Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Anni Trenta

Anni Trenta

di Luca Mancini - 16/11/2015

Fonte: Appello al Popolo

    

Image

 


 

Se oggi mi si chiedesse “in che epoca avresti voluto avere 30 anni?”, risponderei senza esitazione: “negli anni Trenta”. Non perché io sia un guerrafondaio, ma perché avrei voluto assistere ai più grandi esperimenti economico-sociali che l’umanità abbia mai visto.

Il 24 ottobre del 1929 a New York, dentro le caotiche stanze della borsa di Wall Street, accadde quello che per alcuni sembrava impensabile dopo i “ruggenti anni venti”, mentre per altri era diventata ormai una timida speranza. In quel giovedì di fine ottobre furono 12.894.650 le azioni che cambiarono di mano, a prezzi sempre più bassi, gettando nella disperazione molti risparmiatori e investitori. La seduta era iniziata in modo tranquillo, ma i prezzi dopo qualche ora presero a scendere a perpendicolo e alle 11,00 si era diffuso un clima di paura, a tal punto che nessuno più comprava. Mezz’ora dopo il mercato era in preda alla psicosi e si verificarono vere e proprie vendite da panico. Quel giorno è passato alla storia come il “giovedì nero” e come il momento più brutto dell’era del capitalismo. Da quel momento in poi, nel campo economico-sociale le cose cambiarono per sempre.

Mentre a Wall Street si respirava un’aria di profondo nervosismo e già si diffondeva la voce che undici noti speculatori si fossero tolti la vita, c’è da immaginarsi la faccia di Stalin, dall’altra parte dell’oceano che leggeva soddisfatto i giornali e i dispacci provenienti dagli Stati Uniti o da Londra, Parigi e Berlino. Se il leader dell’Unione Sovietica usciva per le strade di Mosca o San Pietroburgo la situazione era completamente diversa, come se i sovietici vivessero su un altro pianeta. Mentre nel mondo occidentale le attività chiudevano e si spargevano povertà, disoccupazione e disperazione, le nuove fabbriche sovietiche erano colme di lavoratori e la disoccupazione si avviava verso lo zero. Il liberismo economico, che aveva caratterizzato la politica europea e statunitense negli anni Venti, aveva fallito miseramente, mentre il “socialismo in un Paese solo” propugnato da Stalin trionfava. I russi, spinti dalla dottrina marxista e quindi consapevoli della fallacia del capitalismo, furono i primi a sperimentare un’organizzazione economico-sociale differente. Sotto la suddetta dottrina stalinista l’economia sovietica era interamente pianificata ed organizzata dallo Stato tramite i piani quinquennali, ossia dei piani che stabilivano determinati obiettivi economici (una precisa quantità fisica di beni da produrre) da raggiungere in un periodo di cinque anni. Sotto la guida dello Stato, vennero costruite un’infinita di fabbriche nelle sterminate campagne russe, mentre l’agricoltura venne interamente collettivizzata. Nella nuova organizzazione sovietica non esisteva la proprietà privata, non c’era spazio per giochini finanziari in borsa, esisteva soltanto l’economia reale e non c’erano capitalisti, ma non era tutto così perfetto. L’ossessione di Stalin per i capitalisti, portò il regime sovietico a compiere crimini rilevanti nei confronti dei contadini, i quali erano restii a cedere i loro piccoli poderi allo Stato per andare a lavorare nei campi comuni (kolchoz). Nella mente del leader sovietico era sufficiente avere un piccolo orto e magari due mucche per essere considerato un proprietario terriero (kulako) e pertanto un nemico del nuovo ordine costituito. Ad ogni modo, con il sangue dei contadini, in particolar modo di quelli ucraini che opposero una dura resistenza, gli obiettivi del governo sovietico vennero raggiunti e negli anni Trenta la differenza con i Paesi occidentali era evidente.

Mentre negli USA, nello stesso periodo, nessuno riusciva a capire dov’era il problema e la politica non faceva altro che spendersi in messaggi incoraggianti per il mercato, che puntualmente finivano nel nulla, in Europa qualcuno iniziò a guardare con interesse agli esperimenti sovietici.

Nelle stanze di Villa Torlonia a Roma, vi era spesso un Mussolini intento a leggere con estrema attenzione i dispacci provenienti da Mosca. In Italia la crisi del ’29 era stata avvertita meno, rispetto al resto d’Europa, per via di alcune politiche protezioniste che il governo aveva intrapreso. Nel 1927 era stata redatta la Carta del Lavoro, ossia un programma di riforme economiche e sociali che avrebbe portato alla costruzione dello Stato corporativo. Quello che i giuristi Carlo Costamagna e Alfredo Rocco avevano pensato nel redigere il documento era un processo lungo e tortuoso, ma che nella loro idea avrebbe portato alla fine della lotta di classe. Mussolini e i suoi uomini erano consapevoli della fallacia del capitalismo liberista, ma erano anche ostili agli eccessi del sistema stalinista, così tentarono un altro esperimento economico-sociale. L’economia italiana sarebbe stata organizzata in corporazioni, ossia delle istituzioni dove vi erano sia i rappresentanti dei lavoratori che dei datori di lavoro di un determinato settore economico, i quali dovevano smettere di “combattersi” e trovare insieme il miglior assetto per la produzione in quel settore. Tutto ciò doveva essere fatto, partendo dal presupposto che l’interesse e il benessere della nazione erano più importanti di quelli di classe. La proprietà privata non era abolita, ma responsabilizzata socialmente e sottoposta al controllo dello Stato, il quale si assumeva il compito di controllare e dirigere le scelte delle corporazioni e si ritagliava un ruolo importante nell’economia, intervenendovi direttamente in determinati settori strategici, avendo come obiettivo primario il raggiungimento della piena occupazione. Per tutti gli anni Trenta il governo italiano fu impegnato nella graduale realizzazione del sistema corporativo con alterne fortune, ma dando così al mondo una terza possibilità.

In quegli anni molti furono attratti dal complesso sistema italiano, primi fra tutti i tedeschi che guardavano con occhi sognanti alle realizzazioni del regime fascista. Se nelle stanze di Villa Torlonia Mussolini leggeva attentamente i dispacci provenienti da Mosca, nelle camere del Nido dell’Aquila, tra le Alpi Bavaresi, Hitler leggeva avidamente i dispacci provenienti da Roma. Tuttavia i tedeschi decisero di non seguire l’esempio italiano e intrapresero un’altra via. Forse non avevano del tutto compreso i complessi meccanismi del corporativismo, visto che ci sono svariate testimonianze di eminenti professori tedeschi che affermano che il sistema italiano fosse troppo complesso e non adatto per una rapida rivoluzione socio-economica. La Germania nazionalsocialista intraprese così una forma di durissimo dirigismo statalista, non troppo lontano da quello sovietico. Si distingueva da esso per non aver abolito la proprietà privata, ma di fatto essa era sottoposta ad un durissimo controllo statale. Infatti nel 1936 il ministro dell’economia Hermann Göring varò il piano quadriennale per l’economia tedesca, il cui obiettivo principale era rafforzare l’autarchia del regime. Lo Stato intervenne direttamente nelle industrie strategiche, vennero tagliate il più possibile le importazioni, furono stabilite le politiche produttive di determinate aziende e fu avviato un ingente programma di opere pubbliche, di cui la rete autostradale era l’opera più grande.

Nel 1933 anche a Washington capirono che il mercato non si sarebbe ripreso con le sue forze e così dopo aver lasciato milioni di americani nella povertà e nell’indigenza per ben quattro anni, decisero di fare ciò che per ogni buon americano era considerata praticamente una bestemmia: lo Stato sarebbe intervenuto direttamente nell’economia. Dopo tre presidenti repubblicani che difesero il liberismo fino all’ultimo giorno, venne eletto il democratico Franklin Delano Roosevelt che varò un vasto piano di riforme che prendeva il nome di New Deal. Lo Stato avviò un vastissimo programma di lavori pubblici che ridiedero finalmente lavoro ai milioni di disoccupati statunitensi, la FED aumentò la quantità di denaro in circolazione, abbandonando la parità aurea del dollaro e fu avviata la creazione di un’apposita agenzia di elettrificazione che avrebbe portato la corrente elettrica anche nelle campagne, le quali finora non ne avevano giovato. Buona parte di questa energia elettrica era creata dalla TVA (Tennessee Valley Authority), un progetto pubblico per la creazione di centrali idro-elettriche nella valle del fiume Tennessee, il quale costituì la più grande realizzazione pubblica del New Deal.

Gli statunitensi scelsero una via più leggera rispetto a quella italiana, tedesca o sovietica, tuttavia ciò non risparmiò durissime critiche al presidente Roosevelt e ai suoi collaboratori, i quali vennero accusati di importare il fascismo o il comunismo negli Stati Uniti, dove la libertà d’impresa e la non ingerenza statale nell’economia erano considerati dogmi inoppugnabili.

Quando anche gli USA abbandonarono il credo liberista, fu ormai chiaro a tutti che l’era del laissez-faire era finita, come il più grande economista del secolo scorso, John Maynard Keynes, aveva già lucidamente previsto nel suo libro La fine del laissez-faire del 1926. Nella prima metà degli anni Trenta egli ebbe modo di raccogliere tutte le sue idee, espresse in diversi saggi precedenti, nel suo capolavoro Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, che vide la luce nel 1936 e su cui si basarono tutte le politiche economiche del dopoguerra. Keynes, che si definiva liberale, riteneva che per salvare il sistema capitalista fosse necessaria una più equa redistribuzione della ricchezza, al fine di non escludere le classi subalterne dal mondo del lavoro, evitando così che esse rivolgessero tutte le loro speranze verso il fascismo o il comunismo. Per fare ciò era necessario che lo Stato intervenisse direttamente nell’economia nei momenti di crisi, creando nuovi posti di lavoro e quindi aumentando la domanda di beni sul mercato.

Gli anni Trenta possono essere considerati un laboratorio in cui vennero condotti i più grandi esperimenti di riforma economico-sociale della storia dell’umanità moderna. I governi occidentali del secondo dopoguerra seppero far tesoro di tali esperienze e debellarono la dottrina liberista. In questo senso, l’assemblea costituente italiana fu particolarmente all’avanguardia, come è testimoniato dalla parte della nostra Costituzione che disciplina i rapporti economici, nella quale non vi è alcuna traccia del liberismo economico.

Oggi l’Unione Europea persegue un’anacronistica restaurazione liberista, ma la Storia ha già condannato il liberismo una volta e non tarderà a farlo una seconda. Viva la Repubblica Sovrana!