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Ancora sull'ISIS

di Franco Cardini - 28/10/2014

Fonte: Franco Cardini

 

Qualcuno mi rimprovera perché, a proposito del cosiddetto Islamic State of Iraq and al-Sham (ISIS), ho dato a suo dire l’impressione di “sottovalutarlo” dal punto di vista propriamente storico-religioso, considerandolo una specie di “modernismo islamico” ammalato di utopistica “nostalgia delle origini” musulmane e riduttivamente giudicandolo un caso di “religionizzazione della politica”. Non sono io a pensarlo: a indurci a intenderlo in tal modo è la storia di tutto quel che si è nel tempo denominato “fondamentalismo islamico”, quindi – secondo la proposta di Gilles Kepel, che in area francofona resta irreprensibile -, islamisme (il che da ora in poi suggerisce anche a noi italiani di definire “islamista” il musulmano radicale e semmai “islamologo” lo studioso dell’Islam, che prima si denominava secondo la precedente accezione) e ormai si preferisce definire “jihadismo” (secondo me con il solito permanente equivoco sul jihad, termine che NON è correttamente traducibile come “guerra santa”). Diciamo pure che tutto ciò appartiene a una questione storico-semantica e che, sulla sostanza delle cose, basta intendersi.

Eppure – mi si obietta – nel riferimento al “califfato” non c’è qualcosa di più profondo e di propriamente millenaristico-messianico-escatologico da considerare? Rispondo partendo dalla segnalazione di un articolo edito sul n. 34 di “Storia in rete”, Attenzione: l’ISIS viene da molto lontano…, dove un medico attento alle cose storiche come spesso i medici sono, esperto di questioni musulmane ed equilibratamente ma seriamente legato alla tradizione guénoniana, il dottor Mariano Bizzarri, sottolinea in termini peraltro molto prudenti la possibilità dell’esistenza – sia pure non segnata da un perfetto “continuismo”, anzi ricca di rotture e di aporie – di un rapporto tra le posizioni (magari occulte) dell’ISIS e addirittura il movimento di Muhammad Ahmad (1844-1885), il Mahdi sudanese vincitore tra l’altro di Gordon Pascià e conquistatore di Khartum, l’eredità del quale è raccolta oggi dal partito sudanese Umma (la “Matria”, termine con il quale si designa l’Islam in quanto comunità universale dei credenti) guidata dall’ex ministro sudanese Sadiq al-Mahdi, di Muhammad Ahmad a quel che apre discendente. Secondo Bizzarri – e credo di poter confermare il suo assunto – uno dei tanti rivoli della cosiddetta al-Qaeda sarebbe stata in contatto con i “mahdisti” sudanesi e lo stesso Usama bin-Laden avrebbe dimorato in Sudan tra 1992 e 1996. Servendosi in modo molto generoso ma anche giudizioso del “paradigma indiziario” di ginzburghiana memoria, Bizzarri fa notare come il sito dell’ISIS si denomini Daqib, con riferimento alla regione geografica tra Damasco e Aleppo nella quale secondo l’escatologia musulmana avverrebbe lo scontro finale tra il vero Mahdi (il “Ben Guidato”, figura escatologica molto simile se non affine rispetto al Cristo “della Seconda venuta”, Colui che guiderà i fedeli in virga ferrea, e il Dajjal, il “Mentitore”, anch’egli figura escatologica fondamentale, in tutto equivalente all’apocalittico Anticristo (si pensi alla tradizione inaugurata dal De Antichristo di Adsone di Montier-en-Der, proseguita dal Ludus de Antichristo germanico del XII secolo e mirabilmente culminata negli affreschi quattrocenteschi della cattedrale di Orvieto). L’attesa escatologica del futuro Mahdi è diffusa in Sudan, nel salafismo irakeno, nella penisola arabica, nell’area africana tra Ciad, Mali e Nigeria. Bizzarri, che peraltro molto lealmente richiama – pur non abbracciandone in forma esplicita l’assunto – al libro di Jean Marc Allemand Les Sept Tours du Diable (Trédaniel 1990) nel quale si commentano le posizioni del Guénon, ricorda peraltro che tra il main stream di al-Qaeda, rappresentato da al-Zawahiri e vicina al fronte dei sunniti siriani antiassadisti di al-Nusra, e il mahdismo sudanese, si sia consumata nel 2013 una decisiva rottura.

Ora, anche Muhammad Ahmad era tutt’altro che un “sunnita” ortodosso: del resto, nell’Islam, non esistendo un’organizzazione propriamente ecclesiale non esiste nemmeno una disciplina condivisa che possa distinguere tra “ortodossia” ed “eresia”. E’ noto, ma forse è bene richiamarlo, quanto complesso sia il panoramica teologico-confessionale musulmano: non solo “sunniti”, “sciiti” e “kharigiti”, ma anche una quantità di sètte e di scuole. Al “millenarismo” mahdista può essere collegato nella sua radice lo stesso movimento wahabita nato nel quinto decennio del XVIII secolo in Arabia, i cui leaders sono gli emiri sauditi, oggi famiglia regnante del regno dell’Arabia da essi appunto denominata “saudita” e che, pur considerandosi rigorosamente sunnita, è alquanto lontano in realtà dalla tradizione ordinariamente conosciuta come Sunna. Legame tra mahdismo e wahabismo sarebbe la tariqa (“confraternita”) nota come samaniyya; ma esiste anche una parte degli sciiti irakeni, i seguaci della Jaysh al-Mahdi (“esercito del Mahdi”) organizzato nel 2003 dall’antisaddamista Muktar al-Sadr per contrastare gli invasori americani, che si rifà al mahdismo.

Al pari dei wahabiti, l’attuale movimento del “califfo” al-Baghdadi sembra insistere su una concezione della schari’a, la legge coranica, che si discosta molto dalla tradizione sunnita non diciamo ortodossa in quanto tale termine non ha senso riferito all’islam, ma quanto meno maggioritaria. La chiave di tutto – e Bizzarri lo sottolinea correttamente, sia pure un po’ troppo “occidentalizzandone” i termini – sta nella risorgenza del tema dell’ijtihal, un concetto che ha accompagnato i primi secoli dell’Islam venendo poi messo da canto e anzi proibito con la formalizzazione definitiva del testo coranico e della relativa sequenza delle “sure”. L’ijtihal, che concettualmente ha senza dubbio un rapporto di similitudine con il principio luterano del “libero esame” della Scritture, è fondamentalmente l’esegesi: cioè quello che per altri versi mancherebbe per rendere più flessibile l’interpretazione coranica liberandola dall’ipoteca dell’adesione al senso letterale del testo sacro.

D’altronde, il ricorso all’ijtihal può condurre a interpretazioni coraniche anche più rigorose e ristrette: come sembra avvenire appunto nel territorio dell’ISIS, nel quale molto ci si discosta dalla tradizione secondo al quale le comunità dette jimmi (cioè “soggette”, ma perciò stesso anche “protette”) in quanto ahl al-Kitab (“gente del Libro”, provvisto di una Rivelazione sancita da una Scrittura: quindi ebrei, cristiani, maanche zoroastriani e perfino buddhisti), non essendo kuffar, cioè pagani idolatri e politeisti, hanno diritto a mantenere il loro culto ancorché in una dimensione privata e debbono riconoscere la superiorità dell’islam e assoggettarsi a qualche limitazione civile nonché pagare due tipi di tasse, la jizya e il kharaj, che però sono piuttosto ragionevoli anche rispetto al zakat, l’”elemosina legale” ch’è uno degli arkan al-Islam, i “cinque pilastri della fede” cui ciascun musulmano è tenuto a sottostare. Nell’ISIS la jizya è divenuta un peso intollerabile, che rasenta la totale espropriazione dei beni: in alternativa a ciò – e a parte i casi frequenti, di altre forme di persecuzione – il cristiano non può che emigrare (perdendo comunque i suoi beni).

Quel che appare confermato, nell’analisi di Bizzarri – e chi segue i Minima Cardiniana sa che già dalle scorse settimane anch’io ero pervenuto ad analoghe conclusioni – è che a sostenere il “califfato” dell’ISIS sia fondamentalmente il “sunnismo atipico” dei wahabiti, dunque la monarchia saudita che da una parte persegue con forza la fitna (“guerra civile” all’interno dell’islam) antisciita, da una parte colpisce spregiudicamente anche altri sunniti, come i curdi. Le vittime del “califfo” e della sua “armata” non sono quindi solo i cristiani, gli sciiti, gli alawiti, gli yezidi.

E gli ebrei? E’ un fatto che, mentre Arabia saudita e perfino Qatar (in lotta fra loro) fingano di partecipare allo sforzo comune di ostacolare l’ISIS, esso non dice una parola contro Israele; e gli israeliani dal canto loro, senza dubbio preferirebbero continuar ad avere la Siria di Assad come loro antagonista nel Golan purtroppo che veder insediarsi definitivamente in quell’area la gente del “califfo” che potrebbe diventare una vicina molto più pericolosa; ma d’altra parte questa frammentazione del fronte arabo-musulmano non può che esserle utile.

E la Turchia di Erdoğan? Eccoci a un altro paradosso non troppo tale. Tra le fazioni che sostengono il leader turco non mancano i “jihadisti” più o meno moderati, che in fondo, lo ammettano o no, guardano all’ISIS con una quale simpatìa. Inoltre, va detto che arabo-sauditi, turchi, dente dell’ISIS, israeliani e (per quel po’ che è dato capire) “occidentali” in genere, danno l’impressione di avere sia pure per ragioni diverse nemici comuni: i siriani fedeli ad Assad, i curdi, l’Iran. Ed è forte il sospetto che sia proprio l’Iran l’obiettivo ultimo della drôle de guerre che a quel che pare la NATO sta sì e non conducendo, formalmente appoggiata dai sauditi, contro l’ISIS. Una volta stabilite basi vicine al confine orientale con l’Iran, quanto sarà facile che esse se ne vadano? L’ISIS appare provvidenziale non consentire una generale ridefinizione tattico-strategica delle forze che ormai dal 2003 occupano l’Iraq e che lo hanno distrutto senza consentire nemmeno un sicuro rilancio della sua compagine statuale. La destabilizzazione continua e cronicizzata del Vicino Oriente appare lo scopo ultimo dei governi occidentali, di quello turco, di quello arabo-saudita e di quello israeliano in implicita, contraddittoria, brutale alleanza. I musulmani reagiranno ancora più sconcertati e ancor più cadranno vittime della propaganda radicale e dell’utopìa terroristica: si ponga attenzione alle reazioni di Hezbollah e di Hamas, a loro volta interdette e confuse. Una forza già ideologicamente incline al radicalismo, se e quando cade nella confusione, viene sospinta di fatto verso soluzioni ispirate alla violenza terroristica e al terrorismo. Da un quarto di secolo, vale a dire dalla prima “Guerra del Golfo”, sappiamo che da tutto ciò non può nascere nulla di buono.

Consoliamoci allora con l’ironia della storia e magari della metastoria. Nell’area soggetta all’ISIS, le case cristiane vengono contrassegnate dal simbolo della lettera araba nun, iniziale del termine nassarah, “nazareno”, cioè, nel linguaggio coranico, coloro che nel Profeta Issa ben Mariam, Gesù di Nazareth (appunto: nassarah, “nazareno”) identificano Dio stesso: i cristiani. La lettera nun ha però nell’Islam un significato pregnante: costituita da un segno ricurvo dalle apici volte verso l’alto sormontato da un punto, rinvia nientemeno che al hilal, la falce di luna nascente il primo apparire della quale in cielo segna l’inzio del Ramadan. In altri termini la “mezzaluna”, considerata sia pur tra molti dubbi che riguardano al loro origine il simbolo della fede musulmana.

D’altronde, essere muslim significa semplicemente, in arabo, appartenere alla fede nel vero Dio e conformarsi al Suo volere (tale il senso profondo del termine Islam, che in arabo – lingua come l’ebraico consonantica – è analogo al termine Salam, pace). I sedicenti autentici musulmani, segnando così le case dei cristiani, ignorano di sancire in tal modo appunto che i fedeli del Cristo sono essi stessi dei veri fedeli, autenticamente soggetti alla volontà di Dio (mu-slim, mu-Islam) secondo la Rivelazione che Egli ha loro concesso. Quella lettera che essi appongono sui muri delle dimore cristiane in segno di vergogna acquista il valore obiettivo di un signum electionis, esattamente come il segno tracciato con il sangue dell’agnello sulle case degli ebrei nella notte del passaggio dell’angelo, immediatamente prima che essi si apprestassero a lasciare l’Egitto diretti verso la Terra Promessa.