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Nessuno saprebbe disprezzare e degradare la donna, quanto la donna stessa

di Francesco Lamendola - 28/10/2014

Fonte: Arianna editrice




 

La vulgata culturale oggi dominante, specie nell’ambito delle cosiddette scienze psicologiche, vuole che il maschio, e solamente il maschio, sia capace di coltivare fantasie sessuali “sporche”, incentrate sulla degradazione, sulla violenza, sulla profanazione, anzi che vi sia incline: a lui, e a lui solo, sarebbe connaturato un modo di porsi istintivamente brutale, strutturalmente aggressivo e sadico, nei confronti dell’altro sesso; mentre le fantasie sessuali femminili sarebbero caratterizzate dal romanticismo, dall’ingenuità, dalla tenerezza e dalla dolcezza.

Naturalmente sono tutte sciocchezze, ma hanno preso piede nell’immaginario collettivo e si sono imposte come altrettante verità anche nei “piani alti” della cultura ufficiale: psicologi da settimanale illustrato le ripetono senza ritegno e soprattutto senza fantasia; insegnanti debitamente “progressisti” le inculcano ben bene nella mente dei loro studenti, tanto che, alla fine, i maschi per primi le hanno totalmente introiettate, insieme a una buona dose di sensi di colpa per il fatto di appartenere a un tipo umano così spregevole e ripugnante, così sordido nei suoi appetiti e così immeritevole, non diciamo di amore, ma anche solo di stima e di rispetto.

Che le cose, però, non stiamo affatto così; che le fantasie sessuali incentrate sulla violenza e sulla degradazione siano, appunto, fantasie, non necessariamente correlate con i comportamenti volontari della vita cosciente; che esse siano proprie non solo del genere maschile, ma anche di quello femminile; che vi siano delle donne, anzi, le quali si spingono molto più in là della maggior parte dei maschi nell’immaginare la degradazione del sesso femminile, sia in se stesse che nelle altre donne, e magari ad opera non di uomini, ma di donne, a cominciare da loro stesse: tutte queste sono verità che emergono, naturalmente, in quei tristi e moderni confessionali che sono i lettini degli psicanalisti, nonché, qualche volta, nelle sedute di psicoterapia di gruppo, ma che sarebbe estremamente scorretto e ineducato  riportare fuori da quelle porte chiuse e divulgare in pubblico, raccontare nei libri, riferire nelle pubbliche conferenze o, Dio non voglia, nelle aule scolastiche e universitarie. È il segreto di Pulcinella, tutti ne sono a conoscenza e, nondimeno, la cultura ufficiale fa finta di non saperne assolutamente nulla: e a tale consegna del silenzio si attengono tutte le persone perbene, tutti i bravi cittadini d’ambo i sessi e specialmente quelle stesse signore che in privato, nondimeno, sentono il bisogno di abbandonarsi a simili sfoghi, non trovandoci nulla di male  o, meglio, proprio godendo del fatto che sono “male”.

Premesso che avere delle fantasie sessuali “spinte” non costituisce, di per sé, un reato, e che non esiste un rapporto automatico fra esse i comportamenti volontari della vita quotidiana, dal momento che le fantasie assolvono, appunto, la funzione di “valvole di sfogo” della dimensione istintuale compressa dalle maglie delle regole sociali (mente, viceversa, una persona che non ne ha affatto, potrebbe essere tentata di sfogare nella vita reale i propri impulsi primordiali e distruttivi), resta il fatto che le donne sono capaci di averne quante e più degli uomini, sia in termini di degradazione, sia in termini di componente sadica e omosessuale. Accade, infatti, che raramente le donne amino fantasticare su violenze perpetrate ai danni del maschio: più spesso fantasticano di violenze subite, con voluttà, da esse medesime, oppure inflitte a un’amica, a un’amante, a una perfetta sconosciuta, creature note o ignote che popolano i loro sogni proibiti, notturni e diurni.

Così, per esempio, la giovanissima scrittrice inglese Helen Walsh (nata nel 1977 vicino a Liverpool), nel suo romanzo d’esordio «Senza pudore», descrive non una fantasia, ma un reale rapporto sessuale avvenuto fra la protagonista, una studentessa appena ventenne, trasparente alter-ego dell’Autrice, e una prostituta, alla quale si rivolge, non si sa se mentalmente o a voce alta, insultandola e provocandola con tutto il repertorio pornografico che generalmente si considera specifico del maschio brutale, per poi passare all’azione con la stessa carica di violenza e di disprezzo che appartiene allo stereotipo del maschio sadico e profanatore (titolo originale: «Brass», Edinburgh, Canongate Books Ltd., 2004; traduzione dall’inglese di Cristiana Mennella, Torino, Einaudi, 2005, pp.  84-87):

 

«… Scommetto che adori farti scopare, vero? Scommetto che di notte quando sei a letto ti masturbi pensando ai tuoi clienti. Ti piace il tuo mestiere, vero? Non lo fai per soldi. Lo fai perché TI PIACE DA MORIRE! Sento una tensione salirmi nella gambe e nelle braccia mentre un nuovo desiderio mi invade, la voglia di depravazione assoluta, di umiliare ed essere infangata. Affondo la lingua nel culo e stavolta stramazza come sotto l’effetto di un anestetico. Crolla sui gomiti e appoggia la testa floscia a terra e lentamente spalanca le gambe, sempre di più, finché il clitoride non è a un soffio dal pavimento. Immagini oscene irrompono nella mia mente, scontrandosi con le più disgustose fantasie nascoste. E anche lei sembra in preda allo stesso desiderio di depravazione che mi divora. Una volta Billy mi ha detto che secondo la prassi una puttana deve staccare la spina quando la scopano. Il piacere non è un’indennità accessoria del mestiere. Stando così le cose, ha reiteratamente violato il codice di comportamento, mugolando senza ritegno, lasciando che la sua fica mi inghiottisse e inzuppasse la faccia, godendosi la scopata quanto me. Blandisco un altro po’ l’ano, e quando la sento irrigidirsi perché è vicina all’orgasmo mi stacco e mi allungo a prendere la bottiglia. Mi lancia uno sguardo  fra impaurito e l’eccitato.  Mi inginocchio dietro di lei e passo la punta della bottiglia  su e giù per lo spacco, infilandola  nel culo di qualche centimetro.

- Dall’altra parte, - bisbiglia, spingendola fuori con i muscoli. - Così è pericoloso.

La bottiglia è troppo larga per infilargliela nel culo, e così lentamente, con cautela, la affondo nella fica. Le esce un rantolo.

- Vuoi che smetto? – chiedo, infilandone dentro un altro po’.

Mi lancia uno sguardo combattuto. Tiro leggermente fuori la bottiglia.

- Se non ti piace, smetto. Basta che lo dici.

Tolgo le mani, ma la bottiglia resta immobile, tenuta stretta solo dalla fica.

- Allora mi fermo, va bene?

Sul suo viso scorre un arcobaleno di emozioni. Scuote la testa con muta intensità.

L’afferro per i capelli e le strattono la testa all’indietro costringendola a guardarmi mente immergo tutta la bottiglia. Lo faccio velocemente, in malo modo. I muscoli della sua schiena si inarcano e si distendono, scintillanti di sudore. La scopo più forte, ritmando il movimento col polso. La fica succhia avida la bottiglia, dettando la velocità e la forza della scopata. Infilo il polpastrello della mano libera nel culo che sembra dilatarsi e contrarsi ogni volta che la bottiglia affonda o riemerge, e resto sconvolta alla setosità della pelle che separa la fica dal culo. La scopo senza bravura né compassione. Ormai ho perso il controllo. Sto solo cacciando fuori e dentro la bottiglia più veloce che posso. I suoi gemiti si trasformano in urli, brividi e spasmi la scuotono finché all’improvviso non cede, frana sul pavimento e la bottiglia schizza fuori come un proiettile.

Si scosta e giace lì sfinita, luccicante di sudore. Le scivolo accanto, e mentre tutti i sensi piano piano ritornano, mi perdo nella beatitudine di questo attimo. Puttana e cliente uniti, intimi come una coppia di sposi.

Restiamo lì nel torpore che segue, le nostre ombre accentuano il saliscendi dei nostri petti. Siamo di nuovo estranee, mute e imbarazzate, tornate alla realtà. Mi prende il solito vecchio impulso di scappare. Non voglio stare in questa stanza, con questa donna. Sento l’odore della sua fica sulle labbra e provo un senso di nausea, di sporco, di rovina. Dovrei rivestirmi e andarmene. Sì, lo faccio..

Fra un minuto.

Me ne vado.»

 

Per la verità, tutta la scena sembra presa a prestito da una analoga vicenda narrata ventisette anni prima dalla scrittrice ebrea americana Erica Jong nel suo romanzo «Come salvarsi la vita», tanto che non ci sentiremmo di escludere che sia stata copiata di sana pianta, con l’unica differenza che il rapporto qui non si svolge fra una giovane studentessa e una prostituta di terz’ordine, ma fra due brillanti, promettenti e ingioiellate signore della ricca borghesia newyorkese, una delle quali ebrea: la protagonista, che si permette di scherzare sopra le proprie origini, allorché fa allusione all’inconscio antisemitismo dell’amante; ma guai se un tale accenno, peraltro costruito su una immagine sessuale volutamente oscena e quindi doppiamente razzista, fosse stato fatto da uno scrittore maschio, per giunta non ebreo (da: E. Jong, «Come salvarsi la vita»; titolo originale: «How to save your own life», 1977; traduzione dall’inglese di Marisa Caramella, Milano, Gruppo Editoriale Fabbri, 1977, 1988, pp.181-82):

 

«… Mi sembrava che andasse molto meglio per me dividermi equamente fra Bennett e Rosanna. I giorni con lei, le notti con lui. Scrivere nel suo appartamento, bere vino rosso, sdraiarmi sul letto di vimini (di modo che lei potesse  leccarmi con tenerezza e io con disperazione). Più tardi andavamo in giro per la città con la Rolls col tetto abbassato, divertendoci alle reazioni della gente, con gli stessi vestiti di jeans da rock star, lo stesso profumo di muschio, le conversazioni su Roethke,  Virginia Woolf, Neruda. Io la aiutavo a rivedere le sue poesie e lei mi confortava durante gli attacchi di gelosia rabbiosa. Eravamo buone l’una con l’altra e stavamo bene insieme. Era un’amicizia vera… o almeno l’inizio di un’amicizia vera.

L’unico problema era il letto. Io mi davo da fare come una matta con cazzi artificiali, bottiglie di Coca-Cola, vibratori giapponesi di plastica verde. Uno grosso nella fica e uno piccolo nel sedere. Tutti i colori dell’arcobaleno. Le infilavo cetrioli coperti da preservativi fantasia  e banane avvolte da preservativi francesi. Avevo comperato una doccia a vibrazioni e facevamo lunghi bagni insieme. Niente da fare. Lei arrivava sempre sull’orlo dell’orgasmo e poi si ritraeva, tremante, vibrante, con le ginocchia che le si piegavano. Però non se la prendeva con me. Era troppo educata per fare una cosa del genere. Era sempre molto carina sul fatto che non veniva mai. Eppure, a mano a mano che il tempo passava, cominciai a pensare che avesse una fica inconsciamente antisemita.

Ma non osai dire niente. C’era qualcosa in Rosanna che faceva venir voglia di essere gentili, delicati, pieni di tatto… forse spaventati? Sembrava al di sopra di una cosa volgare come l’orgasmo.  Sembrava fatta di puro spirito… come le voci  sulle quotazioni in borsa.

Poi, un giorno, all’inizio dell’estate, arrivai a casa sua con una bottiglia di Dom Pérignon ghiacciato (per festeggiare il suo trentatreesimo compleanno). Bevemmo lo champagne, mangiucchiamo un po’ di Jarlsberg svizzero e il “paté de foie Strasbourg truffé”. Quando la bottiglia verde scuro di champagne fu vuota,  eravamo abbastanza ubriache da guardarla e avere la stessa idea.  Andammo a letto con la bottiglia, ci abbracciamo e ci baciammo, ci succhiammo i capezzoli a vicenda, ci accarezzammo  le cosce a vicenda, finché, finalmente, dopo un mese di vibratori, frutta e acqua vibrante, ebbi il piacere di vedere Rosanna Howard raggiungere un tumultuoso orgasmo con la bottiglia verde del Dom Pérignon che le spuntava dalla fica riluttante.

Continuò a ringraziarmi per ore. Pianse lacrime di gratitudine. Pare che fosse riuscita a venire solo poche altre volte quando suo marito la leccava durante le mestruazioni. Attribuì quell’orgasmo miracoloso alla mia abilità. Io lo attribuii alla Moët et Chandon di Epernay. Sarebbe venuta lo stesso con una bottiglia di Paul Masson o di Taylor dello stato di New York?

Credo che la risposta sia chiara.»

 

Sì, è vero: sono immagini talmente crude e talmente degradanti per la donna, che solo l’ironia e il tono di voluta leggerezza le rende un po’ meno raccapriccianti (nel caso della Jong; in quello della Walsh, non c’è che un iper-realismo greve, cupo e ossessionante); però rendono perfettamente l’idea che volevamo sviluppare: il fatto che nessuno sia capace di concepire e di esprimere disprezzo, brutalità e gusto della profanazione nei confronti della donna, più di quanto sappia fare la donna stessa. Per trovarne altrettanto, bisogna andarsi a sfogliare le pagine più crude e repellenti del Divino Marchese o scende nei bassifondi della letteratura e del cinema a luci rosse, concepiti per un pubblico di potenziali o reali pervertiti.

Tutto questo sarebbe comunque accettabile, così come si accettano le storture che non possono essere eliminate, se la cultura femminista oggi imperante non avesse totalmente rimosso una simile realtà e se non avesse imposto l’idea – finora con le armi del ricatto psicologico e culturale, fra poco anche a colpi di codice penale – che la donna è la vittima designata della brutalità maschile, se non nella dimensione fattuale, almeno in quella fantastica; e che essa, da parte sua, sarebbe assolutamente incapace di provare impulsi così abominevoli, a maggior ragione se rivolti verso se stessa o verso le altre donne.

Non mancheranno, a questo punto, obiezioni basate sulla tesi che le donne, dopo essere state costrette, dall’imposizione maschile, a rinchiudersi nel ruolo passivo di vergini, madri, angeli e così via, per reazione, e solo per reazione, hanno finito per maturare un istinto di rivolta e di profanazione, non già di se stesse, ma di quella immagine forzata e inautentica, basata sulla perfezione e sulla sottomissione, che è stata cucita loro addosso (ma è proprio vero? ed esse non hanno collaborato affatto a una tale operazione?) dal maschio padrone. Obiezioni, diciamolo subito, del tutto inconsistenti e avanzate, generalmente, con poca buona fede: ammesso e non concesso che tale imposizione culturale vi sia stata, nei tempi passati – passati da molto, va sottolineato -, non si capisce perché la donna moderna, che non l’ha conosciuta, se non dalle pagine dei libri, e che non l’ha “subita” in alcun modo sulla propria pelle, e nemmeno ha potuto sentirla raccontare da sua madre, dovrebbe sfogare chissà quale rabbia repressa; né si capisce perché, “per reazione”, dovrebbe accogliere e far proprio, ma rivolgendolo contro se stessa, quello stesso armamentario di fantasie sadiche e pornografiche che le “perseguita” da parte dell’uomo, come l’altra faccia della medaglia dello stilnovismo e del romanticismo angelicato.

Lo schiavo che si ribella alle imposizioni del padrone non fantastica di essere frustato, brutalizzato, violentato per propria libera scelta: fantastica, semmai, di distruggere la frusta e di bruciare la casa del padrone; la sua immaginazione non si pasce delle immagini d’una rinnovata profanazione del proprio corpo e d’una rinnovata umiliazione della propria anima, ma di una vita finalmente libera e attiva, nella quale egli compie scelte consapevoli, magari anche atti di violenza, ma per vendicarsi dei suoi aguzzini ed esorcizzare, così, i propri fantasmi interiori. Solo un represso che sia anche malato di mente, al momento in cui la repressione cessa e in cui i condizionamenti culturali si allentano, non saprebbe far di meglio che indugiare, con la fantasia, in sempre nuovi pensieri di auto-umiliazione ed auto-profanazione; una persona normale, che abbia riacquistato la propria libertà fisica e psicologica, si considera paga e felice di potersene andare per la sua strada, senza voltarsi indietro. Ma scrittrici come Helen Walsh o Erica Jong non danno affatto l’impressione di essere interessate ai drammi della malattia mentale; semmai, di strizzare l’occhiolino ai gusti più grossolani del pubblico, vellicandoli e stuzzicandoli quanto è necessario a garantirsi l’interesse commerciale delle case editrici più spregiudicate.

Si vadano a vedere, del resto, i commenti che al libro della Walsh sono dedicati dalle sue lettrici nella galassia on line; i più frequenti sono del tipo: «Schifo, bello, bello; schifo, bello, bello…»; non sono, comunque, all’insegna del rifiuto scandalizzato o del disgusto e della condanna, ma esprimono un misto di attrazione e repulsione, in cui la prima componente è palesemente prioritaria: proprio come i giudizi che accolsero l’esordio letterario della Jong, quarant’anni fa. «Finalmente una donna ha buttato fuori tutto quello che le donne avevano in fondo al cuore, e che non osavano dire!»: questo, tradotto in parole semplici, è il senso della maggior parte dei commenti.

E allora? E allora siamo sempre lì: diventa persona, cioè adulto – nel senso migliore della parola – solo colui, o colei, che abbia il coraggio di guardare dritto negli occhi la propria Ombra, di riconoscerla, di accettarla; rimane un eterno bambino colui, o colei, che non sa, non può o non vuole farlo, e preferisce campare tutta la vita tirandosi dietro una falsa immagine di sé. La cultura neofemminista ha deciso che l’Ombra femminile non esiste: l’ha rimossa; ma, anche se questa si rifugia nella complice oscurità delle sedute di psicanalisi, talvolta balza fuori allo scoperto, magari sotto la penna d’una scrittrice intraprendente – oh, s’intende, debitamente femminista e progressista.