Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Contro l’Iran ogni pretesto è buono

Contro l’Iran ogni pretesto è buono

di Alessio Caschera - 28/10/2014

Fonte: L'intellettuale dissidente


La tragica fine di Reyhaneh Jabbari, condannata a morte e giustiziata in Iran, riaccende le polemiche attorno a Tehran. Intanto, organizzazioni private per i diritti umani e governi occidentali, ricorrendo alla solita prassi dei doppi standard, strumentalizzano la morte e il dolore per mettere in difficoltà il governo iraniano, facendo crescere il sospetto che in realtà, la causa abolizionista non sia al punto numero uno della loro agenda.

  

Il caso di Reyhaneh Jabbari, la ragazza iraniana condannata a morte e giustiziata per omicidio lo scorso sabato, ha sollevato una valanga di proteste, portando addirittura il premier italiano Renzi, a dedicare un minuto di silenzio alla sua memoria durante la convention politica della Leopolda di Firenze. Negli ultimi giorni, la stampa e il mondo politico internazionale, si erano mobilitati per tentare di convincere il governo di Tehran a concedere la grazia alla ventiseienne. Ora, sul fatto che la pena di morte sia il metodo più brutale di punizione non ci sono dubbi, per non parlare poi dell’impiccagione, ma la strumentalizzazione di questa vicenda e la semplificazione con cui è stata trattata sono altrettanto da condannare. Come spesso accade quando si parla di Iran, o di mondo islamico più in generale, l’ignoranza dei fatti e la semplificazione portano, non solo lo spettatore passivo, ma anche il più “esperto” tra gli analisti, a non attenersi alla realtà dei fatti, a giudicare con superficialità e a confezionare giudizi tagliati con il coltello. Di questa pagina della storia giudiziaria della Repubblica Islamica si è detto di tutto e di più, spesso sono state presentate più di due versioni diverse della vicenda, provocando una certa confusione anche tra gli addetti ai lavori. La tragedia ha inizio ben sette anni fa, quando viene trovato morto il dott. Morteza Sarbandi, ucciso a coltellate nel suo studio; dell’omicidio viene accusata Reyhaneh Jabbari che proprio quel giorno aveva un appuntamento di lavoro con la vittima. La stessa si dichiarerà in seguito colpevole, affermando, però, di aver agito solo per legittima difesa al tentativo di stupro portato in essere da Morteza Sarbandi (1).

A confrontarsi in questi lunghi anni di processi, sono state due opposte posizioni: quella dell’accusa che sosteneva la tesi dell’omicidio premeditato, e quella della difesa che invece parlava di legittima difesa, in quanto la ragazza non avrebbe fatto altro che difendersi da un tentativo di stupro. La corte, dimostrò, fin dagli inizi, di non credere alla versione della ragazza sostenendo nei vari gradi di giudizio la tesi dell’omicidio premeditato. Da subito, più precisamente dal 2009, anno della condanna a morte in primo grado, le principali organizzazioni per i diritti umani si sono mobilitate per denunciare il caso davanti alla comunità internazionale. Le varie associazioni, con in testa Amnesty International, hanno sempre sostenuto che il processo fosse viziato e che le stesse indagini fossero frutto di un qualche tipo di pregiudizio sessista. Addirittura, arrivarono ad affermare che la ragazza non avesse avuto un regolare processo e che le fosse stato imposto il cambio dell’avvocato per sostituirlo con uno meno abile e prestigioso del precedente, o, secondo altre versioni, il diritto ad un avvocato le sarebbe stato del tutto negato (2). Argomentazioni pretestuose che non trovano alcun tipo di ancoraggio nella realtà dei fatti. Le uniche cose a pesare sulla decisione dei giudici iraniani sono state le prove: in primis le stesse parole della ragazza, che ha ammesso di aver accoltellato alle spalle il suo possibile stupratore, un sms inviato ad un amico nel quale Reyhaneh scrive di aver intenzione di assassinare Morteza, e una serie di fatti circostanziali, come la porta dello studio del dottore non chiusa a chiave ( se Sarbandi voleva effettivamente violentare la ragazza, perché lasciare aperta la porta rischiando di essere scoperto?) e la presenza di un coltello nella borsa della ragazza (perché mai girare con un coltello in borsa se non si hanno cattive intenzioni?) (4) . Il fatto poi che la vittima fosse un ex membro del Ministero delle Informazioni ha portato i maligni a sospettare di un possibile collegamento con ambienti dei servizi segreti iraniani, facendo il gioco dei vari umanitaristi de noantri sempre pronti a gridare al complotto, in realtà il semplice fatto di aver lavorato al ministero non significa che Morteza Sarbandi fosse un ex agente segreto, e poi, se anche fosse?

Il caso è quindi abbastanza complesso, tanto che ci sono voluti anni di processi e accese battaglie in tribunale per decretare la sentenza, una sentenza che lascia sgomenti, non tanto per la decisione quanto per la scelta della punizione, ma che se si analizzano i fatti del tutto in linea con il diritto iraniano. La morte di questa ragazza impone alcune importanti riflessioni: una sicuramente sulla pena di morte, strumento brutale, senza logica che però non è utilizzato solo nella Repubblica Islamica, ma anche in molti paesi considerati delle democrazie liberali e anche in altri che le varie agenzie private o i governi occidentali si guardano bene dallo scomodare. L’aspetto più triste di tutta questa vicenda, è, oltre alla tragica fine della reo confessa Reyhaneh, la sconcertante semplificazione e la strumentalizzazione che ha prodotto. La ragazza è ora diventata un simbolo, una martire per le femministe di mezzo mondo, uccisa in quanto donna da un governo misogino, razzista, fascista, oscurantista, e chi più ne ha più ne metta (3). Niente di più falso e sbagliato, Reyhaneh non è stata vittima di un episodio di discriminazione, ha subito la stessa sorte che tocca a tutti gli iraniani, maschi o femmine che essi siano, accusati di omicidio premeditato, negarlo significherebbe negare la tragedia di tutte quelle persone che prima di lei sono state giustiziate senza essere oggetto dell’ennesima campagna per i diritti umani di Amnesty e dei governi occidentali. Cosa direbbero le “Donne di Fatto” (dal nome del blog de Il Fatto Quotidiano), se sapessero che, secondo la ricostruzione di Reyhaneh, la ragazza si sarebbe rifutata di togliere il velo in presenza di Morteza Sarbandi? Ne terrebbero lo stesso viva la memoria o la considererebbero una complice del sistema maschilista, neofascista islamico? Purtroppo l’Iran non è il solo paese a ricorrere alla pena capitale, come qui, in tanti altri paesi la massima pena è una prassi piuttosto diffusa.

Chi ha a cuore la causa abolizionista dovrebbe lottare ogni giorno per la sua cancellazione definitiva e non farlo a targhe alterne, magari quando fa comodo agli sponsorizzatori di turno e tacendo invece quando questo accade in paesi amici. In questo caso, come in molti altri, basta ricordare la vicenda di Sakineh, l’occidente ha usato la pena di morte come scusa per demonizzare il governo di Tehran, ora più che mai attivo nella lotta al terrorismo dello Stato Islamico e prossimo a firmare gli storici accordi sul nucleare, e forse non c’è forse cosa più vergognosa che usare il dolore delle persone per fini politici anche se, questa, è ormai la prassi. In un periodo come questo, dove le decapitazioni dei miliziani dell’ISIS stanno facendo rabbrividire mezzo mondo, quante mobilitazioni ci sono state contro il governo saudita che utilizza il taglio della testa come normale mezzo per applicare la pena capitale? Quanti giornali, radio o telegiornali hanno mai detto una parola sulla tragica fine che aspetta l’Imam al-Nimr, leader dell’opposizione sciita, oppure sulle dieci donne accusate di stregoneria? Per non parlare di un’altra donna, la marocchina Waafa Charaf, militante comunista condannata a due anni di reclusione senza condizionale per aver partecipato ad una manifestazione di solidarietà con con gli operai della multinazionale statunitense Greif (numero uno mondiale per l’imballaggio industriale), licenziati per avere creato una sezione sindacale (5). In questa, ed altre migliaia di situazioni analoghe, le più disparate associazioni che dicono di battersi per i diritti umani non hanno battuto ciglio, a riprova che i doppi standard non vanno di moda solo in politica.

(1) http://www.bbc.com/news/world-middle-east-29769468

(2) http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/10/25/iran-reyhaneh-muore-nellindifferenza-della-comunita-internazionale/1170656/

(3) http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/10/26/iran-cosa-muore-con-reyhaneh/1171850/

(4) http://alirezajalali1.blogspot.it/2014/10/il-caso-di-reihaneh-jabbari.html

(5) http://www.ossin.org/marocco/la-giustizia-marocchina-raddoppia-la-pena-per-l-attivista-wafaa-charaf.html