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Liberare i capitali: la nefasta miopia europea

di Benedetta Scotti - 19/11/2014

Fonte: L'intellettuale dissidente

eurotower


Proliferazione dei mercati finanziari, accentramento delle risorse produttive, livellamento dei particolarismi nazionali: miopie e conseguenze dell’Unione dei Mercati dei Capitali proposta da Bruxelles.

  

Bruxelles lancia un nuovo piano d’azione anti-crisi: dopo l’EBU (European Banking Union), ecco in arrivo la CMU (Capital Markets Union). Se la prima intende risolvere la frammentazione della vigilanza bancaria a livello europeo (accentrando tale compito nelle mani della BCE), la seconda si propone di compiere un ulteriore decisivo passo verso la creazione di uno spazio finanziario compiutamente unico, libero dai particolarismi nazionali che ancora resistono all’imperterrita globalizzazione dei mercati in atto da trent’anni a questa parte. L’obiettivo è la creazione di un mercato dei capitali europeo liquido e fluido che possa favorie la transizione dall’attuale sistema bancocentrico, storica peculiarità dell’economia europea, ad un sistema mercato-centrico, tipico, invece, della realtà economica nordamericana. Se nel Vecchio Continente, infatti, il 70-80% del credito alle imprese deriva dagli istituti bancari, negli Stati Uniti la stragrande maggioranza dei finanziamenti passa direttamente per il mercato, tramite l’emissione di obbligazioni o azioni. Questi due modelli sono la conseguenza di due realtà produttive estremamente differenti: mentre il mercato-centrismo americano riflette la diffusione di larghe corporations, la cui presenza sui mercati finanziari è facilitata e resa possibile dalle ingenti dimensioni aziendali, il banco-centrismo europeo riflette un tessuto produttivo caratterizzato da un elevato numero di piccole-medie imprese. Soltanto le banche, con la loro penetrazione sul territorio, sono in grado di giudicare la solvibilità e la solidità di una PMI, sfida di per sé insostenibile, invece, per i singoli investitori.

Come è noto, la combinazione della crisi e dei problemi strutturali dell’eurozona ha inceppato i meccanismi creditizi nel Vecchio Continente, con il risultato che il banco-centrismo figura ora tra gli imputati accusati di impedire la ripresa economica mentre il mercato-centrismo statunitense viene decantato e indicato come modello da seguire. La parola d’ordine è, ovviamente, deregulation al fine di favorire canali non-bancari quali pension funds e mutual funds (due tipologie di fondi di investimento) ma anche hedge-funds (fondi speculativi), e pratiche quali cartolarizzazione e il peer-to-peer lending (che facilitano il credito tra privati al di fuori delle istituzioni tradizionali). Se è vero che tali strumenti renderebbero il mercato dei capitali più liquido, incentivando così gli investimenti, è ancor più vero che una simile deregulation finanziaria dovrebbe essere (paradossalmente) accompagnata da una strettissima regulation in termini di vigilanza e trasparenza. E tanto la crisi del 2008 quanto i continui scandali finanziari evidenziano come sia difficile implementare una sorveglianza efficace, a discapito della stabilità dell’intero sistema economico.

L’unione dei mercati dei capitali, oltre ad implicare una deregolamentazione necessitante una strettissima sorveglianza per evitare delle degenerazioni, presuppone anche una graduale trasformazione del tessuto produttivo europeo, muovendo dal modello americano delle grandi corporations. Intuitivamente, le piccole aziende attive sul territororio, inefficienti e non competitive per definizione, hanno, infatti, poco a che vedere con realtà come quelle dei grandi funds che gestiscono miliardi di dollari operanti da New York a Singapore. La deregulation ha, dunque, un duplice scopo: favorire la proliferazione dei mercati finanziari e, di conseguenza, l’accumulo di capitali che, a loro volta, promuovono l’accentramento delle risorse produttive e la nascita di corporations efficienti e competitive su scala globale.
Nel contesto europeo, tuttavia, il cuore della questione non risiede tanto nel legittimo dibattito relativo al liberismo finanziario, quanto nella miopia di chi presume che alla base dell’unità europea vi sia una sempre maggiore integrazione economica e finanziaria. Come insegna una massima di ratzingeriana memoria, l’Europa è, prima di tutto, un concetto storico e culturale, una comunità di popoli , distinti nelle proprie peculiarità, accumunati dalle radici ellenistico-cristiane. Un’unione, fondata de facto sulla base di meri interessi economici, che vuole risolvere la propria crisi strutturale tramite stolti stratagemmi finanziari che livellano i particolarismi nazionali è una nefasta illusione. “L’Europa si farà per mezzo di una moneta unica o non si farà” affermava l’economista francese Jacques Rueff. Considerato l’attuale status quo dell’Eurozona e le precendenti considerazioni sulla matrice dell’unità europea, si potrebbe aggiungere che a far l’Europa non saranno né l’unione bancaria né l’unione dei mercati dei capitali.