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Spetta all’Europa farsi carico del proprio destino

di Alessandro Iacobellis - 24/02/2015

Fonte: byebyeunclesam


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“Il nocciolo dell’intera questione è proprio qui: non c’è bisogno di alcuna dietrologia né di alcuna teoria del complotto per mostrare la natura espansionista e non difensiva dell’organizzazione atlantica. Sono sufficienti razionalità, logica e buon senso: perché all’indomani del 1991, della scomparsa della sua stessa ragione esistenziale la NATO non solo non ha cessato di esistere ma ha addirittura cominciato un processo di allargamento? Un espansionismo poi certamente non indolore, che ha trovato anzi la sua massima espressione con le guerre balcaniche degli anni ’90, vittima sacrificale la Serbia (allora penalizzata anche dalla fase di estrema debolezza di Mosca). Nel citare le varie tappe di spinta ad Est della NATO, Nazemroaya non manca di citare neanche l’aggressione all’Irak del 2003, a cui i Paesi membri del Patto Atlantico risposero in ordine sparso (con l’Italia nella consueta posizione ambigua), ma che rappresentò il banco di prova per molti dei nuovi Stati europei orientali. Fatto che portò l’allora Segretario della Difesa Donald Rumsfeld a parlare di “vecchia e nuova Europa”.
(..)
Da un punto di vista prettamente europeo e italiano un testo come quello di Nazemroaya non può che fornire un salutare campanello d’allarme. A scoppio più che ritardato, naturalmente, giacché le questioni sono sul tappeto da diversi decenni. Ma prendere coscienza dell’insostenibilità di un sistema che attualmente ha portato un’Unione Europea in piena crisi economica a disporre sanzioni nei confronti di uno dei mercati più ricettivi e strategici come quello russo e che ha portato alla distruzione dello Stato libico è sempre salutare, soprattutto se i danni in questo senso sono ancora reversibili. Perché (e questo bisogna sempre tenerlo a mente) l’estremismo e l’ideologismo sono proprio di chi in realtà continua a sostenere contro ogni logica e semplice buon senso la bontà dell’attuale quadro geopolitico per i nostri (di italiani ed europei) interessi.
Del resto la possibilità che l’Europa decida finalmente di affrancarsi dall’ingombrante tutela militare atlantica dipende in primo luogo e soprattutto… dagli Europei stessi. Perché al di là di ogni considerazione e dotta analisi geopolitica la cruda verità è che sin dal dopoguerra ai governanti del Vecchio Continente ha fatto comodo “appaltare” la propria sicurezza a Washington al fine di tagliare le spese militari. Ragionamento cinico e politicamente miope (ovviamente chiedere ad un altro Paese di farsi carico della propria difesa implica che questo esiga compensazioni in altri campi, dalla politica estera alle scelte economiche) e che per essere cambiato necessita di un cambio di mentalità non solo nella classe dirigente, ma anche nell’opinione pubblica. In quanti sono disposti a capire che la riconquista di una sovranità militare continentale costerebbe sì in termini puramente economici (e in tempi di austerity si andrebbe pertanto a toccare un nervo scoperto per moltissimi) ma nel medio-lungo termine gioverebbe anche sotto quel punto di vista (con una probabile rivitalizzazione di un settore strategico come l’industria pesante e dei grandi armamenti)?
Il quadro in realtà va visto nel suo insieme: per uscire dal vicolo cieco in cui è entrata, l’Unione Europea deve scegliere una volta per tutte di diventare grande e di camminare con le proprie gambe. Si rinfaccia spesso alla UE l’inconsistenza della PESC (politica estera e di sicurezza comune), ma come costruire un fronte compatto sulle questioni essenziali tra i Paesi membri quando questi non dispongono di un apparato di sicurezza unitario? La questione militare, spesso colpevolmente ignorata a discapito di altri settori, è determinante per un ripresa del ruolo che per Storia spetta all’Europa sulla scena globale, pena la progressiva perdita di peso e la futura irrilevanza. Riprendere in mano il proprio destino passa anche dal progetto (spesso evocato ma mai seriamente affrontato) di un esercito europeo comune. Questo naturalmente non per evocare aggressioni contro i propri vicini, anzi: per integrarsi con essi. Più volte dal Cremlino sono giunte dichiarazioni che lasciavano intendere come il problema non sia di avere come vicina un’Europa forte, ma proprio il contrario. L’Eurasia, come suggerisce il nome, non può prescindere dall’Europa. I due concetti non sono assolutamente in antitesi e contrapposizione l’uno con l’altro, dal momento che il progetto di integrazione eurasiatica per compiersi definitivamente e con successo necessita dell’enorme bagaglio di civiltà dell’Europa. Ma non si può ignorare come spetti all’Europa farsi carico del proprio destino e tornare ad essere soggetto autonomo e non più oggetto della volontà altrui; e la NATO (non solo, ma soprattutto) costituisce senza dubbio un ostacolo in tal senso.”

Dalla recensione di Alessandro Iacobellis a “La globalizzazione della NATO” di M. D. Nazemroaya, apparsa in Eurasia. Rivista di studi geopolitici, n. 4/2014, pp. 215-219.

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