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I Kamikaze, eroi o suicidi?

di Francesco Lamendola - 13/01/2015

Fonte: Arianna editrice


 

 
 

Il 27 ottobre 1944, dieci giorni dopo l‘inizio degli sbarchi americani per la riconquista delle Filippine, fu una data storica per la Marina imperiale giapponese: in quel giorno, infatti, ebbe luogo la prima azione dei Kamikaze, i piloti suicidi che, con un carico di bombe e con la benzina per il solo viaggio di andata, si gettavano in picchiata contro il ponte delle portaerei statunitensi, allo scopo di danneggiarle gravemente o affondarle, possibilmente con tutti i loro aerei ancora schierati: quegli stessi velivoli che, di lì a qualche ora o qualche giorno, si sarebbero alzati in volo in ondate successive, per andare a sganciare le loro micidiali bombe incendiarie non solo sulle fabbriche di armi e munizioni, ma anche sopra Tokyo e le altre città nipponiche, ormai popolate in gran parte da donne, vecchi e bambini. E quest’ultimo aspetto, di natura essenzialmente difensiva, lo si deve tenere ben presente, se si vuol valutare in maniera obiettiva la decisione della Marina giapponese di ricorrere alla carta, in apparenza estrema e disperata, degli attacchi suicidi.

Non staremo qui a farne la storia: esistono molti libri sull’argomento, sì che è ormai possibile ricostruire in maniera abbastanza esauriente la genesi, lo sviluppo e la fine della strategia dei Kamikaze, che, per un momento, sembrò sul punto di mettere seriamente in crisi l’apparato offensivo americano, ma che da ultimo non si rivelò risolutiva, vuoi perché intrapresa troppo tardi, quando ormai le sorti della guerra erano irrimediabilmente segnate, vuoi perché, in ogni caso, il ritmo di fabbricazione delle navi e degli arerei statunitensi era tale che in nessun caso avrebbe potuto venir messo in difficoltà dal numero delle navi e degli aerei distrutti negli attacchi dei Kamikaze. Una situazione simile a quella che si venne a determinare, a partire dal marzo del 1943, nella battaglia dell’Atlantico, quando il ritmo delle costruzioni di naviglio alleato prese decisamente e irreversibilmente il sopravvento sulla quantità di quello affondato dai sottomarini tedeschi, la quale, proprio a quell’epoca, diminuì bruscamente, per le perfezionate tecniche di difesa e contrattacco dei cacciatorpediniere dotati di radar e degli aerei antisommergibile.

Gli americani, e in genere gli occidentali, rimasero sbalorditi e sgomenti davanti alla tecnica di attacco dei Kamikaze: essa era così lontana, così aliena dalla loro mentalità, da suscitare non solo un brivido di terrore, ma anche una sorta di rifiuto morale e persino di disgusto, come qualcosa che andava contro tutte le regole comunemente stabilite della guerra; uno stupore e un disgusto, forse, non del tutto legittimi, visto come gli statunitensi avevano fatto ricorso ai lanciafiamme per bruciare vivi, uno per uno, i soldati giapponesi che si erano rifugiati nelle caverne, durante la campagna della Nuova Guinea: e vista la fredda determinazione con cui venne concepita, realizzata e sganciata su due città giapponesi, nell’agosto 1945, l’arma atomica, mai impiegata da alcuno e tale, per i suoi effetti immediati e a medio e lungo termine sulla popolazione inerme, da rovesciare tutti i parametri di valutazione morale universalmente accettati, pur nel contesto bellico. Il fatto, comunque, è quello: e gli attacchi dei piloti suicidi divennero, nelle mani della propaganda statunitense, una ulteriore dimostrazione del modo infido, sleale e barbarico  con cui le Forze Armate giapponesi stavano conducendo la guerra del Pacifico.

Fu sollevata la questione se quei piloti del “Vento divino”, i quali, dopo una brevissima e sobria cerimonia, e indossando una fascia bianca sulla fronte, salivano a bordo dei propri velivoli- talvolta poco più che degli apparecchi giocattolo, ma imbottiti di esplosivo - con la ferma volontà di concludere la propria vita nell’atto di colpire e fermare il nemico che si accingeva a bombardare e, forse, a invadere il sacro suolo della patria e a minacciare l’imperatore di origine divina, fossero dei fanatici suicidi, o cos’altro; spesso si trattava di piloti giovanissimi e inesperti, che avevano seguito un corso di volo di qualche ora soltanto (la benzina era ormai scarsissima), appena sufficiente perché potessero condurre la loro prima e ultima missione di guerra.

Ecco le riflessioni svolte in proposito da Saburo Sakai, asso dell’aviazione giapponese ed unico sopravvissuto di tanti valorosi compagni (da: S. Sakai, «Samurai!»; titolo originale: «Samurai»; traduzione dall’inglese di Corrado Ricci, Milano, Longanesi & C., 1972, pp. 362-4):

 

«… Sapevamo che i nostri piloti erano votati alla morte, quando decollavano. Partivano isolati, uno dopo l’altro, qualche volta si trattava solo di una coppia, ma più spesso erano in sei, dieci, undici; rullavano sulla pista, si staccavano da terra per l’ultima volta e correvano a lanciarsi contro gli obiettivi. Molti di essi non riuscivano però a raggiungerlo perché venivano abbattuti, prima di arrivarvi, dagli intercettori nemico o dalla terribile contraerea delle navi.

C’era tuttavia sempre qualcuno che riusciva a superare gli sbarramenti e a lanciarsi nella picchiata fatale, come uno spirito vendicatore che sbucasse improvviso dal cielo; talvolta questi Kamikazi avevano le ali rotte per i colpi ricevuti o erano già avvolti dalle fiamme, ma riuscivano a dominare fino all’ultimo il velivolo  su cui volavano, per portarlo fin sopra la meta prefissa.

I Kamikazi ci fornirono una nuova forza di attacco. La loro efficacia dal numero delle navi nemiche, un tempo inviolabili per i nostri aeroplani perché difese da un a potente cortina di fuoco, che invece adesso venivano gravemente minacciate  o anche distrutte dagli incendi della benzina  o dall’esplosione delle bombe. I Kamikazi spazzavano le portaerei da prua a poppa e provocavano più affondamenti di quanti non ne avessero procurati tutte le armi che avevamo fino allora impiegate. Sotto il loro impatto incrociatori e cacciatorpediniere riportavano gravi danni e le perdite avversarie erano decisamente alte.

Il nemico riteneva che i nostri uomini non fossero che suicidi, . è una cosa che non potrà mai essere ben compresa dagli americani o dalla mentalità occidentale in genere, ma i nostri piloti non pensavano che le loro vite fossero gettate; la prova migliore è che le offerte per queste missioni senza ritorno erano in continuo aumento.

Il loro non era un suicidio! Quegli uomini, vecchi o giovani che fossero,  non morivano invano; ogni velivolo che riuscisse a piombare su una nave nemica poteva allontanare un brutto colpo dalla nostra patria.  Ogni bomba portata da un Kamikazi contro una portaerei  rappresentava la morte per molti nemici e la distruzione di un certo numero di velivoli che non avrebbero così mai più potuto attaccare o bombardare il nostro suolo.

Quegli uomini avevano una fede: credevano nella patria. L’aiutarla, arrecando un colpo al nemico a prezzo delle loro stesse vite, era considerato vantaggioso; la posta era quella della vita di un uomo contro quella, forse, di centinaia o anche migliaia di altre. I Giappone non poteva più continuare a basare la sua forza sui sistemi di armi convenzionali perché queste non erano più in grado di fornirci quella potenza della quale avevamo bisogno per continuare la guerra. Ogni uomo, ognuno di ”quegli” uomini che sacrificavano la propria spoglia mortale, non moriva, ma passava a coloro che rimanevano la propria fiaccola di vita.

Ancora una volta ci trovammo però a fare uso di mezzi troppo deboli e impiegati per di più troppo in ritardo: nemmeno la terribile arma dei Kamikazi poteva più arrestare la poderosa macchina bellica americana.  Gli avversari avevano troppe forze, si erano portati ormai troppo avanti ed erano eccessivamente preponderanti nel numero; avevamo di fronte troppe navi, troppi aeroplani, troppi cannoni e troppi uomini.

Forse i nostri piloti se ne rendevano conto, quando si levavano in volo per la loro ultima missione; non è possibile ritenere che la maggior parte di coloro che partivano per gli attacchi suicidi non sapesse erro esattamente quanto fosse senza speranza la posizione del Giappone nella guerra. Ma essi non indietreggiarono e non ebbero mai alcuna esitazione.  Portarono in volo i loro velivoli carichi di bombe e morirono volontariamente, con quelli, per la loro patria.»

 

Sakai ha ragione: né un americano, né, in genere, un occidentale, possono capire lo spirito che animava i Kamikaze, per il fatto che, nel codice etico e in quello militare degli europei e degli statunitensi, semplicemente non è contemplata una cosa del genere. Né l’amor di patria, né lo spirito di sacrificio dell’esercito contemplano, in Occidente, la scelta di andare incontro a una morte certa, oltretutto sapendo che si tratta di un sacrificio, in ultima analisi, inutile, perché le sorti della guerra sono già segnate. Il soldato europeo e quello statunitense affrontano i rischi della guerra sapendo che si tratta, appunto, di rischi; che esiste una possibilità, per quanto remota, di tornare a casa e di riabbracciare i propri cari. Solo in circostanze particolarissime può verificarsi la prospettiva della morte assolutamente certa, comunque sempre ad opera di un nemico attivo, non sotto la forma di un vero e proprio attacco suicida.

Per comprendere il vero spirito dei Kamikaze, comunque, bisogna tener conto del contesto religioso in cui si colloca e da cui scaturisce: nella religione scintoista è fortissima l’idea del sacrificio individuale a vantaggio del gruppo o della nazione; ed è uno spirito che si manifesta anche in tempo di pace, ad esempio nella dedizione assoluta, incondizionata, dell’operaio o dell’impiegato nei confronti della propria azienda, per non parlare del dirigente, il quale può arrivare a fare “harakiri” in caso di fallimento – come le cronache, anche recenti, hanno mostrato. Lo stesso spirito si trova all’interno di una squadra sportiva: l’importante non è l’affermazione del singolo; al contrario, il singolo deve essere pronto a immolarsi in silenzio, purché la squadra vinca: solo quello è importante, perché nella squadra si realizza la vittoria di tutti e  si afferma l’anima collettiva. Che lo spirito di sacrificio possa spingersi fino alla rinuncia alla propria vita, è implicito nelle premesse; e la sua concezione profondamente spirituale della vita, influenzata anche dal buddismo, porta il Giapponese a non concepire la morte individuale come la catastrofe definitiva e irreparabile, ma, al contrario, almeno in determinate circostanze, come la più alta affermazione che un uomo (o una donna) possa fare di sé, rientrando a far parte dell’anima universale. È una concezione che, in teoria, gli Europei, in quanto figli della civiltà cristiana, dovrebbero capire benissimo, e di fatto la capivano un tempo, perché era molto simile alla loro: se oggi non sono più in grado di comprenderla, ciò testimonia in maniera eloquente quanto essi si siano allontanati dalle proprie radici spirituali e quanto l’individualismo, il materialismo e l’edonismo siano penetrati a fondo nel loro modo di sentire e di pensare.

Semplificando al massimo i termini della questione, si può dire che l’europeo (e l’americano) ha paura di morire, il giapponese no: di fatto, se pure la Gran Bretagna o gli Stati Uniti si fossero trovati nelle stesse, disperate condizioni del Giappone nell’ultima fase della seconda guerra mondiale, nessun ufficiale avrebbe osato domandare ai giovani piloti di immolarsi in una serie sistematica di azioni suicide; e, se pure lo avesse fatto, ben difficilmente si sarebbe presentato più di qualche sparuto gruppetto di volontari. Per andare incontro alla morte con assoluta determinazione e serenità d’animo, come vi andavano i piloti del Sol Levante, bisogna disprezzare la paura della morte, cosa che la mentalità occidentale moderna non è in grado di fare, tranne alcune rare eccezioni. Alle spalle dei piloti Kamikaze vi era un Paese compatto, stretto intorno alla sacra figura dell’imperatore e convinto – questo è l’aspetto più ostico della cosa, almeno per uno straniero – della superiorità giapponese, in senso razziale e spirituale, rispetto a tutti gli altri popoli, e dunque anche rispetto ai bianchi. Ogni Kamikaze veniva da una famiglia che lo aveva cresciuto nel culto degli antenati e della patria e che, adesso, vedeva in lui un giovane eroe, il cui gesto sarebbe stato ricordato per sempre con gratitudine e ammirazione; ma un eroe, per così dire, quotidiano e dimesso, alieno da qualsiasi forma di esibizionismo: un vero scintoista, sobrio e pervaso di spirito stoico, distaccato dal mondo quanto basta per non avere rimpianti di alcun genere. Un tipo umano cosiffatto non si trova, in Occidente; o, se lo si trova, esso costituisce piuttosto l’eccezione che la regola. I soldati americani, in Vietnam, sopportavano i rischi e i disagi della guerra assumendo sovente sostanze stupefacenti: non trovavano in se stessi una motivazione adeguata, né potevano attingere a delle personali riserve di energia spirituale; eppure avevano la certezza statistica che gran parte di loro sarebbe riuscita a sopravvivere e a fare ritorno a casa.

Ci si potrebbe chiedere se i Kamikaze giapponesi siano accostabili ai terroristi suicidi iracheni, afghani, palestinesi dei nostri giorni, nei quali è pure fortissima, e anzi prevalente, l’ispirazione religiosa. È difficile dirlo: alcuni tratti psicologici e morali sono simili, altri no. I Kamikaze disdegnavano obiettivi civili, si concentravano esclusivamente sulle portaerei; né si immolavano per la religione, ma per la patria: ammesso che le due cose, per loro, fossero chiaramente separabili…