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Guerra: quante probabilità ci sono che scoppi a breve termine?

di Aldo Giannuli - 19/05/2015

Fonte: Aldo Giannuli


Nella decisione dei governi europei sul da farsi pesa il consueto servilismo verso gli Usa, ma pesano anche gli interessi economici e l’ostilità dell’opinione pubblica europea a lasciarsi coinvolgere in una guerra. Il guaio peggiore è che, almeno per ora, non ci sia una percezione adeguata del pericolo e l’opinione pubblica europea è piuttosto inerte.

   

Forse il titolo dovrebbe essere una altro: “Che guerra combatteremo?” perché, probabilmente, la guerra è già iniziata l’11 settembre 2001 ed è poi proseguita in forme molto diverse dal passato (terrorismo, rivolte, guerre monetarie, commerciali, cyber, sanzioni economiche ecc.) Abbiamo già detto altre volte che la guerra ha cambiato modalità: da scontro armato, aperto ed a dominante militare, è diventata coperta, multiforme e a dominante strategica complessiva, dove la strategia integra sia forme di pressione sia militare che economiche, finanziarie, monetarie, di intelligence, di guerra indiretta, ecc. C’è chi parla di guerra a “bassa intensità”, intendendo per essa una bassa intensità militare, che, però, non esclude un’altissima intensità economica, politica, tecnico-scientifica. Dunque, la domanda che dobbiamo porci è: “quante probabilità ci sono, che la guerra prosegua in queste forme a bassa intensità militare e non si trasformi in guerra aperta e ad alta intensità militare?”. Nel secondo caso, ovviamente, l’attuale guerra a bassa intensità diverrebbe solo un lungo prologo di quella successiva.

Per rispondere dobbiamo in primo luogo constatare come la crisi duri ormai da parecchi anni ed abbia assunto carattere realmente globale. Per globale non intendiamo solo “internazionale” o “mondiale”, ma “complessiva”, cioè che intrecci finanza, economia, relazioni interstatali, tendenze sociali, stabilità politica interna ecc (torneremo su questo concetto recensendo il libro di Alessandro Colombo “Tempi decisivi”).

Per quanto riguarda la durata, ricordiamo che i primi fallimenti bancari risalgono al 2007 e che non siamo affatto certi di esserne usciti. Dal punto di vista finanziario, ci sono stati momenti di tregua (segnatamente il 2009, e dal 2013 ad oggi,) ma con andamenti discontinui e differenziati da paese a paese e con segnali di ripresa molto modesti ed isolati, ma dal punto di vista dell’economia reale (in termini di produzione, consumi ed occupazione) la crisi non è mai terminata ed ora ci sono solo timidissimi segnali solo negli Usa.

Storicamente tutte le grandi crisi economiche sono sfociate in conflitti di vaste proporzioni: quella del 1873 nella guerra balcanica, conclusa con la Pace di Berlino, quella del 1907 nella prima guerra mondiale e quella del 1929 nella seconda. Fa parziale eccezione quella del 1973-74 che, però, non ebbe i caratteri di intensità e di generalizzazione delle precedenti.

Adesso ci sono le premesse per un nuovo conflitto di ampie proporzioni? E partendo da dove?

Allo stato attuale, abbiamo molti punti di crisi che possono degenerare in conflitti di ampie proporzioni: in primo luogo c’è l’esteso arco di crisi del Me-Na che include molti conflitti ancora non saldatisi fra loro (Mali, Libia, Egitto, Palestina, Siria, Iraq, Afghanistan, Yemen, Barhain ecc.), poi ci sono diversi focolai territorialmente localizzati, ma che si collegano sul piano politico-ideologico con altri (ad es Nigeria) e vecchie aree di conflitti “dormienti” che si riattivano periodicamente (Frontiera Indo-pakistana, isole Senkaku ed isole Paracel). Ma, allo stato dei fatti ed a meno di eventi imprevedibili, non è probabile che nessuno di questo possa portare ad un conflitto generalizzato.

Lo scenario più preoccupante, che può innescare uno scontro militare di proporzioni incalcolabili, è sicuramente quello ucraino del quale possiamo temere una rapida degenerazione già in estate. Abbiamo una serie di scenari possibili della crisi ucraina che, in ordine di successione e di gravità crescente, possiamo descrivere in questo modo:

1: i contendenti minori (russofoni e ucraini) continuano a combattersi nelle forme attuali (sotterraneamente aiutati dai rispettivi sponsor) ancora per qualche tempo, in attesa di una soluzione diplomatica

2: uno dei due contendenti minori (Ucraina o Donetsk) lancia una forte offensiva verso l’altro, ottenendo di metterlo in ginocchio e chiudere il conflitto con la sua sconfitta militare

3: l’offensiva vincente di uno dei due contendenti obbliga lo sponsor del perdente ad entrare esplicitamente nel conflitto per evitare la sua sconfitta militare

4: il risposta all’ingresso di uno degli attori maggiori, anche l’altro entra apertamente nel conflitto (con due varianti per gli occidentali: Usa ed Europei insieme o Usa da soli), ma il conflitto si tiene nell’area geografica dell’attuale Ucraina (con o senza Crimea) e con armi convenzionali

5: uno dei due contendenti maggiori ricorre all’uso di atomiche tattiche

6: le azioni militari (soprattutto bombardamenti aerei, attacchi satellitari, eventuali sconfinamenti di carri ecc.) si estendono al territorio russo o di uno dei paesi europei eventualmente impegnati nel conflitto o colpisce unità navali americane

7: gli incidenti su territorio degli attori maggiori si susseguono e provocano l’aperto stato di guerra fra le potenze maggiori

8: la Cina si schiera con i Russi ed i Giapponesi attaccano la Cina generalizzando la guerra.

Come si vede andiamo dall’ipotesi più favorevole (la prosecuzione del conflitto nelle forme attuali sino alla sua composizione) a quella più catastrofica che è la generalizzazione del conflitto, in una vera e propria guerra mondiale a dominante militare.

Allo stato dei fatti (sottolineo: allo stato dei fatti) sembra poco probabile la prima soluzione ed ancor meno probabili le ultime tre. Mentre il calcolo delle probabilità favorisce gli scenari 2, 3, 4. Il problema è che ogni passaggio alla soglia successiva rende sempre più probabile quello ulteriore. Per capirci con un esempio banalissimo: passare dalla fase 1 alla fase 2 implica il superamento di una soglia di resistenza 80, ma dalla fase 2 alla fase 3, la soglia si abbassa a 70, poi dalla 3 alla 4 si passa a 60 e così via, come su un piano inclinato.

A giocare a favore dell’escalation sono una serie di fattori:

-l’obbiettiva difficoltà di Usa e Russia di fare “marcia indietro” senza un fortissimo danno di immagine;

-la radicalizzazione dei due contendenti minori

-l’esigenza di Obama di ottenere un successo in politica internazionale ad un anno dalle nuove elezioni (anche se il candidato democratico non potrà essere lui)

-l’esigenza di Putin di non prestare il fianco ad attacchi degli ultranazionalisti russi.

Ma, soprattutto, gioca la collisione fra i rispettivi progetti strategici: gli Usa che, per mantenere la posizione di unica superpotenza e per contenere la Cina, devono impedire che la Russia diventi il “terzo incomodo” fra loro e i cinesi e l’esigenza opposta dei Russi che vogliono tornare ad essere nel Top delle potenze mondiali.

Al contrario, i fattori frenanti possono essere:

-una eventuale iniziativa cinese che “sparigli” i giochi ed attragga altri (ad esempio India, Brasile e Sud Africa) in un “polo di stabilizzazione” ostile alla guerra

-il probabile inserimento di terzi che approfittino del conflitto per farsi spazio (in particolare nell’area Me-Na) obbligando i contendenti maggiori a frenare la corsa allo scontro per dedicarsi ad altri scenari

-un crollo del fronte interno russo, con una caduta di Putin
l’eventuale mobilitazione dell’opinione pubblica europea contro l’ipotesi di coinvolgimento della Ue o di singoli paesi europei nella guerra.

Questi fattori meritano qualche considerazione in più. La Cina tradizionalmente è piuttosto debole sul piano diplomatico internazionale, concependo la politica estera come una serie di relazioni bilaterali e rifuggendo da iniziative plurilaterali, ragion per cui conta su pochi alleati e piuttosto infidi (come Pakistan e Corea), dunque non sarebbe assolutamente semplice ed implicherebbe un mutamento della prassi sin qui seguita, cui, però, potrebbe essere spinta dal timore di una prossima guerra con il Giappone ed in un momento economicamente e socialmente piuttosto delicato. Infatti, la Cina deve fare i conti con la graduale discesa dei suoi tassi di crescita e con il “vuoto demografico” delle prossime classi di età destinate a sostituire quanti stanno per uscire dal mercato del lavoro: ogni guerra miete vittime prima di tutto fra i ventenni e trentenni, per cui, un ulteriore assottigliamento delle prossime classi in età da lavoro, potrebbe stroncare definitivamente i sogni di espansione di Pechino. Dunque, la Cina ha ragioni maggiori degli altri per temere un conflitto di proporzioni vaste in questo momento. Inoltre, in un quadro fortemente perturbato dell’ordine mondiale, la Cina potrebbe temere il riacutizzarsi del suo contenzioso con l’India o con Giappone o Vietnam. Di qui la possibilità che Pechino si induca ad una iniziativa straordinaria.

Il secondo fattore è essenzialmente legato a tre punti principali: la guerra contro il Califfato, una possibile nuova esplosione del conflitto israelo-palestinese, l’improvvisa destabilizzazione dell’Arabia Saudita magari a seguito della guerra yemenita. A parte andrebbe considerato lo scenario iraniano attualmente orientato alla distensione, ma non per questo totalmente pacificato.

Ovviamente il punto più delicato è quello saudita: l’Arabia Saudita rappresenta circa un quarto delle riserve mondiali attualmente in uso, la messa in pericolo dei suoi pozzi, prevedibilmente, implicherebbe una impennata senza precedenti nei prezzi degli energetici. E, se un contenuto rialzo di questi prezzi potrebbe essere visto di buon occhio da Washington, ben altra cosa sarebbe una loro esplosione. Segnali di una destabilizzazione di Ryiad iniziano ad esserci, ma ancora siamo a livelli piuttosto bassi di allarme, le cose cambierebbero in presenza di una esplosione fondamentalista, magari innescata dal volgere al peggio della guerra yemenita. Se dovesse profilarsi una situazione del genere, gli Usa sarebbero costretti a convertire la loro attenzione prevalente verso la penisola arabica, allentando presa verso l’Ucraina.

Il terzo fattore è un’eventuale caduta di Putin che è esattamente quello cui gli Usa stanno lavorando. Di una destabilizzazione interna russa c’era stato un segnale con l’omicidio Nemstsov e l’improvvisa assenza di Putin, ma la cosa sembra essere rientrata e, nel complesso, pare che per ora Putin continui ad avere dalla sua l’opinione pubblica russa.

Ma il punto decisivo, probabilmente, è l’evolvere della situazione europea. Per gli Usa un intervento nella guerra ucraina senza il contemporaneo intervento europeo sarebbe altamente disagevole, sia per l’ isolamento politico che ne deriverebbe, sia perché sarebbe arduo e costoso inviare e rifornire truppe in campo ucraino, senza poter fare affidamento sulle basi europee. Nella decisione dei governi europei sul da farsi pesa il consueto servilismo verso gli Usa, ma pesano anche gli interessi economici e l’ostilità dell’opinione pubblica europea a lasciarsi coinvolgere in una guerra. Il guaio peggiore è che, almeno per ora, non ci sia una percezione adeguata del pericolo e l’opinione pubblica europea è piuttosto inerte.

Sensibilizzare gli europei in materia è, pertanto, il problema prioritario in questo momento.