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Il TTIP è un inganno

di Gianni Petrosillo - 29/04/2016

Il TTIP è un inganno

Fonte: Conflitti e strategie

Non sono tra quelli che gridano al complotto delle multinazionali contro i popoli. Non credo ai gruppi elitari che pianificano il controllo assoluto dei Paesi e nemmeno ai ricconi in grembiulino che, coi loro soldi, cospirano contro i governi per espandere il loro potere e concentrarlo in poche mani. Semmai, questi cercano di incrementare i propri affari (e profitti) fuori dal mercato mentre ci fanno la predica sulle virtù “naturalmente” regolatorie della mano invisibile che ci rende tutti uguali di fronte alla merce.
Le centrali d’ipocrisia possono soffrire di magalomania ma tengono i piedi per terra meglio di certuni complottisti cabalistici che ovunque intravedono disegni oscuri di nasi adunchi e untuosi banchieri.
L’interpretazione che assegna al denaro caratteristiche di onnipotenza è piuttosto superficiale, essa implica che il campo finanziario sia dominante nel modello sociale in cui viviamo. In realtà, non è così perché tale ambito è quello che prende il davanti della scena, soprattutto nei momenti di crisi in cui sembra che il castello di verdoni ed azioni stia per crollarci addosso.
Il potere però si articola in maniera più complessa tra sfera politico-militare, sfera economico-finanziaria e sfera ideologico-culturale. Ed anche questa è, purtroppo, una riduzione teorica di una realtà molto più vasta. Generalmente è la prima delle tre aree ad avere l’ultima parola sui processi storici, garantendo un coordinamento delL’insieme, per quanto ognuna di esse funzioni per logiche intrinseche ed operi per obiettivi autonomi.
Mi piace citare, in queste occasioni il pensiero, di Thomas Friedman per illuminare i concreti rapporti di forza e la loro collocazione sulla scala del comando capitalistico: “la mano invisibile del mercato globale non opera mai senza il pugno invisibile. E il pugno invisibile che mantiene sicuro il mondo per il fiorire delle tecnologie della Silicon Valley si chiama Esercito degli Stati Uniti, Marina degli Stati Uniti, Aviazione degli Stati Uniti, corpo dei Marines degli Stati Uniti (con l’aiuto, incidentalmente, delle istituzioni globali come le Nazioni Unite e il fondo monetario internazionale… per questo quando sento un manager che dice ‘non siamo una compagnia statunitense. Siamo IBM-USA, o IBM-Canada, o IBM-Australia, o IBM-Cina’, gli dico ‘ah si? bene, allora la prossima volta che avete un problema in Cina chiamate Li Peng perché vi aiuti. E la prossima volta che il Congresso liquida una base militare in Asia – e voi dite che non vi riguarda, perché non vi interessa quello che fa Washington – chiamate la marina di Microsoft perché assicuri le rotte marittime dell’Asia. E la prossima volta che un congressista repubblicano principiante chiede di chiudere più ambasciate statunitensi, chiami America-On-Line quando perde il passaporto”.
Ciascuna sfera sociale è però attraversata da una medesima vibrazione conflittuale (questo è l’elemento comune a tutte), da un flusso costante e irrefrenabile di frizioni e squilibri che rendono instabile qualsiasi scenario e le convinzioni sulle quali poggia. Con le strategie (d’azione) dei soggetti e la precipitazione in apparati (di vario genere) che da tali piani discendono, gli agenti sociali provano ad imbrigliare lo scorrimento delle situazioni, si costruiscono la loro supremazia e si organizzano per mantenere l’egemonia sui nemici, nei differenti perimetri di pertinenza e per un periodo adeguato ai loro scopi. Cioè, possibilmente per sempre. Illusi.
La lotta inter-dominanti in ogni sfera sociale non fa perdere però di vista agli egemoni delle nazioni più consapevoli l’insidia esterna e verso questa pericolosità costoro rispondono quasi sempre all’unisono (con la suddetta coordinazione dei centri politici che hanno una visione più larga dei fenomeni globali) per la conservazione del loro ruolo sul palcoscenico planetario.
Se Paesi e Governi risultano, invece, estremamente sensibili alle sirene finanziarie o si fanno intimorire dalle borse e dai rating di agenzie straniere, adeguando le loro agende ai diktat di queste, vuol dire che soffrono di una intrinseca debolezza che ne attesta l’inadeguatezza ai vertici di quelle istituzioni, con grave danno per i cittadini. Se la finanza statunitense, direttamente o attraverso le cricche speculatrici italiane, esercita un ascendente eccessivo sulle pratiche politiche nostrane, la responsabilità va fatta ricadere sulla banda di smidollati che siede in Parlamento e che baratta la sovranità statale con la cadrega e la carriera. In simili frangenti, esiste effettivamente una sottomissione della politica all’economia (tanto interna che esterna), ma non si tratta di un destino irreversibile dell’umanità nel suo cammino verso l’orizzonte del capitale, quanto della sventura che ha quel popolo particolare ad esser guidato da servi impressionati dalle ideologie di servizio. Anche i fanfaroni che blaterano di dittatura finanziaria generalizzata, quale ultimo gradino (dis)evolutivo del “Capitale Totale”, non vedono queste decisive disuguaglianze oppure sostengono volutamente la disfatta del proprio paese in cambio di notorietà e assegni generosi, usando i paraventi del fato, più baro (come loro) che cinico. Chi evoca il finanzcapitalismo è, insomma, uno che ci sta prendendo in giro mascherando i suoi intenti.
Passiamo agli esempi concreti. Oggi, in Europa, sono tutti concentrati sul famigerato TTIP, l’accordo per la formazione di un’unica zona di libero-scambio atlantica che dovrebbe garantire maggior benessere agli aderenti. C’è chi esulta per la grande opportunità e chi in essa vi scorge la catastrofe. Né l’una né l’altra. In primo luogo non sarà il TTIP, la “Nato economica”, a cambiare le sorti dell’Europa. Queste sono già negativamente segnate dalla presenza sul nostro suolo della “Nato militare”. Sicuramente, con questa ennesima trovata le catene che già ci avvolgono potrebbero divenire più strette. Attualmente, l’Ue non può liberamente impegnarsi in business che le sarebbero molto favorevoli a causa di inopportune insistenze Usa. Basti pensare agli accordi energetici con la Russia interrotti da simili interferenze espresse “diplomaticamente” in più di una occasione. Con il TTIP le complicazioni, già alquanto artificiose (che celano interessi geopolitici di ben precisa portata), si travestiranno da norme e finiranno nei tribunali. Saranno i ricorsi delle multinazionali americane ad impedire le intese considerate ostili o non gradite a Washington, che ricorrerà ugualmente ai sistemi meno ortodossi, da noi ben conosciuti, però dopo aver tentato le vie legali o contemporaneamente ad esse.  Comunque, i meccanismi si intricheranno ulteriormente e ad approfittarne non sarà Bruxelles. In sé, un trattato di libero-scambio non ha nulla di male. Io ti apro il mio mercato, tu mi apri il tuo, ci facciamo una bella concorrenza che ci spinge entrambi ad innovare, crescere, migliorare, interagire, eccellere, creare occupazione, condividere best practices, sinergie, ecc. ecc.
Questo nel migliore dei mondi possibili che però non è il nostro. Infatti, i settori all’avanguardia, quelli che davvero contano in questa fase di sviluppo, si basano su brevetti, segreti industriali, furti di progetti, corruzione di governi, guerre ad hoc per accaparrarsi le materie prime, strategie di mercato nelle quali è coinvolta l’intelligence, ecc. ecc.
Altro che libero mercato e trasparenza nei commerci! Infatti, come mai gli Stati Uniti che caldeggiano questa intesa con loro osteggiano una simmetrica collaborazione dell’Europa con la Cina sugli stessi argomenti? Il trade dovrebbe essere free per tutti e con tutti, almeno in via di principio. Ma i principi americani sono sempre alquanto parziali. Si universalizzano quando ci sono loro di mezzo, in caso contrario, ovviamente, no. Anche gli inglesi, all’epoca della loro supremazia mondiale, cercavano di convincere i competitors che la via migliore per progredire, tutti insieme appassionatamente e pacificamente, fosse quella secondo la quale i paesi dovevano specializzarsi in ciò che sapevano fare meglio e a costi contenuti ottenendo quello che non erano in grado di produrre con lo scambio sul mercato. I portoghesi facciano il vino, i sudditi di sua maestà tutto il resto. E se poi scoppia una lite per futili motivi chi la spunterà tra i due? Avranno la meglio le molotov artigianali fabbricate con le bottiglie di vinho o le guns esitate in serie? Ecco perché anche i portoghesi devono acquisire il know how per mettere in opera quello che non sono immediatamente abili a fare, al fine di non dipendere dagli altri nei momenti difficili. Scrive in proposito La Grassa: “La teoria dei costi comparati (Ricardo), l’antesignana di tutte le teorie del “libero” commercio internazionale (con vantaggi, presunti, per tutti!), era la teoria dei dominanti centrali dell’epoca, gli inglesi, gli unici ad avere sviluppato un’industria capitalistica, e che volevano quindi ridurre tutti gli altri paesi a zone di smercio dei loro manufatti e a semplici fornitori di materiali agricoli e minerari. In Germania prevalsero di fatto invece – superando l’opposizione dei reazionari agrari rappresentati dagli Junker – le tesi protezionistiche di List (non protezionistiche in linea di principio, ma solo nella fase dell’industrializzazione nascente), e quel paese divenne la nuova potenza industriale, superando a fine ottocento-primi novecento l’Inghilterra. Non diversamente si comportarono gli altri paesi della “seconda ondata” dell’industrializzazione”.
Non è che gli americani, i predominanti di ora, quelli più progrediti tecnologicamente, si siano messi in testa le medesime idee degli inglesi? Non è che costoro, entrando nel nostro mercato, vogliano innanzitutto assicurarsi che l’Europa non devii dai ben noti principi commerciali che assicurano il loro incontrastato primato? E se l’Europa si mettesse a fare comunella con russi e cinesi?
I nostri uomini a Bruxelles ci direbbero che siamo paranoici… Forse. Ma loro sono dei miseri schiavi.