare l’Impero Ottomano. Ha designato un wali fin da settembre 2012 per amministrare questa provincia. I progetti turchi e francesi sono compatibili perché l’Impero ottomano aveva ammesso che alcune sue province potessero essere amministrate con altre potenze coloniali.

- Infine, l’Arabia Saudita e il Qatar sanno che non possono sopravvivere se non servendo gli Stati Uniti e combattendo i regimi laici, di cui la Repubblica araba siriana resta ormai l’unica espressione nella regione.

L’evoluzione della Coalizione

Queste quattro forze hanno potuto collaborare solo durante la prima parte della guerra, da febbraio 2011 a giugno 2012. Si trattava in effetti di una strategia di quarta generazione: alcuni gruppi di forze speciali organizzavano incidenti e agguati qui e lì, mentre le televisioni atlantiste e del Golfo mettevano in scena una dittatura alauita che reprimeva una rivoluzione democratica. Le somme investite e i soldati schierati non rappresentano granché e ognuno pensava di poter tirare un po’ la coperta su di sé una volta che la Repubblica araba siriana fosse stata rovesciata.

Tuttavia, nei primi mesi del 2012, il popolo siriano ha cominciato a dubitare che il presidente Bashar al-Assad torturasse i bambini e che la Repubblica venisse rovesciata a favore di un sistema confessionale di tipo libanese. La sede dei takfiristi dell’Emirato Islamico di Baba Amr lasciava presagire la sconfitta dell’operazione. La Francia negoziò allora l’uscita della crisi e la restituzione degli ufficiali francesi che erano stati fatti prigionieri. Gli Stati Uniti e la Russia negoziarono al fine di sostituirsi al Regno Unito e alla Francia e di spartirsi l’insieme della regione, così come fecero Londra e Parigi con gli accordi Syke-Picot del 1916.

Da quel momento, niente funzionava più nella coalizione. I suoi successivi fallimenti dimostrano che non può vincere.

Nel luglio 2012, la Francia organizzava in pompa magna a Parigi l’incontro più importante della Coalizione e rilanciava la guerra. Il discorso pronunciato da François Hollande era stato scritto in inglese, probabilmente dagli israeliani, e poi tradotto in francese. Il Segretario di Stato Hillary Clinton e l’ambasciatore Robert S. Ford (formato da John Negroponte) s’impegnavano nella più vasta guerra segreta della storia. Come era già accaduto in Nicaragua, eserciti privati reclutavano mercenari e li inviavano in Siria. Solo che stavolta questi mercenari vebivano inquadrati ideologicamente per addestrare delle orde jihadiste. La supervisione delle operazioni sfuggiva al Pentagono per tornare in mano al Dipartimento di Stato e alla CIA. Il costo di questa guerra fu enorme, ma non fu imputato al Tesoro degli Stati Uniti, né della Francia né della Turchia, giacché fu interamente coperto dagli esborsi dell’Arabia Saudita e del Qatar.

Secondo la stampa atlantista e del Golfo, qualche migliaio di stranieri vennero e dare manforte alla "rivoluzione democratica siriana." Ma non c’era nulla di una "rivoluzione democratica", bensì gruppi di fanatici che scandivano slogan come «Rivoluzione pacifica: i cristiani a Beirut, gli alauiti nella tomba!» [1] oppure ancora «No a Hezbollah, no all’Iran, vogliamo un presidente che tema Dio!» [2]. Secondo l’Esercito arabo siriano, non sono state poche migliaia, bensì 250mila, gli jihadisti stranieri che sarebbero venuti a combattere, e spesso a morire, dal luglio 2012 al luglio 2014.

Ora, il giorno dopo la sua rielezione, Barack Obama costringeva alle dimissioni il direttore della CIA, il generale David Petraeus, e si sbarazzava di Hillary Clinton durante la formazione della sua nuova amministrazione. Cosicché all’inizio del 2013, la Coalizione si basava quasi solo esclusivamente sulla Francia e la Turchia, con gli Stati Uniti che facevano il meno possibile. Questo era ovviamente il momento che aveva atteso l’Esercito arabo siriano per lanciare la sua inesorabile riconquista del territorio.

François Hollande e Recep Tayyip Erdoğan, Hillary Clinton e David Petraeus intendevano rovesciare la repubblica laica per imporre un regime sunnita che sarebbe stato posto sotto il dominio diretto della Turchia, ma che avrebbe compreso anche alti funzionari francesi. Un modello ereditato dalla fine del XIX secolo, ma che non rappreentava alcun interesse per gli Stati Uniti.

Barack Obama e i suoi due segretari alla Difesa, Leon Panetta e Chuck Hagel sono guidati da una politica radicalmente diversa: Panetta è stato espresso dalla Commissione Baker-Hamilton e Obama è stato eletto sulla scorta del programma di tale Commissione. Secondo loro, gli Stati Uniti non sono né devono essere una potenza coloniale nel senso mediterraneo del termine, il che vale a dire che non dovrebbero prendere in considerazione di controllare un territorio installandovi dei coloni. L’esperienza dell’amministrazione Bush in Iraq è stata estremamente costosa rispetto al suo ritorno sugli investimenti. Non dovrebbe essere riprodotta.

Dopo che la Turchia e la Francia hanno cercato di impelagare gli Stati Uniti in un vasto bombardamento della Siria, mettendo in scena la crisi chimica dell’estate 2013, la Casa Bianca e il Pentagono hanno deciso di riprendere il bandolo della matassa. Nel gennaio del 2014, hanno convocato una riunione segreta del Congresso al quale è stata fatta votare una legge segreta che approva un piano di divisione dell’Iraq in tre parti nonché la secessione della regione curda della Siria. Per far questo, hanno deciso di finanziare e armare un gruppo jihadista in grado di realizzare ciò che il diritto internazionale proibisce all’esercito statunitense: una pulizia etnica.

Barack Obama ei suoi armati non stanno prendendo in considerazione il rimodellamento del "Medio Oriente allargato" come un obiettivo in sé, ma solo come un mezzo per controllare le risorse naturali. Usano un concetto classico, divide et impera, non per creare posizioni di re e presidenti in nuovi Stati, ma per continuare la politica degli Stati Uniti in vigore dai tempi di Jimmy Carter.

Nel suo discorso sullo stato dell’Unione del 23 gennaio 1980, il Presidente Carter sanciva la dottrina che porta il suo nome: Washington ritiene che gli idrocarburi del Golfo siano indispensabili alla sua economia e gli appartengono. Pertanto, qualsiasi rimessa in causa da parte di chiunque, in virtù di questo assioma, sarà considerata «un attacco agli interessi vitali degli Stati Uniti d’America, e un tale attacco sarà respinto con ogni mezzo necessario, compresa la forza militare». Nel corso del tempo, Washington si è dotata dello strumento di questa politica, il CentCom, e ha esteso la sua zona riservata al Corno d’Africa.

Pertanto, l’attuale campagna di bombardamenti della Coalizione non ha più alcun rapporto con l’obiettivo iniziale di rovesciare la Repubblica araba siriana. Non ha rapporto alcuno con la sua vetrina di "guerra al terrorismo". Essa punta esclusivamente a difendere gli interessi economici dei soli Stati Uniti, se necessario con la creazione di nuovi Stati, ma non necessariamente.

Allo stato attuale, il Pentagono è simbolicamente aiutato da qualche aereo saudita e qatariota, ma non dalla Francia né dalla Turchia. Rivendica esso stesso di aver condotto più di 4.000 sortite, ma di aver ucciso soltanto poco più di 300 combattenti dell’Emirato islamico. Se ci atteniamo al discorso ufficiale, ne risulta che per uccidere un solo jihadista occorrono più di 13 missioni aeree e un numero imprecisato di bombe e missili. Si tratterebbe perciò della campagna aerea più costosa e più inefficiente della Storia. Ma se si considera il ragionamento precedente, l’attacco di Daesh contro l’Iraq corrisponde a una manipolazione dei prezzi del petrolio che li ha fatti cadere da 115 dollari al barile a 83 dollari, ossia un calo di quasi il 25%. Nouri al-Maliki, il primo ministro iracheno legittimamente eletto, che vendeva la metà del suo petrolio alla Cina, è stato subitaneamente stigmatizzato e rovesciato. Daesh e il governo regionale del Kurdistan iracheno hanno ridotto essi stessi il loro furto di petrolio e l’esportazione di circa il 70%. L’insieme degli impianti petroliferi utilizzati dalle aziende cinesi sono stati puramente e semplicemente distrutti. Di fatto, il petrolio iracheno e il petrolio siriano sono sfuggiti agli acquirenti cinesi e sono stati reintegrati nel mercato internazionale controllato dagli Stati Uniti.

In definitiva, questa campagna aerea è un’applicazione diretta della "Dottrina Carter" e un monito al presidente Xi Jinping che tenta di concludere, qua e là, dei contratti bilaterali di fornitura di idrocarburi per il suo paese, senza passare per il mercato internazionale.

Anticipare il Futuro

Da questa analisi possiamo concludere che:

- Nel periodo attuale, gli Stati Uniti sono disposti a condurre una guerra solo per difendere il loro interesse strategico a controllare il mercato internazionale del petrolio. Di conseguenza, possono andare in guerra contro la Cina, ma non contro la Russia.

- La Francia e la Turchia non saranno mai in grado di realizzare i loro sogni di ricolonizzazione. La Francia dovrebbe riflettere al ruolo che l’AfriCom le ha assegnato sul continente nero. Essa può continuare a intervenire in tutti gli stati che tentano di avvicinarsi alla Cina (Costa d’Avorio, Mali, Repubblica Centrafricana) e riportare l’ordine "occidentale", ma non sarà mai in grado di ripristinare il suo impero coloniale. La Turchia dovrebbe ugualmente abbassare i toni. Anche se il presidente Erdoğan riesce a fare un’alleanza contro natura tra i Fratelli Musulmani e gli ufficiali kemalisti, dovrebbe abbandonare le sue ambizioni neo-ottomane. Soprattutto, dovrebbe ricordarsi che finché è un membro della NATO, il suo paese è più di ogni altro suscettibile d’essere la vittima di un colpo di Stato filo-statunitense, così come lo sono stati prima di lui il greco Georgios Papandreou e il turco Bülent Ecevit.

- L’Arabia Saudita e il Qatar non saranno mai rimborsati dei miliardi che hanno investito a fondo perduto per rovesciare la Repubblica araba siriana. Peggio ancora, è probabile che dovranno pagare per una parte della ricostruzione. La famiglia Saud dovrebbe continuare a soddisfare gli interessi economici statunitensi, ma evitare di perseguire guerre di grande ampiezza e considerare che - in qualsiasi momento - Washington può decidere di partizionare la loro proprietà privata, l’Arabia Saudita.

- Israele può sperare di continuare a giocare sotto il tavolo per provocare nel medio termine l’effettiva divisione dell’Iraq in tre parti. Otterrebbe così un Kurdistan iracheno paragonabile al Sud Sudan che è stato già creato. È tuttavia improbabile che possa collegarvi immediatamente il Nord della Siria. Allo stesso modo, è improbabile che possa spodestare la missione UNIFIL nel Libano meridionale e sostituirla con Al-Qa’ida come ha fatto con la missione UNDOF alla frontiera siriana. Ma in 66 anni Israele ha preso l’abitudine di osare molto spesso per ottenere ogni volta qualcosa in più. In realtà è l’unico vincitore in questa guerra contro la Siria e all’interno della Coalizione. Non solo ha indebolito il suo vicino siriano per lunghi anni, ma è riuscito a costringerlo ad abbandonare il suo arsenale chimico. Così è oggi l’unico Stato al mondo a disporre ufficialmente sia di un arsenale nucleare sofisticato, sia un arsenale chimico e biologico.

- L’Iraq è di fatto diviso in tre Stati separati di cui uno, il Califfato, non potrà mai essere riconosciuto dalla Comunità internazionale. Inizialmente, non vediamo che cosa impedirebbe la secessione del Kurdistan, se non la difficoltà di spiegare per quale incanto abbia aumentato il suo territorio del 40% in rapporto alla sua definizione amministrativa, compresi i campi petroliferi di Kirkuk. Il Califfato dovrebbe gradualmente lasciare il posto a uno Stato sunnita, probabilmente governato da uomini che hanno ufficialmente "lasciato" Daesh, ma in maniera meno crudele. Si tratterebbe in tal caso di un processo paragonabile a quello della Libia, dove sono stati collocati al potere veterani di Al-Qa’ida senza sollevare la minima protesta.

- La Siria gradualmente ritroverà la pace e si concentrerà sulla sua lunga ricostruzione. Si rivolgerà allo scopo alle imprese cinesi, ma terrà Pechino lontano dai suoi idrocarburi. Per ricostruire la sua industria petrolifera e per sfruttare le sue riserve di gas, si rivolgerà a imprese russe. La questione dei gasdotti che la attraverseranno dipenderà dai suoi sostegni iraniano e russo.

- Il Libano continuerà a vivere sotto la minaccia di Daesh ma mai l’organizzazione avrà un ruolo diverso da quello dei terroristi. Gli jihadisti saranno solo un mezzo per congelare un po’ di più il funzionamento politico di un paese che affonda nell’anarchia.

- Infine, la Russia e la Cina dovrebbero urgentemente intervenire contro Daesh, in Iraq, in Siria e in Libano, non tanto per compassione per le popolazioni locali, quanto perché questo strumento sarà presto utilizzato contro di loro dagli Stati Uniti. Già ora, se Daesh è controllata dal principe saudita Abdul Rahman, che finanza, e dal califfo Ibrahim, che dirige le operazioni, i suoi ufficiali principali sono georgiani, tutti membri dei servizi segreti militari, e talvolta cinesi turcofoni. Inoltre, il ministro della difesa georgiano ha ammesso, prima di smentirsi, di aver ospitato campi di addestramento per jihadisti. Se Mosca e Pechino esitano, dovranno affrontare Daesh nel Caucaso, nella valle di Ferghana, e nello Xinjiang.


Traduzione
Matzu Yagi

Fonte