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Jurassic world: una metafora involontaria

di Marco Zonetti - 29/07/2015

Fonte: Arianna editrice


 

Jurassic World, recentissimo quarto capitolo della saga di Jurassic Park e già annoverato fra i tre maggiori incassi di sempre, rappresenta involontariamente una metafora – addirittura doppia – dell’inesorabile decadenza dei nostri tempi. Doppia in quanto evidenzia, perlopiù senza volerlo, la dolente china intrapresa dalla cultura – in questo caso cinematografica – e dalla tecnica in tutte le sue declinazioni, in primis quella applicata alla genetica.

Per chi non l’avesse visto, la trama è facilmente riassumibile: malgrado ventidue anni prima si siano verificati degli incidenti mortali che hanno dimostrato i rischi agghiaccianti della manipolazione della Natura, il folle progetto di ricreare dei dinosauri in laboratorio e di esporli in un parco a tema per la gioia di grandi e piccini è finalmente divenuto realtà. Jurassic World attira visitatori da tutto il mondo, che accorrono per vedere dal vivo brontosauri, pteranodonti, stegosauri, T-Rex, un immenso mosasauro e così via. Ma questa volta gli scienziati hanno voluto superare ogni limite grazie alla creazione di un ibrido che assembla le caratteristiche di varie specie. È il più temibile dei residenti fissi del parco: l’Indominus Rex (anche il nome è un ibrido latino, crasi fra Indomitus e Dominus), un enorme carnivoro dalle mille risorse, tra cui la facoltà di mimetizzarsi o di variare la propria temperatura corporea per sfuggire alle rilevazioni termiche. E che ovviamente darà molto filo da torcere ai protagonisti del film.

Suo malgrado, questo Indominus Rex incarna principalmente la doppia metafora di cui sopra. Il dialogo serrato fra il miliardario proprietario del parco, smanioso di garantire sempre nuove attrazioni per una logica legata esclusivamente al lucro, e il genetista creatore dell’ibrido è illuminante (e inquietante al tempo stesso). Quando, dopo la sanguinosa fuga del pericoloso ibrido, il proprietario del parco rinfaccia al genetista di aver generato un mostro e, implicitamente, di aver dato vita a qualcosa di non reale, il suo interlocutore gli risponde: “Lei non ha chiesto la realtà, lei ha chiesto più denti”.

Questa semplice frase è la chiave per analizzare la pellicola e il suo involontario messaggio.

Dal punto di vista prettamente cinematografico, con Jurassic World si assiste definitivamente all’abbandono della scrittura, dell’introspezione psicologica dei personaggi e della solidità del canovaccio a favore, appunto, di “più denti”. La sceneggiatura fa acqua da tutte le parti, la sospensione dell’incredulità è messa seriamente a dura prova e gettata definitivamente alle ortiche nell’ultima parte del film e i personaggi sono tagliati con l’accetta (quando invece, almeno nel primo film della saga, la sapiente scrittura, la solida sospensione dell’incredulità e l’abile caratterizzazione dei personaggi rappresentavano la vera forza della storia). Ma al regista e ai produttori, fra cui in veste di executive producer lo stesso Steven Spielberg, tutto ciò sembra non importare. Come per il proprietario del parco di cui sopra, a loro basta che vi siano il lucro, gli incassi, il trionfo al box office.

E anche Jurassic World, infatti, è a modo suo un ibrido come l’Indominus Rex: è il concetto di Transformers applicato ai dinosauri (non per niente, guarda caso, nell’ultimo capitolo della saga dei robot mutaforma ci sono anche i Dinobots…). La dinamica prettamente statunitense del “Più grosso è meglio è”, che negli USA viene applicata praticamente in ogni campo, in Jurassic World regna sovrana. In pratica, basta che i dinosauri abbiano “più denti” e il resto è del tutto superfluo, con buona pace della narrazione e del buon cinema e, in ultima analisi, dell’intelligenza degli spettatori.

Se il messaggio “Don’t mess with Mother Nature” (“Lascia stare Madre Natura”, in soldoni), che nel film capostipite era l’elemento portante della narrazione, torna a far capolino (debolmente, ma tant’è) nel suddetto discorso fra il proprietario del parco e il genetista, è paradossalmente la morale involontaria del film a farci riflettere. Per la nostra avidità, siamo ormai disposti a tutto – ci suggerisce il film – anche a creare dei mostri in laboratorio, giocando agli scienziati pazzi con il DNA… basta avere le disponibilità economiche o le sovvenzioni per farlo. L’eugenetica finanziata dal denaro, insomma, la tecnica messa al servizio di chi può permettersi qualunque cosa, anche di manipolare la natura per raggiungere i propri scopi. Nella finzione abbiamo chi riporta in vita dinosauri estinti milioni di anni fa, o addirittura chi li crea di sana pianta abbinando caratteristiche di specie diverse; nella realtà abbiamo invece coppie sterili che, grazie a donatori esterni di sperma o di ovuli o financo di uteri, riescono a concepire figli (nel caso della maternità surrogata previa transazione economica con la madre biologica, cui verrà strappato il figlio dopo il parto); o coppie dello stesso sesso che, tramite mix di spermatozoi che feconderanno in laboratorio l’ovulo di una donatrice, che sarà quindi impiantato nell’utero di una madre surrogata, la quale incuberà un bambino per poi privarsene (anche qui a scopo di lucro), riusciranno ad avere un figlio, benché fisiologicamente impossibile senza l’aiuto esterno di medici (e senza la disponibilità economica). La macchinosa descrizione della dinamica del concepimento basterebbe da sola a dare l’idea dell’assenza totale di spontaneità (e di poesia, e di magia, e di mistero, e così via) di questo genere di filiazione rispetto a quella naturale.

C’è qualcosa di “naturale” nel ricorrere a un utero in affitto per produrre a tavolino un essere vivente con determinate caratteristiche, scegliendo ad hoc la madre surrogata tramite catalogo on-line, come una volta si sceglievano per corrispondenza le mutande o i prendisole estivi? «Nothing in Jurassic World is natural» (A Jurassic World non c’è nulla di naturale), dice sempre il genetista al miliardario preoccupato di essersi spinto troppo oltre per smanie di arricchirsi. E inquieta rendersi conto che anche nel nostro mondo, il concetto di “naturale” sta diventando sempre più sfumato, e che la realtà sta assumendo connotati sempre più fantascientifici. Ma così come lo sfilacciato e mediocre Jurassic World sbanca al botteghino, gettando una livida luce sul futuro della “scrittura dei film”, l’eugenetica sovvenzionata dal denaro prende sempre più piede, e la realtà lascia il posto a quello che, fino a ieri, era deriva fantascientifica.

Ma forse, come il miliardario del film (e gli altrettanto miliardari suoi produttori), anche coloro che possono permettersi il “lusso” di creare esseri viventi in laboratorio e strapparli alle madri naturali previo contratto, non chiedono la realtà, ma solo “più denti”. Purché, ça va sans dire, siano bianchi e smaglianti.