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Sul cosmopolitismo

di Luciano Del Vecchio - 07/02/2016

Fonte: Appelloalpopolo

    

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Il cosmopolitismo (dal greco kòsmos, mondo, e politès, cittadino) tradizionalmente definisce la dottrina che attribuisce a ogni individuo la cittadinanza del mondo; e presenta tre caratteri essenziali, sia come condizioni che come necessarie conseguenze: un assunto individualistico che considera l’uomo autonomo dai vincoli culturali, sociali e politici; l’affermazione di eguaglianza tra gli uomini in virtù di un condiviso elemento unitario come la natura umana o la ragione; e un carattere pacifistico derivato dall’idea di comunanza e uguaglianza. L’accezione individualistica del cosmopolitismo si espresse nella filosofia post-socratica come desiderio di autodeterminazione e di liberazione dai legami politico-territoriali ma, a seconda dei mutamenti storici, si alternò e si compenetrò con il principio di unione e solidarietà tra gli uomini, che i filosofi stoici, in un rinnovato clima politico-sociale, individuarono nella comune natura razionale.

Per il “cittadino del mondo” proclamarsi tale può essere un modo per esprimere insofferenza verso qualsiasi obbligo nei confronti della città-patria e dei suoi concittadini. In tal caso, dichiarando di appartenere al mondo anziché a una patria, il cosmopolita non assume né responsabilità etica di cittadinanza né impegno a rispettare le leggi di nessuno Stato in particolare. Inoltre, il rifiuto del vincolo di solidarietà con la polis non necessariamente né automaticamente lo induce a estendere la responsabilità verso organismi internazionali alternativi alle istituzioni patrie, specie quando questi o non esistono o, esistenti, non sono obbligati giuridicamente a garantire i diritti civili e sociali. Se ne conclude che la “posa” di dichiararsi cittadino del mondo null’altro nasconda che un disconoscimento di appartenenza dettato dall’egoismo del singolo e da un suo comportamento arbitrario.

 

Questo intreccio tra sentimento universalistico e indifferenza per la propria comunità politica carica il concetto di cosmopolitismo di una sospetta ambiguità che, nel corso di varie epoche, fece sorgere giudizi contrastanti. A partire dal XVII secolo i “philosophes“, oscillando tra critiche e approvazioni, ironie e riattribuzioni di senso, lo interpretarono in una duplice accezione. Da una parte ne fecero un concetto moralmente forte, sia pur vago, un ideale umanistico di tolleranza e solidarietà umana il quale, oltre che necessario al benessere spirituale, arricchirebbe culturalmente l’individuo. Voltaire infatti sostiene che il cittadino del mondo può conoscere molto di più la vita e la cultura rispetto al patriota, la cui mentalità sarebbe limitata dai pregiudizi nazionalistici. Dall’altra, il cosmopolitismo rimase un concetto politicamente debole appunto perché quella componente di insofferenza – se non di ostilità – al proprio ambiente d’origine impedisce al principio di reificarsi nella vita politica e ne suggerisce una definizione soltanto in negativo opponendolo al patriottismo.

 

Come il solo slancio di tolleranza e solidarietà, forse sincero ma pur sempre contingente, non può realizzare il modello d’unione disinteressata tra gli uomini, così è arduo credere che la compassione possa sostituire il rispetto delle leggi o rafforzare la giustizia. Per farsi carico di tale compito, non basta la buona fede del singolo, privo di legami con un corpo politico che d’ordinario definisce gli interessi della comunità, ma occorre lo sforzo congiunto dell’intera comunità costituitasi Stato. Il cittadino del mondo, illudendosi di oltrepassare con i propri sentimenti umanitari i confini politico-istituzionali dello Stato, si colloca al di fuori del contesto legale in cui si esprime la volontà generale, riducendo l’impegno a favore dei comuni obblighi politici e minacciando di rompere l’equilibrio costitutivo su cui si regge il patto sociale. Finché è compito dello Stato garantire la sicurezza dei cittadini, il principio cosmopolitico continua a restare politicamente arido e vincolato alla volontà di singole menti incapaci di influenzare la realtà o di suggerire un convincente progetto politico alternativo allo Stato.

 

Non riuscendo a esprimere una concreta visione politica, il cosmopolitismo appare piuttosto ispiratore di un generale modello d’umanità e tolleranza per uomini singoli, viaggiatori, scienziati o letterati, che condividono i loro interessi in comunità laiche sovranazionali (“repubblica delle lettere”), all’interno delle quali il principio cosmopolitico si intreccia alla nozione di universalismo, ma conserva la pretesa individualistica. Tuttavia, se sentirsi “amico” di una vaga e indistinta umanità potrebbe costituire un valore, sia pure utopistico, l’avversione e il disprezzo per la propria comunità d’appartenenza sono impulsi deleteri per il tessuto sociale collettivo. In questa accezione viene menzionato il cosmopolitismo in “Le Cosmopolite ou Citoyen du monde” (1753), un’autobiografia in cui l’autore, Fougeret de Montbron, dichiara di viaggiare senza sosta perché “tutti i paesi sono lo stesso per me” e “cambio paese di residenza secondo il mio capriccio”. In sostanza questa cittadinanza mondiale si risolve in un “individualismo cinico dove l’equivalenza dei luoghi corrisponde al disprezzo per ogni collettiva appartenenza” (Taglioli A, La terra degli altri), in una specie di vagabondaggio avventuroso e nell’irrisione anarchica dell’ordine sociale.

 

Non dunque un rimedio contro l’egoismo naturale degli uomini e il loro individualismo turbato ma, inteso semplicemente come mera contrapposizione all’amor di patria, il cosmopolitismo non fa che alimentare questi istinti in modo ancora più grave, minacciando sempre qualsiasi nuovo organismo politico fondato da una particolare comunità. Nel manoscritto del Contratto sociale, a queste grandi anime cosmopolitiche che si opporrebbero all’egoismo individuale, Rousseau riserva sferzante ironia: “… cominciamo a diventare propriamente uomini solo dopo che siamo diventati cittadini. Questo ci dimostra di cosa dobbiamo pensare di quelli cosiddetti cosmopoliti i quali, […] si fanno un vanto di amare tutto il mondo per godere del privilegio di non amare nessuno”. E ancora, ne l’Emilio, esortando a diffidare dei cosmopoliti che cercano in un lontano altrove i doveri che esitano di compiere a casa propria, li considera come una specie di impostori indifferenti a ogni obbligo morale.

 

Oggi il cosmopolitismo riceve nuova linfa con la globalizzazione, che svuota progressivamente la sovranità degli Stati e prefigura l’istituzione di un governo mondiale. L’interdipendenza dei processi economici e politici sembra rafforzare quel progetto politico di formazione di nuove istituzioni sovranazionali, caldeggiato da Kant, che storicamente è sempre nato debole, ma che non manca di promettere e predicare pace e giustizia a livello globale. In realtà, la sovrastruttura ideale e utopica serve a camuffare lo scopo di assicurare garanzie per il capitale finanziario e di omogeneizzare i mercati mondiali. In questi contesti al cosmopolita autoctono che sdegna l’appartenenza d’origine si è aggiunta una nuova figura di “cittadino di mondo” allogeno e nomade, che sembra recuperare e avvalorare l’iniziale valenza cinica e negativa del termine: il volontario rifiuto di integrarsi in seno alla comunità nazionale dove ha scelto di commerciare e consumare.