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Tarek Aziz, i soliti silenzi dei soliti noti

di Claudio Moffa - 16/06/2015

Fonte: lindro


Il ‘volto umano’ del regime ‘del sanguinario’ Saddam Hussein? Trpppo banale

Tariq Aziz
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Indifferenza e ‘pigrizia redazionale’? Se è lecito il neologismo, sì, sembrano proprio queste le modalità con cui molta stampa italiana ha commentato la morte, a 79 anni, in carcere, dell’ex Ministro degli Esteri iracheno Tarek Aziz, cristiano caldeo, e militante fino all’ultimo del partito Baath iracheno di Saddam Hussein. Pigrizia, perché molte testate hanno inserito nel loro pezzo una lunga frase già pubblicata nel lontano 2003 da ‘Toscana oggi’, e probabilmente ripresa da un’agenzia tre giorni fa, senza che venisse rimodellata o aggiornata da quotidiani e redazioni televisive che ne hanno fatto uso. Indifferenza, e bisogna aggiungere, travisamento dei fatti perché, con maggiore o minore efficacia, tutti hanno seguito un medesimo clichet per presentare l’ex Ministro degli Esteri e vicepresidente dell’Iraq: lui, Tarek Aziz, era il ‘volto umanodel regime del sanguinarioSaddam Hussein, un diplomaticopresentabile’ da mandare in giro a difendere una dittatura che aveva commesso e continuava a commettere orribili ‘atrocità’. Tutto qui. Mi ripeto, lo so. Ma a me non torna: in questa rappresentazione vengono cancellati troppi fatti e protagonisti del lungo assedio all’Iraq culminato con il linciaggio di Saddam Hussein nel 2006, 15 anni dopo l’aggressione del 1991. Viene cancellato, innanzitutto, il partito Baath, un partito di massa, con una sua ricca storia alle spalle, e che appare sulla scena politica irachena già nel 1963: ecco dunque che il ‘volto umano’ del regime di Bagdad viene presentato non come il militante di un raggruppamento politico laicheggiante, panarabista, di ispirazione socialista, ma solo come una personalità cosìbuonada essere probabilmente undebole’, unavittimache subiva un rapporto quasi solo personale con il Presidente-boss iracheno. Non è così: non posso dire di averlo conosciuto, ma sicuramente ho ‘visto da vicino’ Tarek Aziz in un convegno internazionale (e trasversale, con ong di sinistra e associazioni di estrema destra, da tutti i Paesi del mondo) a Bagdad nel 2002, e di lui ho questo ricordo preciso. Alla presidenza per lunghe ore, l’allora Ministro degli Esteri citò nelle sue conclusioni un intervento di un europeo che aveva sostenuto la necessità per tutti coloro che avevano partecipato a quella conferenza, di mantenere ciascuno la propria identità politica, ideologica o religiosa, ma senza scagliarla l’una contro le altre, e smussandola invece a favore di una vasta unità contro il nemico comune, il ‘razzismo sionista’. La risoluzione dell’ONU che nel 1975 aveva equiparato il sionismo al razzismo, era stata abrogata nel 1991, ma a Bagdad era evidentemente ancora ben considerata. Il partito Baath era anche e soprattutto antisionista: e il «sionismo maledetto», sarebbe stato denunciato da Saddam Hussein nella sua conferenza stampa del 20 marzo 2003, a bombardamenti iniziati, come il Potere che stava «dietro gli inglesi e gli americani». Una frase bomba, casualmente tradotta in simultanea dall’interprete utilizzato dal ‘TG 1’ la mattina dell’attacco, ma che nessuna testata avrebbe poi riferito nelle ore e nei giorni successivi. Normale, Watson. La morte di Tarek Aziz diventa così -anziché una denuncia dello scempio compiuto dall’Occidente con la guerra di annientamento del regime di Saddam, ex alleato di tutti i Paesi occidentali, USA inclusi- l’occasione per un déjà vu censorio, che ha riguardato e riguarda sia la fase di incubazione della prima guerra del golfo, sia le successive guerre guerreggiate: leggete non solo la solita Wikipedia, ma anche Stefen Zunes, ‘La scatola esplosiva: la politica americana in Medio Oriente’, Feltrinelli editore, o i manuali di storia, e non troverete citata mai o quasi mai, in cronologia, la data del 12 agosto 1990, quando -dieci giorni dopo l’illegittima invasione del Kuwait- Saddam Hussein fece un discorso in cui dichiarava di accettare di ritirarsi dall’Emirato appena occupato, se Israele avesse fatto lo stesso con i Territori palestinesi invasi nel lontano 1967. Quel discorso, che riduceva e riduce la presunta forbice tra il ‘sanguinario’ rais e il suo Ministro ‘dal volto umano’, fu diplomaticamente importante: venne sostenuto da Arafat; su di esso fecero sponda nell’autunno 1990, alle Nazioni Unite, François Mitterrand e Giulio Andreotti per cercare una via di soluzione pacifica alla crisi; e venne persino usato da George Bush senior quando chiese a Yitzhak Shamir, in visita a Washington agli inizi di dicembre del 1990, se accettava appunto l’idea di una conferenza internazionale sul Medio Oriente. La ‘diplomaziadi Tarek Aziz, dunque, non era uno svolazzare senza senso, una immagine fittizia, sulla realtà delleatrocitàsaddamiste, ma stava già nella testa del leader iracheno, o forse e ancora meglio, in una strategia concordata ai vertici del partito baathista.

Le commemorazioni monche e faziose impediscono di capire, d’altro canto, non solo il passato, ma anche il presente: è un dato di fatto inoppugnabile che le radici dell’Isis sunnita, vadano ricercate proprio nella guerra del 2003, e, in particolare, da una parte nella politica persecutoria e di annientamento del partito Baath da parte del Governatore americano Paul Bremer, e dall’altra nelfederalismo economicodel nuovo Stato post-baathista, con le risorse petrolifere non più intese come proprietà indivisa di tutto il popolo iracheno, ma come mezzo di maggiore reddito per le popolazioni del sud sciita e del nord curdo, sedi dei principali giacimenti petroliferi. L’Isis nasce dal declino storico del sunnismo iracheno a vantaggio delle altre due componenti dell’Iraq: il suo estremismo, le sue azioni feroci -ben strumentalizzate nell’ambito di una strategia del caos che non avvantaggia alla fine nemmeno gli Stati Uniti e gli inglesi- stanno guadagnando purtroppo ampi strati di una etnia-religione un tempo egemone in Iraq, ed ora attratta dall’idea di una vendetta storica, in una spirale del terrore da cui si rischia di non uscire mai. Nato in Iraq, lo Stato Islamico rappresenta la morte di un Paese in cui un tempo esisteva un Governo stabile, sicuramente dittatoriale, ma dedito al benessere pubblico senza distinzioni di razza o religione. Tutto distrutto, da un oltranzismo occidentale succube di tappa in tappa del suo animo peggiore: anche questo rappresenta la morte di Tarek Aziz, un volto umano a simboleggiare le centinaia di migliaia di cristiani oggi perseguitati in Medio Oriente, per colpa prima ancora che dell’estremismo islamico, di quello occidentale che lo ha generato, con la sua folle idea di voler esportare la democrazia con le invasioni e i bombardamenti aerei.