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Libia. Anno Zero

di Andrea Virga - 24/02/2015

Fonte: millennivm

Oggi che si parla di nuovo di Libia e addirittura si ventila un ritorno delle nostre forze armate sulla “Quarta Sponda”, è bene fare un attimo mente locale di come si sia arrivati a questo punto, e di quale sia la situazione politica attuale. Prima di tutto, però, è bene premettere un excursus storico, con una precisazione importante: la Libia è esistita per meno di 80 anni, grazie essenzialmente a due uomini, tra loro molto differenti per origini e mentalità: il Maresciallo dell’Aria Italo Balbo e il Colonnello Mu’ammar al-Qaddafi.

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La Libia coloniale
Il primo fu nominato Governatore della Libia nel 1934, in occasione dell’unificazione delle colonie italiane di Cirenaica, Tripolitania e Fezzan, successiva alla spietata repressione dei movimenti di resistenza indigeni, operata dal generale Rodolfo Graziani. La promozione era in realtà un allontanamento per il carismatico gerarca, la cui personalità cominciava ad adombrare quella di Mussolini. Il trasvolatore oceanico Balbo, già repubblicano e massone, con simpatie per gli Stati Uniti, ne approfittò per implementare il suo personale approccio al fascismo, modernista e tecnocratico, ostile sia al bolscevismo che al nazionalsocialismo. Da lui fu intrapresa la costruzione di grandi opere pubbliche, come la Via Balbia, e numerosi coloni italiani furono invitati a stabilirvisi.
Al tempo stesso, però, fu avviata un’opera d’integrazione e nazionalizzazione della popolazione indigena. Decine di villaggi, completi di moschea, scuola e Casa del Fascio, furono costruiti per accogliere i nuovi “Italiani di lingua araba”. Fu istituita inoltre la Gioventù Araba del Littorio, per le nuove leve. Tra il 1939 e il 1940, gli abitanti delle province costiere (dove si concentrava il 90% della popolazione) ottennero la cittadinanza metropolitana, venendo equiparati pressoché in tutto agli Italiani. Soldati libici, parte dei quali erano stati veterani della campagna d’Etiopia, vista la loro competenza nel combattimento in zone desertiche, entrarono a far parte dei reparti regolari del Regio Esercito. Alla morte di Balbo (28 giugno 1940), era in corso d’addestramento addirittura un reparto di paracadutisti libici.
Ora, non è il caso di tessere lodi sperticate e nostalgiche del colonialismo italiano, il quale si impose con la forza alle popolazioni arabe e berbere, in vent’anni di lotta, segnati dall’uso di armi chimiche, deportazioni, campi di internamento e altre atrocità. Tuttavia, è indubbio che le basi stesse dello Stato libico, in precedenza inesistente persino come concetto, siano state poste proprio da questo “dispotismo illuminato” balbiano, che in cinque anni fece quello che non era stato fatto in centotrent’anni di Algérie Française. A controprova di questa tesi, la decolonizzazione del Paese, diversamente da altri casi, avvenne in maniera incruenta, e molti Italiani continuarono a vivere nel Paese. Del resto, in occasione delle trattative di pace postbelliche, persino il PCI avanzò qualche timida proposta a sostegno di una continuata presenza italiana nel Paese.
La Giamahiria di Mu’ammar al-Gaddafi
Il secondo era appena nato all’apice della dominazione italiana ma divenne protagonista del movimento rivoluzionario nazionalista e socialista che portò la Libia ad essere veramente una nazione. Nel secondo dopoguerra, il Paese era governato da una monarchia espressione dei Senussi della Cirenaica. Questo gruppo sociale e religioso si era distinto particolarmente nella guerriglia contro gli Italiani, grazie anche al sostegno britannico – ragion per cui il Maresciallo Graziani aveva costruito una barriera al confine con l’Egitto. Ora, sempre con il benestare di Londra, subentrata come potenza coloniale indiretta, re Idris era a capo del Paese, e presiedeva allo sfruttamento delle risorse petrolifere da parte delle compagnie straniere.
Solo nel 1969, ad imitazione degli altri movimenti socialisti arabi nella regione, un gruppo di giovani ufficiali aveva compiuto un colpo di stato, instaurando un nuovo governo. Fu così che Qaddafi assunse il potere, assicurandosi il consenso delle principali tribù, e instaurò il suo particolare “socialismo islamico”, a partire dall’espulsione dei coloni italiani e dalla nazionalizzazione degli idrocarburi. In oltre quarant’anni, la Giamahiria libica, teorizzata nel “Libretto Verde”, non fu certo esente da difetti, a partire dall’eccentricità personale e politica della sua guida.
Tuttavia, dati alla mano, nel 2011, era l’unico Paese africano con uno sviluppo umano (sanità, istruzione, reddito) da Secondo Mondo. Le ricchezze del petrolio erano divise tra la classe dirigente e la popolazione, con un’assistenza sociale capillare e garantita, mentre circa un milione d’immigrati provenienti dall’Africa nera lavoravano in Libia, piuttosto che partire per l’Europa. Grandi opere idrauliche, attraverso il deserto, consentivano di risolvere il problema dell’approvvigionamento idrico. Soprattutto, erano stati instaurati ottimi rapporti politici e commerciali con l’Italia, culminati con le nostre scuse per i crimini commessi in epoca coloniale e la stipula di un trattato d’amicizia, che corrispondeva ad un trattamento di netto favore per le aziende italiane, da parte del governo libico.
La distruzione della Libia
Tutto ciò venne meno in occasione del grande rimescolamento politico denominato “Primavere arabe”, nel corso del quale una serie di manifestazioni di massa, rivolte popolari e insurrezioni rovesciarono gli ultimi Stati arabi, che mantenevano un regime di tipo nazionalista e laico. Questo rivolgimento ebbe in parte radici spontanee, specie in Egitto e Tunisia, ma fu promosso e appoggiato dall’Occidente, nonché da governi arabi islamici come quello qatariota, in termini mediatici, diplomatici e militari. Tuttavia, poiché gli insorti non riuscivano a venire a capo della resistenza di quei governi e quei popoli che si stavano difendendo con le armi, aumentò la pressione dall’interno, con nuove più feroci milizie di islamisti, e dall’esterno, con l’intervento diretto di potenze occidentali. Così per la Siria, che tutt’ora resiste, grazie anche al veto russo presso le Nazioni Uniti; così per la Libia.
In quell’ora cruciale, l’anno 2011, sono emersi i limiti del governo di Qaddafi e la fragilità della Libia come costruzione statuale. È stato tuttavia decisivo il tradimento perpetrato dall’Italia che, infrangendo il trattato d’amicizia italo-libico, partecipò direttamente all’intervento militare guidato da Francia e Regno Unito, a danno persino dei propri stessi interessi commerciali! La defezione di alcune tribù e la disintegrazione delle forze armate sotto le bombe alleate hanno fatto il resto. Nonostante l’eroica resistenza dei lealisti, come a Bani Walid, la Giamahiria è implosa nel ferro e nel fuoco, nel sangue e nel caos. Abbiamo visto lo sconcio di Piazzale Loreto rivivere nelle immagini del Colonnello preso e linciato a Misurata. Tuttavia, come quest’ultimo aveva lucidamente previsto, la Libia non poteva essere ricostruita, una volta che ogni struttura nazionale era stata demolita.
Il Paese è oggi in mano ad un coacervo di gruppi che, nel migliore dei casi, difendono i propri interessi tribali. A migliaia, i profughi si sono riversati oltremare, verso l’Italia e l’Europa. I Senussi della Cirenaica, la cui bandiera tricolore è stata sventolata dagli insorti, non sono riusciti a riprendere le redini perse nel 1969. Gli stessi imperialisti stranieri non riescono a garantire la propria sicurezza, come mostra il caso del console statunitense assassinato a Bengasi. E in questo caos, sventola la bandiera nera dell’internazionale jihadista, sotto la nuova forma dello Stato Islamico, che dietro al feticcio dei versetti coranici, unisce il nichilismo occidentale e la barbarie pre-maomettana. Come in Siria, gli stessi cani rabbiosi nutriti e sguinzagliati dall’Impero e dai suoi manutengoli, ora mordono la mano che li aveva slegati.
La follia interventista
Adesso, a fronte di questa situazione, perfettamente evitabile, si comincia a ventilare un ulteriore intervento militare, agitando la minaccia islamista come uno spauracchio. Esattamente come è avvenuto in Siria, dove ora, con il pretesto di combattere l’ISIS, gli Stati Uniti possono finalmente operare militarmente nel Paese, a tutto danno del legittimo governo di Bashar al-Assad, che combatte strenuamente contro i tagliagole al soldo dell’imperialismo straniero, da ormai quattro anni. Esattamente come è avvenuto in Mali, con l’intervento francese a fianco del governo africano. Va da sé che un intervento meramente aereo non servirà a nulla, se non a seminare ulteriore morte e distruzione per la popolazione civile. E d’altra parte, i soldati occidentali costano troppo, in termini di denaro e opinione pubblica per essere rischiati sul terreno. Si pensa quindi ai negretti dell’Unione Africana, da impiegare come carne da cannone. D’altra parte, l’Egitto del generale al-Sisi non disdegna di avanzare mire espansioniste sulla Cirenaica, sempre con il pretesto della lotta al terrorismo.
In questo frangente tragicomico, se non fosse per le sofferenze della popolazione libica, i “nazionalisti” nostrani hanno perso un’ulteriore occasione per stare zitti. Da una parte, in ambienti leghisti, si fa sfoggio della solita pedestre ignoranza islamofoba, che vorrebbe “gettare la bomba atomica sui beduini”. Più che del regionalismo mitteleuropeo di Miglio sono esponenti del provincialismo dell’Italietta pizza e mandolino. Dall’altra, molti cammarati, non paghi della figuretta fatta a proposito della “terza via ucraina”, tornano a sfoggiare nostalgie vetero-colonialiste. In passato, non erano mancati attacchi al Colonnello, colpevole di aver espulso gli Italiani e di elogiare la resistenza di Omar al-Mukhtar contro l’Italia fascista. Oggi si emozionano al pensiero di un intervento italiano in Libia, e sognano l’invio di “volontari” (come se i nostri militari in missione fossero coscritti inviati a forza!). È il “fascismo del III millennio” con lo sciovinismo del 1915: roba che già durante il Ventennio andava stretta a molti intellettuali in camicia nera.
Oggettivamente, nelle attuali condizioni, si tratterebbe di un intervento militare condotto sotto l’egida della NATO o della Unione Europea, entrambe istituzioni imperialiste e anti-italiane. Ora, è ancora comprensibile, come male minore in mancanza di alternative realistiche, immaginare un ruolo italiano preminente all’interno di una missione di questo tipo, ma abbracciare la proposta entusiasticamente, magari come misura per riaffermare il patriottismo italiano, è assurdo. Cent’anni fa, il quadro era simile, ma l’Italia era un Paese sovrano, e si trattava di proseguire la missione risorgimentale, liberando le popolazioni italiane ancora soggette al dominio asburgico, con relative discriminazioni etniche. Oggi, andremmo, nel migliore dei casi, a fare la guardia ai bidoni di benzina dell’ENI. Eppure, la lezione dell’Afghanistan, dell’Iraq, della Siria dovrebbe essere ben chiara.
Solidarietà inter-nazionalista: l’unica soluzione
Infine, c’è un punto fondamentale da tenere bene a mente: anche ammesso che l’Italia fosse un Paese sovrano e che agisse nella difesa dei propri interessi nazionali, questo non legittimerebbe di per sé l’intervento. È questo che deve essere compreso bene da chiunque oggi voglia essere davvero nazionalista e patriota: non si può oggi insistere a difendere esplicitamente o implicitamente l’imperialismo o il colonialismo. Chi rifiuta di sciogliere la comunità in una società liquida d’individui in “libera” concorrenza tra loro, chi rifiuta di dividere il fronte delle categorie produttive nella lotta contro gli sfruttatori e i parassiti, non può più considerare il mondo come un campo di battaglia tra nazioni e razze, più o meno forti e vitali, non può più ammettere popoli di serie A e di serie B. Una realtà come l’ALBA bolivariana dimostra come nazionalismo e internazionalismo, patriottismo e solidarietà, possano e debbano convivere. Allo stesso modo, il filosofo A. Dugin ha coniato il termine “inter-comprensione” per spiegare come i nazionalisti di Paesi anche tradizionalmente e storicamente ostili, possano relazionarsi in maniera pacifica e solidale, sotto il segno di una mutua comprensione delle differenze.
A sinistra, si obietta che non è possibile porre sullo stesso piano il nazionalismo dei Paesi colonizzati, cioè un movimento progressivo e anti-imperialista, con quello dei Paesi sviluppati, ossia un’ideologia di legittimazione delle borghesie nazionali e imperialiste. Tuttavia, il sentimento di orgoglio e amore per la propria Patria e la propria comunità, che sta alla base, è il medesimo. Inoltre, se affrontiamo la questione in termini di classe, è oggi evidente come persino i popoli del Primo Mondo siano oppressi, sia pure in maniera differente, dal liberal-capitalismo e dall’imperialismo. Nella Germania occupata da 70 anni, nella Grecia ridotta alla fame, e persino negli Stati Uniti, dove ingenti masse soffrono l’emarginazione politica, c’è la possibilità di un riscatto nazionalista e di una liberazione nazionale, a patto che questo sia un nazionalismo autentico, ossia socialista e comunitario.
Tornando alla Libia, deve essere quindi chiaro che la ricostruzione del Paese deve avvenire secondo i criteri del nazionalismo e del multipolarismo. Ossia, deve essere opera principalmente delle popolazioni libiche, con l’aiuto preminente delle nazioni africane, arabe e mediterranee. Sta alla comunità internazionale, ossia non solo all’Occidente, vegliare contro ulteriori aggressioni imperialiste, come avvenuto almeno in parte in Siria, dove è stato impedito l’intervento diretto statunitense.
In particolare, l’Italia, dato il suo stretto rapporto storico-culturale e geopolitico-economico con la Libia, può e deve giocare un ruolo importante in quest’ambito, ma sotto un’impostazione che preveda non l’intervento diretto unilaterale, bensì il pieno e solidale appoggio alle forze nazionaliste libiche, ossia a ciò che resta dell’eredità del Colonnello al-Gaddafi, il cui governo, a fronte del presente disastro, è oggi largamente rimpianto. Possiamo inviare i fondi, gli aiuti, i mezzi, i tecnici, i consiglieri, financo i militari richiesti, ma il destino della Libia è nelle mani dei Libici. A loro spetta di annientare i jihadisti stranieri e di risollevare il Paese. Ciò che la piccola e povera Cuba ha potuto fare, con successo, per la lontana Angola, lo può fare anche la grande e ricca Italia per un Paese dirimpettaio, la cui stabilità e prosperità non può che beneficare indirettamente tutto il Mediterraneo.