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Militare, 80 milioni di euro al giorno

di Manlio Dinucci - 14/04/2015

Fonte: Il Manifesto





La spesa militare italiana, calcolata al tasso di cambio corrente dollaro/euro, è salita da 65 milioni di euro al giorno nel 2013 a circa 70 nel 2014. Anche nell’ipotesi che resti invariata nel 2015 (cosa impossibile perché la Nato preme per un aumento), la spesa annuale del 2014 equivale, all’attuale tasso di cambio, a 29,2 miliardi di euro, ossia a 80 milioni di euro al giorno. Ciò emerge dai dati sulla spesa militare mondiale, pubblicati il 13 aprile dal Sipri. Più precisi di quelli del Ministero italiano della difesa, il cui budget ufficiale ammonta nel 2014 a 18,2 miliardi di euro, ossia a circa 50 milioni di euro al giorno.
Ad esso si aggiungono però altre spese militari extra-budget, che gravano sul Ministero dello sviluppo economico per la costruzione di navi da guerra, cacciabombardieri e altri sistemi d’arma e, per le missioni militari all’estero, su quello del Ministero dell’economia e delle finanze. Il Sipri colloca l’Italia al 12° posto mondiale come spesa militare. Nettamente in testa restano gli Stati uniti, con una spesa nel 2014 di 610 miliardi di dollari (equivalenti, all’attuale tasso di cambio, a 575 miliardi di euro). Stando ai soli budget dei ministeri della difesa, la spesa militare dei 28 paesi della Nato ammonta, secondo una sua statistica ufficiale relativa al 2013, ad oltre 1000 miliardi di dollari annui, equivalenti al 56% della spesa militare mondiale stimata dal Sipri.
In realtà la spesa Nato è superiore, soprattutto perché al bilancio del Pentagono si aggiungono forti spese militari extra budget: ad esempio, quella per le armi nucleari (12 miliardi di dollari annui), iscritta nel bilancio del Dipartimento dell’energia; quella per gli aiuti militari ed economici ad alleati strategici (47 miliardi annui), iscritta nei bilanci del Dipartimento di stato e della Usaid; quella per i militari a riposo (164 miliardi annui), iscritta nel bilancio del Dipartimento degli affari dei veterani. Vi è anche la spesa dei servizi segreti, la cui cifra ufficiale (45 miliardi annui) è solo la punta dell’iceberg. Aggiungendo queste e altre voci al bilancio del Pentagono, la spesa militare reale degli Stati uniti sale a circa 900 miliardi di dollari annui, circa la metà di quella mondiale, equivalenti nel bilancio federale a un dollaro su quattro speso a scopo militare.
Nella statistica del Sipri, dopo gli Stati uniti vengono la Cina, con una spesa stimata in 216 miliardi di dollari (circa un terzo di quella Usa), e la Russia con 85 miliardi (circa un settimo di quella Usa). Seguono l’Arabia Saudita, la Francia, la Gran Bretagna, l’India, la Germania, il Giappone, la Corea del sud, il Brasile, l’Italia, l’Australia, gli Emirati Arabi Uniti, la Turchia.
La spesa complessiva di questi 15 paesi ammonta, nella stima del Sipri, all’80% di quella mondiale. La statistica evidenzia il tentativo di Russia e Cina di accorciare le distanze con gli Usa: nel 2013-14 le loro spese militari sono aumentate rispettivamente dell’8,1% e del 9,7%. Aumentate ancora di più quelle di altri paesi, tra cui: Polonia (13% in un anno), Paraguay (13%), Arabia Saudita (17%), Afghanistan (20%), Ucraina (23%), Repubblica del Congo (88%).
I dati del Sipri confermano che la spesa militare mondiale (calcolata al netto dell’inflazione per confrontarla a distanza di tempo) è risalita a un livello superiore a quello dell’ultimo periodo della guerra fredda: ogni minuto si spendono nel mondo a scopo militare 3,4 milioni di dollari, 204 milioni ogni ora, 4,9 miliardi al giorno.
Ed è una stima per difetto della folle corsa alla guerra, che fa strage non solo perché porta a un crescente uso delle armi, ma perché brucia risorse vitali necessarie alla lotta contro la povertà.

Il presidente ceco scarica l'ambasciatore statunitense



Il Presidente della Repubblica Ceca, Miloš Zeman, dice che non permetterà ad alcun ambasciatore di un’altra nazione di intromettersi su quali visite estere fare. Questa dichiarazione segue quella dell’ambasciatore degli Stati Uniti che ha criticato il piano di Zeman di presenziare alla celebrazione della parata sulla Seconda Guerra Mondiale a Mosca.
“Dopo questa dichiarazione temo che le porte del Castello di Praga saranno chiuse per l’ambasciatore Schapiro,” ha detto Zeman al portale web Parlamentní Listy sabato. Il castello di Praga è la residenza ufficiale del presidente.
In precedenza, l’ambasciatore degli Stati Uniti nella Repubblica Ceca, Andrew Schapiro, aveva criticato la decisione di Zeman di andare in Russia per le celebrazioni del Giorno della Vittoria a maggio. Schapiro ha affermato che il piano di Zeman è “miope“, dato che “sarebbe imbarazzante” se il presidente ceco fosse l’unico uomo di Stato di un paese UE sulla Piazza Rossa.
“Non riesco a immaginare un ambasciatore ceco a Washington che dà consigli al presidente degli Stati Uniti sulle visite da fare“, ha detto Zeman. “Non permetterò ad alcun ambasciatore di interferire con il programma dei miei viaggi all’estero.”
Nell’intervista, il presidente ha anche espresso la sua preoccupazione per gli attuali tentativi occidentali di isolare la Russia.
“E’ essenziale mantenere e sviluppare le relazioni con la Russia, non solo nel commercio, ma anche, per esempio, nel partenariato strategico nella lotta contro il terrorismo internazionale“, ha detto Zeman.
In precedenza, Zeman aveva osservato che la sua visita in Russia sarebbe un “segno di gratitudine per il fatto che oggi in questo paese non dobbiamo parlare tedesco .” Egli intende anche rendere omaggio alla memoria dei 150.000 soldati sovietici morti per liberare la Cecoslovacchia.
“Washington sta andando in preda del panico perché evidentemente non riesce ad isolare la Russia“, ha detto il capo del Comitato per gli Affari Esteri della Duma, Alexei Pushkov, e su Twitter ha aggiunto: “A giudicare dall’isteria dell’Ambasciatore degli Stati Uniti presso la Repubblica Ceca, Washington è irritata per il viaggio a Mosca del 9 maggio dei leader dei paesi occidentali. Impaurita dal fatto che l’isolamento non funzionerà“.
Andrew Schapiro, 51 anni, è un avvocato di Chicago diventato ambasciatore solo un anno e mezzo fa.
“Sei mesi fa ho presentato le mie credenziali al Castello. Grazie a tutti quelli che nella Repubblica Ceca ci hanno fatto sentire a casa, a me e alla mia famiglia ! pic.twitter.com/2Ewa5HGKIj
Questo Sabato, 25 leader stranieri e diverse organizzazioni internazionali hanno confermato la loro partecipazione alla celebrazione del 70° anniversario della vittoria nella Grande Guerra Patriottica, che si terrà a Mosca il 9 maggio, ha detto il capo dell’amministrazione del Cremlino Sergey Ivanov.
L’Unione Sovietica ha perso oltre 11 milioni di soldati durante la guerra, il più elevato numero di morti tra i paesi membri della coalizione nella lotta contro la Germania nazista. Le parate militari per celebrare la vittoria nella Seconda Guerra Mondiale si svolgeranno per le strade di 26 città russe.



(traduzione a cura di Voci dall’Estero)

11/04/15

Il fascino discreto della nuova banca internazionale cinese



Le motivazioni che operano nella mente cinese, mentre avanza l’Infrastructure Asian Investment Bank (AIIB), continuano ad essere argomento di discussioni animate. Diverse interpretazioni sono possibili, ve n’è una gamma incredibile. E’ un obiettivo a senso unico o ce ne sono altri? Sono prevalse considerazioni economiche o, come nella buona economia, la politica non può esserne separata? L’iniziativa dell’AIIB è un’altra manifestazione “assertiva” della Cina o un vero e proprio esempio di cooperazione “piena”? L’AIIB è una lama puntata al cuore del sistema di Bretton Woods? La Cina distrugge o crea? L’AIIB è una sfida strategica all’egemonia globale degli Stati Uniti? La Cina spera di governare il mondo con il potere del denaro, non importa quanto sia grande la superiorità militare degli Stati Uniti? Queste sono tutte domande plausibili, e la risposta ad ognuna di esse non può bastare a spiegare i calcoli della Cina sull’AIIB. Nel frattempo, un’altra domanda si pone: Pechino ha deciso la rotta e l’AIIB viene implementata secondo un copione prestabilito; o la Cina improvvisa e si sintonizza sull’iniziativa mentre l’AIIB salta fuori dai progetti imponendosi e ampliandosi ben oltre le aspettative di Pechino, anche in parti del mondo considerate improbabili? Un editoriale sul New York Times del noto accademico, autore e studioso della Cina presso la Johns Hopkins, Ho-Fung Hung, traccia un’interpretazione romanzesca sorprendente per la semplicità e accattivante freschezza, cioè che iniziative multilaterali come AIIB e Banca dei BRICS in realtà implichino “un vincolo auto-imposto” dalla Cina verso le “iniziative bilaterali aggressive” (dai successi irregolari) che la Cina aveva perseguito finora, e che base del cambiamento dell’approccio essenzialmente sia la necessità di adottare una via alternativa per proficui investimenti all’estero da parte del massiccio fondo sovrano accumulato, cercando “di coprirli e legittimarli con la partecipazione di altri Paesi“. A sostegno di ciò, il viceministro delle finanze cinese Shi Yaobin avrebbe detto che Pechino è consapevole che “la quota di ogni aderente” di potere decisionale nella nuova AIIB, “diminuirà proporzionalmente al progressivo aumento dei Paesi aderenti“, cioè la Cina consapevolmente si tarpa deliberatamente le ali nell’ambito decisionale dell’AIIB. (NYT) Certo, c’è il merito nell’argomento. E’ inconcepibile che Paesi come Gran Bretagna, Francia o Germania vogliano essere membri fondatori dell’AIIB senza la speranza di potervi decidere le politiche di gestione e prestito. Vi sono segnalazioni secondo cui la Cina ha fatto un buon lavoro persuadendo le influenti potenze europee a collaborare al progetto AIIB garantendo che Pechino è disposta a concedere diffusi poteri decisionali e che lo spirito ‘win-win’ vi prevarrà. Dovremo aspettare giugno, quando la carta dell’AIIB sarà pronta, per una decisione definitiva. Ma il fatto che la Cina dimostri spirito democratico, coinvolgendo i soci fondatori in discussioni attive, è un segno positivo. Nel frattempo, è possibile trarre già alcune conclusioni politiche.
A dire il vero, l’AIIB è un colpo da maestro della Cina dal punto di vista politico e diplomatico. Un vantaggio minimo irriducibile per la Cina che in qualche modo intacca l’immagine di crescente potenza “assertiva” nella regione asiatica. In questo senso, la strategia del “pivot in Asia” degli Stati Uniti, volta a contiene la Cina, viene messa sulla difensiva. L’AIIB rende il progetto Trans-Pacific Partnership degli USA (che esclude la Cina) ancora più inane. Secondo indicazioni, c’è la buona possibilità che il Giappone possa finalmente decidere di entrare nell’AIIB. Se accadesse, gli Stati Uniti rimarrebbero senza alternativa se non associarsi all’AIIB attraverso una formula che ne salvi la faccia (e che la Cina potrebbe facilmente accettare). In secondo luogo, vi è stata l’enorme “defezione” dei tradizionali alleati dagli Stati Uniti sul progetto AIIB, nonostante i robusti sforzi di Washington per impedire che ciò accadesse. Una cosa del genere non era mai accaduta prima nel mondo degli affari. Sicuramente, si va degradando l’influenza degli Stati Uniti sugli alleati europei. In terzo luogo, se la Cina dimostra come un sistema di governo democratizzato si possa combinare con politiche di prestiti non prescrittiva, diventa assai difficile rinviare ulteriormente la tanto necessaria riforma di Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale. Infine, la saga dell’AIIB testimonia la tendenza, percettibile ultimamente, della Cina ad allontanarsi dal primato precedentemente assegnato in politica estera alle relazioni con gli USA. L’AIIB ‘punta’ ai Paesi in via di sviluppo e l’iniziativa “Belt and Road” si concentra su un’ampia rete di Paesi in via di sviluppo dell’Asia del sud-est, del sud e centrale, di Medio Oriente e Africa; in ogni caso, la Via della Seta risale a prima che Colombo scoprisse l’America.


(traduzione a cura di Alessandro Lattanzio – SitoAurora)

10/04/15

Grecia, il fattore N(ATO)



Tsipras incontra Putin a Mosca domani, nel momento stesso in cui Ue, Bce e Fmi tengono un nuovo vertice sulla Grecia, che il giorno dopo deve rimborsare una rata di 450 milioni di euro del prestito concesso dal Fondo monetario internazionale.
I temi ufficiali, nel colloquio a Mosca, sono quelli del commercio e dell’energia, tra cui la possibilità che la Grecia diventi l’hub europeo del nuovo gasdotto, sostitutivo del South Stream bloccato dalla Bulgaria sotto pressione Usa, che attraverso la Turchia porterà il gas russo alle soglie della Ue. Si parlerà anche di un possibile allentamento delle controsanziomi russe, permettendo l’import di prodotti agricoli greci.
Secondo quanto ha dichiarato alla Tass (31 marzo), il premier Tsipras ha comunicato al presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, e alla rappresentante della politica estera Ue, Federica Mogherini, che «non siamo d’accordo con le sanzioni alla Russia» [1]. E, al primo vertice Ue a cui ha partecipato il 19-20 marzo, ha ufficialmente sostenuto che «la nuova architettura della sicurezza europea deve includere la Russia».
A conferma di tale posizione, Tsipras sarà di nuovo a Mosca il 9 maggio per il 70° anniversario della vittoria sulla Germania nazista, celebrazione boicottata dalla maggioranza dei leader occidentali (a partire da Obama, Merkel e Cameron). Ci sarà invece il presidente cinese Xi, con una rappresentanza delle forze armate cinesi, che sfilerà nella Piazza Rossa con quelle russe a simboleggiare la sempre più stretta alleanza tra i due paesi. Il presidente Putin, a sua volta, sarà in settembre a Pechino per celebrare il 70° della vittoria sul Giappone militarista.
Avvicinandosi alla Russia, la Grecia di Tsipras si avvicina quindi di fatto anche alla Cina e alla nuova area economica euro-asiatica, che sta nascendo sulla base della Banca d’investimenti per le infrastrutture asiatiche creata da Pechino, cui ha aderito la Russia insieme a circa altri 40 paesi. Dagli organismi finanziari di quest’area e anche da quelli del Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) – che mirano a soppiantare la Banca mondiale e il Fmi dominati dagli Usa e dalle maggiori potenze occidentali – la Grecia potrebbe ricevere i mezzi per sottrarsi alla stretta soffocante di Ue, Bce e Fmi. Anche perché la Cina vuole fare del Pireo un hub di primaria importanza della sua rete commerciale. Secondo «The Independent», «il governo greco è pronto a nazionalizzare le banche del paese e a creare una nuova moneta», ossia è pronto a uscire dall’euro e, se costretto, anche dalla Ue [2].
Entra però qui in gioco un altro fattore: l’appartenenza della Grecia non solo alla Ue ma alla Nato. «Una Grecia amica di Mosca potrebbe paralizzare la capacità della Nato di reagire all’aggressione russa», avverte Zbigniew Brzezinski [3]. Parole minacciose da non sottovalutare, dato che Brzezinski è stato a lungo consigliere strategico della Casa Bianca, con cui è ancora in stretto contatto. Anche se il ministro della difesa Kammenos assicura che «il nuovo governo greco mantiene i suoi impegni nella Nato nonostante le sue relazioni politiche con la Russia», a Washington e Bruxelles stanno sicuramente preparando un piano per impedire che la Grecia divenga un «anello debole» nel nuovo fronteggiamento con la Russia e, di fatto, con la Cina. Il golpe del 1967, che portò al potere in Grecia i colonnelli, fu attuato in base al piano «Prometeo» della Nato [4].
I tempi sono cambiati, ma non gli interessi politici e strategici su cui si fonda la Nato. Nel frattempo divenuta più esperta nei metodi di destabilizzazione interna.

09/04/15

La strategia americana alla luce dell’accordo di Losanna



Ci sarà tempo per capire quanto grave possa essere la “rottura” fra Washington e Tel Aviv sulla questione del nucleare iraniano, benché sia chiaro che si tratta di un contrasto non diverso da quello all’interno dello stesso gruppo dominante statunitense. Non è certo un mistero, infatti, che l’amministrazione Obama sia accusata anche in America di essere incapace di difendere con successo gli interessi degli Stati Uniti e che buona parte del mondo politico americano che “conta” si sia schierata apertamente con Netanyahu, il quale ritiene che Obama si sia fatto “raggirare” da un regime “infido” come quello iraniano. Del resto, anche i media occidentali meno scettici riguardo all’accordo di Losanna sottolineano che ora si dovrà vedere se l’Iran rispetterà davvero gli impegni presi o se invece cercherà di “imbrogliare” la comunità internazionale. Come se non fosse stata l’America a mentire ripetutamente su questioni di politica internazionale (dal Kosovo all’Iraq, dalla Siria all’Ucraina) e a trasformare insieme con le petromonarchie del Golfo la Mesopotamia in un lago di sangue. O come se non fosse Israele a disporre di oltre 200 testate nucleari ma senza averlo mai ammesso (e quindi non dovendo subire alcuna ispezione da parte di alcun organismo internazionale, mentre l’Iran non solo ha firmato il Trattato di non proliferazione nucleare, ma ha anche ratificato, nel 1997, la Convenzione internazionale sulle armi chimiche, dopo avere già ratificato, nel 1973, la Convenzione sulle armi biologiche). Che i media mainstream di proprietà degli oligarchi occidentali facciano il tifo per gli Usa e per Israele “a prescindere” però è storia nota e non vale la pena insistervi. Quel che davvero importa è comprendere la ragione del conflitto tra una parte significativa del gruppo dominante americano e l’amministrazione Obama.
Quest’ultimo, non lo si dovrebbe dimenticare, aveva ereditato una situazione gravemente compromessa dalla disastrosa politica della precedente amministrazione, che aveva tentato di sottomettere con la forza intere regioni del continente eurasiatico. Una strategia rivelatasi fallimentare non solo per la difficoltà di “gestire” direttamente Paesi così diversi dagli Stati Uniti come l’Afghanistan e l’Iraq, ma perché nel frattempo la storia “andava avanti”, nonostante le “profezie” di Francis Fukuyama, e gli Usa non potevano arrestare lo sviluppo e la crescita di una serie di Paesi, primo fra tutti la Cina ma anche quella Russia che ritenevano di avere “liquidato” definitivamente negli anni Novanta. Invece, con l’elezione di Obama gli Stati Uniti sembravano voltare pagina, prendendo atto che il modello unipolare incentrato sulla supremazia americana era oltre le proprie possibilità, non per difetto di potenza militare, ma perché la potenza militare garantisce sì la distruzione di un Paese nemico, ma non necessariamente che si sia in grado di imporgli la propria volontà. Per ottenere questo occorrono ovviamente anche altri “mezzi”. Invero, perfino da un punto di vista strettamente militare, occorre un esercito che sappia combattere sullo stesso terreno del nemico, altrimenti si rischia di dare la caccia alle mosche con i cannoni e di farsi odiare addirittura dai propri alleati. Insomma, si richiede una dottrina militare basata più sulla flessibilità operativa che sulla potenza di fuoco, ma soprattutto si deve essere disposti ad accettare perdite di vite umane rilevanti in combattimento, senza essere costretti a reagire con tutta la forza di cui si dispone. Inutile dire che questo è proprio ciò che gli Usa non sono disposti ad accettare. Non a caso “no boots on ground” è il principio su cui si fonda la nuova strategia di Obama.
Si tratta pur sempre però di una strategia che mira a rafforzare la posizione di predominio degli Stati Uniti, non certo a ridefinire gli equilibri mondiali secondo un’ottica “multipolare”, ma con mezzi nuovi: rivoluzioni colorate, quinte colonne, uso dei “mercati”, di Ong e così via. Se si deve combattere gli Usa possono offrire armi, soldi e intelligence e se proprio è necessario, impiegare missili, navi ed aerei, ma il sangue meglio che lo versino altri. Ragion per cui Obama durante la sua presidenza ha lasciato pressoché carta bianca alle petromonarchie del Golfo, pur riservando a Washington, per così dire, il ruolo di “regista”. Scopo dichiarato: ridisegnare la mappa geopolitica dell’intera regione, dal Medio e Vicino Oriente al Nord Africa, ossia la cosiddetta “primavera araba” (generata sì dal malcontento delle masse arabe, ma fin dall’inizio “eterodiretta” e strumentalizzata dalla “manina d’oltreoceano” e soprattutto dagli “alleati” arabi e turchi). Né Obama si è opposto alle mire neocolonialiste di Sarkozy, dacché la Francia (tradizionale rivale degli Usa in Africa) è adesso un alleato utile e prezioso per fermare la penetrazione della Cina nel continente africano. L’inaspettata resistenza della Siria di Assad e i diversi e perfino contrastanti interessi delle petromonarchie del Golfo (particolarmente significativo lo scontro fra Qatar e Arabia Saudita riguardo all’Egitto, essendo i sauditi acerrimi nemici dei Fratelli musulmani egiziani, appoggiati invece dal Qatar) hanno però trasformato una situazione, già di per sé estremamente complessa, in un tale “caos”, che in pratica non vi è più un attore geopolitico nella zona che non giochi diverse partite, al punto che gli stessi americani possono essere dalla parte dei nemici dei propri nemici, ma al tempo stesso sostenere gli amici dei propri nemici.
D’altronde, vi è chi vede in tale geopolitica del caos una vera e propria strategia della tensione che giocherebbe solo a vantaggio di Washington, giacché gli Stati Uniti nel 2020 saranno il primo esportatore mondiale di gas e petrolio, e perciò dovrebbero «avere interesse a favorire la destabilizzazione delle regioni caratterizzate dalla presenza di risorse energetiche o attraversate da gasdotti e oleodotti, fondamentali per le economie dei loro competitor globali (Europa, Giappone, Cina, India, “tigri asiatiche”…)» (1). Questa è però solo una faccia della medaglia, dato che una tale strategia per gli Usa sarebbe vantaggiosa solo nel caso che avessero il pieno controllo dell’intera area, che è ancora di vitale importanza in uno scenario internazionale che obbliga gli Stati Uniti ad affrontare la doppia sfida con la Russia e la Cina, mentre l’egemonia statunitense è messa in discussione perfino nel continente americano, ove la tradizionale politica di Washington basata su golpe, giunte militari, squadroni della morte, torture, assassini e massacri non sembra più “funzionare” come in passato. Insomma, questo significa che la politica di destabilizzazione degli Usa nel Medio e Vicino Oriente non può essere compresa senza tener conto che la prospettiva degli Usa è quella di un attore geopolitico che gioca una partita sulla “grande scacchiera”, non su una scacchiera regionale e che di conseguenza non può coincidere con quella di una potenza regionale, qual è appunto Israele.
Al riguardo, bisognerebbe tener presente quanto dichiarato in una recente intervista da Zbigniew Brzezinski (2), un analista certo seguito dalla Casa Bianca con più attenzione di quella che può riservare alle analisi di Luttwak. Per lo studioso di geopolitica di origine polacca non vi è dubbio che il nemico degli Usa sia la Russia, al di là di ogni considerazione di carattere ideologico, e che invece la Cina non sia necessariamente una minaccia per gli Stati Uniti, che perciò dovrebbero impegnarsi per dar vita, insieme con questa grande potenza asiatica, ad un nuovo sistema internazionale che Brzezinski denomina “G2 plus”, in quanto non esclude il ruolo geopolitico di attori regionali. Si capisce che per Brzezinski l’America dovrebbe invece preoccuparsi di ridurre il più possibile il ruolo della Russia e il “potenziale” geoeconomico e geopolitico dei Brics. In questo senso, l’alleanza strategica con la Cina, che vedrebbe pur sempre gli Usa occupare la “posizione dominante”, non sarebbe un prezzo troppo alto da pagare per Washington. Epperò, è ovvio che sarebbe necessario non solo che Pechino fosse davvero disposta a collaborare con Washington, rinunciando di fatto a formare con gli altri Stati dei Brics un polo geopolitico alternativo rispetto a quello atlantico (il che naturalmente non è affatto facile da ottenere), ma che venissero recisi i legami tra l’Europa e la Russia e che gli Usa acquisissero la totale e definitiva direzione degli affari internazionali in tutta la regione medio-orientale.
Per quanto concerne l’Europa in effetti si deve riconoscere che Washington può contare sul pieno sostegno di potenti “circoli atlantisti”, che agiscono come quinte colonne nei vari Paesi europei, e può pure sfruttare le differenze tra l’Europa settentrionale e quella meridionale, rese sempre più gravi dall’introduzione dell’euro e dalla crisi economica originatasi dallo scoppio nel 2007-08 della bolla finanziaria e pilotata dai “centri egemonici “atlantisti e mondialisti. Inoltre, gli americani hanno dimostrato di sapere sfruttare il nazionalismo e la russofobia della Polonia, dei Paesi Baltici, della Romania e della stessa Ucraina, dove, dopo aver favorito un colpo di Stato per abbattere il legittimo governo di Yanukovich, non hanno nemmeno esitato ad appoggiare in funzione anti-russa squadroni della morte composti da estremisti nazionalisti. Solo la pronta reazione di Putin ha impedito che la bandiera a stelle e strisce sventolasse nel porto di Sebastopoli, anche se nel Donbass si combatte ancora. Ma sebbene la strategia di Washington consista in primo luogo nel tenere sotto scacco l’Europa, alimentando vecchie e nuove tensioni fra gli europei, è naturale che i forti legami commerciali di alcuni Paesi dell’Europa occidentale (in particolare della Germania) con la Russia (dell’importanza dei quali anche Brzezinski è perfettamente consapevole) (3), e gli spettri della Seconda guerra mondiale che ancora si aggirano nel Vecchio Continente non possono non preoccupare proprio la “Vecchia Europa”. Non meraviglia perciò che Hollande e la Merkel si siano recati a Minsk per cercare di mettere fine ai combattimenti nel Donbass. Vero che ancora una volta si è dimostrato che in realtà l’Ue politicamente non esiste. Eppure, è la debolezza stessa dell’Ue che può rappresentare un pericolo per Washington. Una Europa stretta tra la politica di potenza degli Usa e una Russia decisa a difendere la propria sicurezza nazionale e non intimorita dalla minacciosa avanzata verso est della Nato, potrebbe avere l’effetto di moltiplicare le tensioni derivanti dalla crisi economica e innescare un processo di destabilizzazione di cui Washington non avrebbe più il controllo. Ovverosia si potrebbe creare una situazione simile a quella che appunto si sta verificando in Africa settentrionale e nel Vicino e Medio Oriente.
Ragion per cui sia per Brzezinski che per Obama è necessario che gli Usa stabiliscano nella regione medio-orientale un “nuovo ordine geopolitico”, che avvantaggi il più possibile l’America senza scontentare i propri alleati, benché ciò sia più facile a dirsi che a farsi. Infatti, per mettere fine ai conflitti che stanno devastando e insanguinando il Medio e Vicino Oriente e che vedono prevalere gruppi di terroristi islamisti secondo questa concezione strategica occorrerebbe proprio puntare sull’Iran, nonostante la scontata opposizione di Tel Aviv., dato che si ritiene che Israele sia al sicuro con le sue 200 testate atomiche, mentre l’Iran anche se riuscisse a fabbricare qualche ordigno nucleare non sarebbe così folle da “suicidarsi” lanciandolo contro Israele. Sia Brzezinski che Obama però sanno benissimo da chi sono finanziati e armati i gruppi islamisti che hanno aggredito la Siria, alleata dell’Iran, e che gli stessi Usa giocano la carta dell’estremismo islamista, colpendolo con un mano ma aiutandolo con l’altra, come hanno fatto con l’Isis, utile contro il regime sciita di Baghdad e perfino contro Damasco. In quest’ottica, allora è logico che l’accordo con l’Iran voluto da Obama miri innanzi tutto a restituire lo scettro al principe (cioè agli Usa), e coinvolgere questo Paese nella costruzione di un “equilibrio geopolitico” che porti al definitivo isolamento della Russia. Nondimeno, è assai difficile ritenere che Israele e la stessa Arabia Saudita accettino che l’Iran diventi in qualche modo garante di equilibri geostrategici funzionali alla politica statunitense.
Del resto, non pare che Obama possa davvero riservare agli sciiti un ruolo politico di primo piano, considerando il contrasto sempre più acuto tra sunniti e sciiti, come dimostrano le vicende dello Yemen (e si ha addirittura notizia che i sauditi per combattere le milizie sciite yemenite abbiano chiesto armi e soldati al Pakistan, un Paese a maggioranza sunnita che condivide con l’Iran una lunga frontiera) (5). Né sembra che Obama voglia davvero mettere fine alla guerra contro la Siria, tanto che nemmeno la riconquista di Idlib da parte dei miliziani di Al Nusra (ossia di Al Qaeda) appoggiati dalla Turchia, un Paese alleato degli Usa e membro della Nato, ha suscitato indignazione in Occidente, a conferma del fatto che gli Usa si riservano non solo il diritto di stabilire chi di volta in volta deve essere considerato il “nemico dell’Occidente”, ma pure quello di cambiare le regole del gioco ogniqualvolta lo ritengano necessario. Ma se quindi la prospettiva di un “realista” come Brzezinski sembra sconfinare paradossalmente nella “fantageopolitica” ciò dipende pure dal fatto che l’America non è in grado di far fronte a tutte le sfide che deve affrontare in questa fase storica. D’altra parte, se anche la strategia di Obama è fallimentare, non si deve ignorare che i suoi critici, americani o israeliani che siano, praticamente non sanno altro che riproporre la strategia di W. J. Bush.
Al riguardo, può essere indicativo che il Pentagono subito dopo l’annuncio che si era raggiunto un accordo di massima sul nucleare iraniano si sia affrettato a rendere noto che possiede una nuova bomba bunker-buster in grado di distruggere anche gli impianti nucleari iraniani più pesantemente fortificati (6). Ciononostante, è noto che «un rapporto dell’intelligence statunitense, riporta che l’opzione militare contro gli impianti nucleari iraniani non sarebbe comunque risolutiva, al massimo ne ritarderebbe l’attuazione di un paio di anni»(7). Insomma, occorre ribadire che quel che il Pentagono non può fare (posto che non si voglia “vetrificare” l’Iran con un attacco nucleare o scatenare la terza guerra mondiale) è arrestare lo sviluppo non solo dell’Iran, ma anche di Paesi come il Brasile, l’India, la Cina e la Russia. E non solo sotto il profilo economico. Basti pensare che se la Cina nel 2013 ha speso per la difesa 112 miliardi di dollari, la Russia ne ha spesi circa 70 (8). Di questo passo è facile prevedere che tra qualche anno la Russia sarà di nuovo una potenza militare sotto ogni aspetto nonostante che la spesa militare degli Usa sia di gran lunga superiore (quasi 600 miliardi di dollari nel 2013), anche perché i russi (come i cinesi) non mirano, a differenza degli americani, a dominare i mari e gli spazi aerei dell’intero pianeta, né hanno centinaia di basi militari all’estero.
In questo contesto, è logico che nessun autentico equilibrio multipolare è possibile senza coinvolgere la Russia ma limitandosi a cercare di portare l’Iran nel campo occidentale. Gli è che la strategia di Obama come quella “caldeggiata”dai cosiddetti “falchi” (che se possibile sono perfino più ostili alla Russia di quanto lo sia Obama) non può che contribuire ad aumentare i rischi per la sicurezza mondiale, indipendentemente da quali potranno essere le conseguenze dell’accordo di Losanna. Anche senza considerare la questione palestinese o il conflitto tra Israele e Hezbollah, i conflitti nella regione medio-orientale sono ormai troppo forti perché si possa creare di punto in bianco un “ordine geopolitico” che non solo escluda la Russia ma prescinda dal ruolo dell’Arabia Saudita (che nel 2013 ha speso per la difesa circa 60 miliardi dollari, una cifra enorme tenendo conto delle reali necessità di questo Paese e che “la dice lunga” sulla politica e le reali intenzioni di Riad) (9). In effetti, ad un’analisi superficiale potrebbe sembrare che agli Usa converrebbe piuttosto adoperarsi per sfruttare l’alleanza tra Israele e l’Arabia Saudita in chiave anti-sciita, facendo leva al tempo stesso sulle bande di terroristi sunniti che da decenni scorrazzano a destra e a manca tutta l’area mediterranea, senza che nessuno glielo impedisca (benché sia ovvio che i musulmani, sunniti o sciiti che siano, non sono in quanto tali né terroristi né “guerrafondai”, come invece degli insipienti gazzettieri filosionisti vorrebbero far credere, al fine di giustificare una vergognosa e pericolosa islamofobia). Ma una tale politica equivarrebbe a cercare di risolvere dei problemi politici esclusivamente con mezzi militari, non comprendendo che è sempre più difficile far sì che la guerra sia la continuazione della politica con altri mezzi, in quanto è sempre più difficile far convergere obiettivi militari e scopi politici, non fosse altro che per la stessa potenza distruttiva della maggior parte degli attuali mezzi bellici.
Ovviamente, il discorso cambierebbe se vi fosse un ordine mondiale “condiviso” dalle maggiori potenze economiche “e” militari (ossia perlomeno Stati Uniti, Russia e Cina). In tal caso non sarebbe difficile far pressione su delle potenze regionali (la cui politica comunque dipende in gran parte dalle grandi potenze e che, tra l’altro, devono anche affrontare situazioni interne non sempre facili) (10), onde imporre loro una visione geopolitica basata sulla difesa di determinati equilibri mondiali, né spazzar via l’estremismo islamista, che invece sta dilagando perfino in Africa. Né mancherebbero mezzi e risorse per interventi militari chirurgici, rapidi e “risolutivi”. Tuttavia, rebus sic stantibus, anche questa è “fantageopolitica”, giacché è certo che gli Usa non intendano fare nessun “passo indietro”, rinunciando ai loro progetti di egemonia mondiale. E’ probabile dunque che la situazione internazionale nei prossimi mesi diventi ancora più “caotica” o (se si preferisce) ancora più “fluida”, tanto più che i Paesi dell’Europa occidentale si stanno rivelando ancora una volta dei nani politici (Germania e Francia incluse). In ogni caso, anche se è possibile (e auspicabile) che l’Iran sviluppi senza problemi il suo programma nucleare (11), la ferita ancora aperta della guerra in Siria è sufficiente per non indulgere a facili ottimismi. Peraltro, il pessimismo della ragione non esclude che quello che oggi pare impossibile possa invece avverarsi perfino in un futuro prossimo, anche perché, a ben vedere, sebbene ancora “imperfetto”, il multipolarismo è già una realtà, Washington volente o nolente.


NOTE

1. Gianandrea Gaiani, “Meglio potercela cavare da soli, almeno nel ‘giardino di casa’”, “Analisi Difesa”, 4 aprile 2015 (http://www.analisidifesa.it/2015/04/meglio-potercela-cavare-da-soli-almeno-nel-giardino-di-casa/).

2. Vedi “A Time of Unprecedented Instability?” (http: // www. Foreign policy. com/articles /2014/07/21/a_time_of_unprecedented_instability_a_conversation_with_zbigniew_brzezinski%20).

3. Vedi Zbigniew Brzezinski, “Strategic Vision. America and the Crisis of Global Power”, Basic Books, New York, 2013.

4. Del ruolo che attualmente sta svolgendo Londra non merita nemmeno parlare, sia perché da decenni è del tutto subalterno alla politica della Casa Bianca, sia perché il bulldog inglese oltre ad abbaiare ben poco può fare, anche se l’Inghilterra si illude di essere ancora una potenza marittima.

5. Vedi http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Yemen-Pakistan-Riad-ci-ha-chiesto-caccia-navi-e-soldati-90a769bc-439b-4844-8b73-3a1f9b7832fe.html?refresh_ce.

6. Julian E. Barnes, Adam Entous, “Pentagon Upgraded Biggest ‘Bunker Buster’ Bomb as Iran Talks Unfolded”. The Wall Street Journal, 3 aprile 2015.

7. Giovanni Caprara, “Il Pentagono ha eseguito il test della bunker-buster anti-Iran” (http://www.conflittiestrategie.it/il-pentagono-ha-eseguito-il-test-della-bunker-buster-anti-iran-di-g-caprara).