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Integrazione monetaria e interessi nazionali

di Lorenzo Innocenti - 19/05/2015

Fonte: Eurasia


INTEGRAZIONE MONETARIA E INTERESSI NAZIONALI

Alcuni elementi riguardanti l’architettura della moneta unica europea, l’euro, risultano oggi oggetto di particolare discussione.
Perché la BCE non può fare da prestatore di ultima istanza? perché i parametri finanziari retti dal Trattato di Maastricht (1992) sono così rigidi? perché le istituzioni europee tendono a perseguire con tanta insistenza politiche di riduzione della spesa pubblica e di contenimento dell’inflazione?
Questi ed altri punti controversi possono essere spiegati osservando i processi che condussero all’adozione del Sistema Monetario Europeo (1978), a tutti gli effetti il progenitore di Maastricht e dell’euro.
Innanzitutto va spiegato il contesto all’interno del quale nacque un simile progetto di integrazione: dal 1944 (Conferenza di Bretton Woods) al 1971 il sistema monetario internazionale si fondò su due assunti fondamentali: il primo, la convertibilità del dollaro in oro (1) a un valore fisso di 35 dollari l’oncia; il secondo, la rigidità dei tassi di cambio tra le valute aderenti al sistema (2).
Con questo si era cercato di impedire quanto più possibile la gestione unilaterale dei tassi di cambio da parte dei singoli Stati, dinamica questa che -attraverso le politiche protezionistiche che ne erano derivate- aveva condotto direttamente alla Seconda Guerra Mondiale.
Questa situazione convenne a tutti i contraenti (e specialmente agli Stati Uniti, che traevano enorme profitto dal fatto che la loro moneta fosse utilizzata come riserva e mezzo di scambio nelle transazioni internazionali (3)) sino a che l’economia di riferimento del Sistema poté godere di ferrea salute. Ma le cose cambiarono a partire dagli anni sessanta, quando l’egemonia commerciale degli Usa cominciò a venire messa in discussione dalle economie rapidamente emergenti di Germania, Francia e Giappone.
Ora, senza soffermarsi sulle varie dinamiche che caratterizzarono tale mutata situazione, basti sapere che il Presidente Nixon, il giorno di Ferragosto del 1971, annunciò pubblicamente la decisione unilaterale del suo esecutivo di sospendere la convertibilità aurea del dollaro. Venuto meno il legame del biglietto verde con l’oro, gli Stati Uniti poterono passare senza timori ad una politica monetaria espansiva, svalutando il dollaro e cercando così di rilanciare le proprie esportazioni; questo tuttavia trasmise massiccia inflazione sui principali partner commerciali di Washington (i Paesi europei e quelli produttori di petrolio), generando enormi squilibri nelle loro economie e creando un contesto internazionale di completo caos.
Fu per trovare una soluzione a tali problemi che sorse, allora, la volontà di riprendere in mano un progetto di integrazione europea che nei decenni precedenti aveva conosciuto nette battute d’arresto; se i Paesi della Comunità (per i quali gli scambi commerciali intracomunitari rappresentavano la massima parte di quelli totali (4)) avessero creato un sistema monetario comune si sarebbero resi indipendenti dalle influenze esterne e sarebbero stati capaci di costruire un blocco di straordinaria rilevanza nell’universo capitalista, economicamente superiore persino a quello statunitense (per quanto non, almeno nel breve-medio periodo, sotto i profili politico e militare).
Ma se queste furono le spinte maggiori che condussero alla creazione del Serpente monetario, prima, e dello SME, poi, ve ne furono molte altre e molto forti che rendono l’analisi di tali processi più complessa e sottile.
Fu, infatti, anche una storia di interessi nazionali: quelli della Germania, innanzitutto, che vedendo le proprie esportazioni calare sensibilmente, a causa di un marco che seguitava a rivalutarsi in risposta alla svalutazione del dollaro, pensò di creare una banda di oscillazione entro cui vincolare le altre monete comunitarie, in maniera tale da impedire ai Paesi europei (in particolare l’Italia, le cui esportazioni industriali erano trainate dalla lira debole) di effettuare svalutazioni competitive. Allo stesso tempo tuttavia, la Bundesbank -la Banca Centrale tedesca- era fortemente contraria ad un simile progetto, temendo che il marco potesse subire svalutazioni affiancandosi a valute deboli come quella italiana; da ciò nacque una complicata trattativa tra il cancelliere Schmidt e il governatore Emminger, e scaturì quel particolare compromesso tra valutazioni politiche e calcoli finanziari che avrebbe in seguito condotto a fattori quali la rigidità dei parametri di Maastricht e la scarsa autonomia goduta dalla BCE (5).
Poi gli interessi della Francia, la quale aveva compreso quanto rischioso fosse, nel medio-lungo termine, seguitare ad effettuare svalutazioni competitive per permettere all’economia nazionale di respirare in quel momento di crisi economica. Parigi era disposta a far dei sacrifici e a cedere a Berlino la posizione di potenza principe nel continente, ma voleva ottenere dei vantaggi da tale alleanza (vantaggi che un rapporto privilegiato con la Germania poteva garantirle) e, soprattutto, desiderava assicurarsi che tali sacrifici fossero sopportati da tutti i membri della Comunità (anche qui la preoccupazione maggiore era rappresentata dall’Italia e la sua industria), in maniera tale da limitare le perdite.
E ancora la Gran Bretagna, il cui legame con Washington era più saldo che mai e che dunque desiderava soprattutto partecipare ai negoziati per poterli manovrare in opposizione al progetto franco-tedesco (che andava, si capirà, apertamente contro agli interessi commerciali statunitensi e, nel lungo termine, a minacciare la stessa egemonia economica e politica internazionale degli USA); inoltre anche Londra sperava di poter ottenere dei vantaggi pratici dalle trattative, nel senso di raggiungere un accordo che concedesse degli spostamenti di ricchezza dai Paesi più forti (Germania in primis, che stava accumulando enormi quantità di riserve in dollari ed altre attività) verso quelli più deboli.
Infine l’Italia, la quale, per una serie di valutazioni interne al partito allora egemone, la DC, andò invece contro i propri immediati interessi, accettando un compromesso con i tedeschi e acconsentendo ad entrare nel Sistema in cambio di condizioni agevolate rispetto agli altri membri (venne ad esempio concessa una banda di oscillazione più ampia per la lira: ±6,25% rispetto al marco, invece del ±2,25%) (6). Va detto che tale decisione fu fortemente osteggiata da importanti economisti italiani, tra cui l’onorevole Spaventa, il quale pronunciò una netta ed autorevole critica all’ingresso dell’Italia nello SME durante il dibattito parlamentare che precedette il voto sull’adesione al Sistema. E va detto anche che, anche da parte dorotea, non si guardò mai all’adesione come a una fonte di potenziali vantaggi per il Paese, ma piuttosto come a un passaggio politico obbligato se si voleva mantenere Roma vicino alle principali potenze europee (7).
Ciò che rende particolarmente interessante ognuna di queste dinamiche è, senza dubbio, il loro ripetersi con minime differenze negli anni successivi, da Maastricht all’entrata in vigore della moneta unica europea: l’euro, sino ad oggi.

NOTE
1)Si noti bene: soltanto il dollaro era convertibile in oro. Inoltre la convertibilità era limitata ai non residenti ufficiali negli Stati Uniti: ai cittadini statunitensi era precluso il possesso di oro già negli anni trenta e, a partire dagli anni cinquanta, venne impedito anche all’estero. Cfr. Riccardo Parboni, Il conflitto economico mondiale, capitolo 1.9, p. 33.
2)Dunque tutte le valute dovevano mantenere un valore fisso rispetto al dollaro; erano consentite solo lievissime oscillazioni in caso di squilibri fondamentali.
3)Questa condizione prende il nome di signoraggio.
4)Cfr. Riccardo Parboni, Op. cit.
5)EMS: Bundesbank Council meeting with Chancellor Schmidt (assurances on operation of EMS), 30 novembre 1978,[declassified 2008], Margareth Tatcher Foundation Archive.
6)EMS: UKE Rome to FCO (frank accounto on Schmidt-Andreotti talks in Rome on EMS), 2 novembre 1978, [declassified 2008], Margareth Tatcher Foundation Archive.
7)“Il 31 dicembre mi telefonò Giscard. Ero all’aeroporto di Pisa. Mi disse: ‘Ci sono problemi, abbiamo bisogno di un altro po’ di tempo’. Ma ormai era fatta. Se c’è una morale in questa storia è che il varo dello SME, come 13 anni dopo il Trattato di Maastricht, e poi l’introduzione dell’euro, stanno a dimostrare l’importanza del primato della politica”. Ossia del primato delle scelte politiche su quelle economiche (fra gli altri, il governatore della Banca d’Italia Baffi si era detto da subito contrario ad un Sistema monetario europeo organizzato sulla falsariga del già fallito Serpente monetario del 1972). La frase di Andreotti è tratta da: Andreotti: l’adesione allo SME, il sì di Berlinguer e quella notte cruciale con Ciampi, di Felice Saulino, Corriere della Sera, 31 dicembre 2001..